Il commercio e la produzione della liquirizia a Crotone nel Settecento

Concio liquirizia

Ruderi del concio per la lavorazione della liquirizia in località S. Pietro di Isola Capo Rizzuto (KR).

I primi documenti sull’esportazione dal Crotonese di liquirizia risalgono alla seconda metà del Seicento. L’undici luglio 1679 il genovese Battista di Scormè, patrone di una tartana, dichiarava di aver noleggiato la sua barca al napoletano Vincenzo Volpicella per andare a caricare 200 cantara di pasta di liquirizia, 150 a Cassano ed il resto a Crotone. La merce doveva essere condotta a Livorno. Ma a causa della siccità, che rese i terreni aridi e duri, egli riuscì a caricare solamente 141 cantara a Cassano. Arrivato infatti al porto di Crotone non trovò la merce che doveva fornirgli Francesco d’Amico di Cosenza, in quanto quest’ultimo dichiarò di non averne.[i]

Presso la torre di Tripani, in località S. Pietro di Isola Capo Rizzuto (foto fornita da Daddo Scarpino).

 

Commercio e primi tentativi di produzione

Attivi nella commercializzazione ma anche con tentativi di produzione è l’aristocrazia cittadina. Nel luglio 1692 Mutio Bernale ed il figlio Ottavio prendono in prestito da Alessandro Mazzeo, del casale di Mangone, quattro “caccavi di rame per uso di far pasta di regolitia”.[ii]

Alla fine del Seicento i nobili di Crotone sono già ben inseriti nel commercio della liquirizia. Essi fanno da cerniera tra i produttori dei casali silani ed i mercanti di Napoli. Tale posizione era resa possibile dai privilegi che godevano che li facilitava nel commercio. Essi facevano da intermediari finanziari e avevano il controllo del porto e dei magazzini.

Agli inizi del settembre 1696 Stefano Perretta di Albi, casale di Taverna, incaricava il reverendo Giuseppe Locanto di vendere in Napoli della “pasta di regulizia”. Il Locanto il mese dopo riusciva a collocarne 200 cantara presso il mercante Vincenzo Volpicella, al prezzo di ducati dieci il cantaro; ricevendo ducati 300 alla stipula ed il resto alla consegna in Napoli. Secondo gli accordi la “pasta di regulitia” doveva essere “in panetti seu a modo di boglie di cecolata nella forma, seu modello in carta” che lo stesso acquirente fornirà, “di peso ogni boglia ongie sei in circa, … di buona qualità, ben cotta e non brugiata, di radica lavata, purgata di terra e d’ogni altra lordura”.

La liquirizia, messa in duecento casse o barili, a seconda dei desideri del compratore, dovrà essere ben sistemata con fronde di alloro e “le boglie” dovranno essere “ben lavorate, liscie, distaccate e sciolte l’una dall’altra”. La merce, netta di tara, per le fronde d’alloro era stabilito la quantità di rotola due per cento di sopra tara, doveva essere consegnata entro gennaio 1697 nel porto di Crotone da Annibale Berlingieri. Essa sarà imbarcata e posta alla vela a spese del venditore, restando solo le spese per le regie tratte a carico del compratore.[iii]

La posizione intermedia permetteva ai nobili crotonesi di manipolare la merce e di trarre profitto dalle frodi. All’inizio di luglio 1712 fuori le mura della città, dietro al convento dell’Osservanza, mentre gli ufficiali della regia dogana stanno pesando e consegnando la liquirizia, che deve essere imbarcata, intervengono i patroni Nicola Anastasio di Conca e Pietro Bonacore di Praiano. Essi sono giunti a Crotone per imbarcare 500 cantara di liquirizia per conto di Domenico Cosimo di Napoli. Affermano che, salpati da Napoli e giunti a Crotone, presentarono ad Annibale Berlingieri la lettera d’avviso, che ordinava l’imbarco della merce, che si trovava in Santa Severina. Dopo aver caricato le prime 250 cantara di liquirizia, si videro consegnare da Fabrizio Lucifero la rimanente, tutta con le casse fracassate e rotte ed in parte mancanti. Molte casse erano in parte vuote e la liquirizia, “per essere stata lavorata et incassata da più di tre anni era vecchia, patita e di mala qualità”. Non essendo la merce pattuita, protestano contro Annibale Berlingieri e Fabrizio Lucifero”.[iv]

Per tutto il Settecento nel porto di Crotone si susseguono gli imbarchi di pasta di liquirizia, prodotta dai produttori silani ed acquistata dai mercanti napoletani. Alla fine di aprile 1724 è segnalata la presenza nel porto della barca del patrone genovese Gasparo Rezza che, su incarico del mercante napoletano Giuseppe di Lieto, imbarca 52 cantara di pasta di liquirizia, fornita da Silvestro Ponte di Casole, casale di Cosenza.[v]

Sempre alla fine di ottobre di quell’anno Gregorio Niceforo di Stilo vende al mercante napoletano Filippo Mattia Nozzoli 300 cantara di pasta di liquirizia. Il Niceforo, già fornitore del Nozzoli, consegnerà la merce nelle marine di Gerace o di Crotone: le prime 100 cantara entro febbraio, il resto entro maggio. La liquirizia verrà posta alla vela a spese del venditore, mentre il nolo andrà a carico del compratore. Quest’ultimo si impegna a pagare la pasta di liquirizia al prezzo di ducati 11 e grana 12 e mezzo il cantaro se il luogo di imbarco sarà Crotone, ducati 11 se sarà Gerace. All’atto della stipula il Nozzoli anticipa una cambiale di ducati 400 che pagherà Tommaso Domenico Sculco di Crotone. Il rimanente sarà saldato dal Nozzoli a ducati 150 al mese, a partire dal primo dicembre 1724 fino alla fine di aprile 1725, ed il resto alla presentazione delle polizze di carico.[vi]

La pianta della liquirizia (foto di Daddo Scarpino).

Raccoglitori, produttori e mercanti

Lo scavo della radice di liquirizia era fatto da squadre di “cavatori” provenienti dai casali silani durante l’autunno e l’inverno. Particolarmente adatti si dimostrarono i terreni cespugliosi e argillosi del Crotonese, che fornivano un prodotto di buona qualità per l’alto contenuto di glicirrizina. Sulle condizioni di vita dei coglitori di radica di liquirizia getta luce un documento dell’epoca.

Domenico Vecchio ed il socio Giovanni Antonio Mauro, entrambi di Grimaldi, nel mese di ottobre dell’anno 1724 stipulano un contratto con il signor Ignazio Monaco di Cosenza, presso il notaio Francesco Antonio Stello di quella città.

Essi si impegnano a condurre una squadra composta da sessanta uomini alle marine di Cotrone, a Casalnuovo ed a Poligrone a cavare radica di liquirizia ed a essere pagati in base ai cantari raccolti. L’accordo tuttavia non fu rispettato in quanto non fu possibile trovare la quantità contrattata, perché i terreni erano troppo arsi e duri per la mancanza di piogge. I due soci giunsero sui luoghi stabiliti portandosi dietro settantasei lavoratori, che furono divisi in squadre e mandati da Domenico Costaro, fattore di Ignatio Monaco di Cosenza, e da Pietro Lionetti, fattore del signor Silvestro Ponti di Casole, in luoghi diversi. Domenico Vecchio con 38 lavoratori fu avviato a cavar liquirizia in territorio di Crotone.

A questi lavoratori dopo otto giorni se ne aggiunsero altri undici, così divenne una squadra composta da 49 lavoratori. Un’altra squadra operava in territorio di Cerenzia ma, non trovando nulla, ben presto dovette spostarsi in quello di Santa Severina. Allora essa era formata da quindici lavoratori che si misero a scavare nelle terre dette il Regolizetto. Questi lavoratori erano vettovagliati da Diego N. di Pedace, casale di Cosenza, il quale “per avere lucro sopra le fatiche dell’huomini si faceva fare pane di zoglio in detta città di Santa Severina”.

Per sfuggire a tale trattamento quattro uomini ben presto se ne fuggirono. Non trovando niente nelle terre del Regolizetto essi furono costretti a spostarsi in territorio di Crotone. In località detta la Rotondella si fece una giornata con trentasei uomini, ma essa per il poco frutto non fu posta alla taglia dal soprastante, poi otto uomini furono mandati a Crepacore. Qui il soprastante Diego N. li faceva lavorare sino a notte e voleva che dormissero in campagna, come infatti vi dormirono all’aperto per due notti senza fuoco e senza poter mangiare ad ora debita.

Nonostante avessero subito questi ed altri maltrattamenti, già a novembre, dopo poco più di un mese di lavoro, furono malamente mandati via alle loro case. I licenziati andarono allora a trovare Domenico Vecchio che li aveva ingaggiati e protestarono, non solo per i danni causati alla loro salute ma anche per le giornate che avrebbero dovuto rimanere senza lavoro e salario, in quanto mancavano ancora diversi mesi alla scadenza dell’accordo di lavoro, che era l’otto aprile 1725.

Essi fecero presente di essere prontissimi a lavorare ed ad andare a cavare radica di liquirizia in qualunque luogo volesse colui che li aveva ingaggiati ed il soprastante Diego N.. Frattanto altri lavoratori, facenti parte di una squadra mandata in territorio di Casabona, non riuscirono anche loro a trovare radica bastante per fare le loro giornate, “et essendone trastullati se li pagavano o non li pagavano la giornata”, stanchi di essere maltrattati e dell’incertezza se ne partirono altre otto persone.

Tutta questa precarietà sul pagamento delle giornate di lavoro e questi continui maltrattamenti con licenziamenti e fuga di lavoratori ben presto arrivarono alle orecchie di coloro che stavano lavorando nelle campagne di Cotrone. Di questi lavoratori anche perché Serafino Militia, soprastante di detto Signor Monaco, continuamente li “frastornava” con dir loro una volta che non li avrebbe pagati e altre volte che li avrebbe pagati a grana cinque l’uno, oppure “che li faceva fare maise”, se ne fuggirono tre squadre di Pittarella, Pedivigliano e Garropoli.

Queste fughe ben presto cominciarono a ledere anche gli interessi di Domenico Vecchio e Gio. Antonio Mauro, i quali si erano impegnati con Ignazio Monaco a consegnare una determinata quantità di radica. Perciò essi si trovavano ora nella necessità di reclutare altri uomini per poter consegnare quanto contrattato. Alla protesta dei lavoratori così si unì quella di Domenico Vecchio e Gio. Antonio Mauro ed insieme protestarono, non una, ma cento e mille volte contro i sovrastanti Diego N., e Serafino Militia che col loro comportamento avevano creato una situazione non sopportabile. Li citarono per i danni, le spese e gli interessi che in futuro avrebbero patito e anche “delle loro giornate vacate et cavande et delli danari dati alli detti huomini fuggiti e per altri danari di spesa di più all’huomini buscati”.[vii]

Particolarmente attivo in questa prima metà del Settecento è il produttore Gregorio Niceforo. Egli vende pasta di liquirizia al mercante napoletano Andrea di Sarno. Nel maggio 1727 arriva al porto di Crotone la nave “Il Dispaccio” del capitano inglese Giovanni Peake per imbarcare 323 cantara e rotola 40 di pasta di liquirizia.

Il sopracarico della nave Guglielmo Piarella, che cura gli interessi del Sarno, consegna, appena arrivato al porto, la lettera d’avviso a Stefano Lipari di Crotone, rappresentante del Niceforo, che deve consegnargli il carico. Alla consegna della merce il sopracarico fa aprire alcune casse e trova che la pasta di liquirizia non è come previsto dal contratto, cioè “asciutta, frangibile e lustra”. Egli protesta contro il Niceforo ed in sua assenza contro il Lipari, suo rappresentante. Sulle 185 casse, che compongono il carico, ben 25 non corrispondono per qualità. Inoltre la pasta di liquirizia non è stata consegnata alla vela ma al lido del mare, perciò il Piarella ha dovuto sostenere delle spese per le barche che hanno trasportato la merce dal lido alla nave.

A queste proteste il Lipari, a nome del Niceforo, rispose che è possibile nel corso della produzione, poiché la pasta di liquirizia era stata fatta all’inizio dell’inverno, che “non puole venire tutta d’una sorte”, ma questo non è a pregiudizio della qualità, “ciò corre per la necessità del tempo d’inverno, sì per l’acqua torbida nei tempi piovosi, come per le radiche fresche, che in tal tempo s’incontrano”.[viii]

Imbarchi di pasta di liquirizia oltre che da Crotone avvengono anche da altre località costiere del Crotonese. Il capitano olandese Cornelio Strop noleggia la sua nave. Egli deve recarsi da Leone Vercillo di Policoro per poi andare a Fasana nella marina di Strongoli a caricare una partita di pasta di liquirizia da portare a Livorno.

Ricevuta in Policoro dal Vercillo la lettera d’avviso diretta a Pascale Tinelli, il quattro luglio 1761 l’olandese è in vista della marina di Fasana. Subito egli manda alcuni marinai con una barca a presentare la lettera d’avviso al Tinelli per chiedere il carico. I marinai non riuscirono nell’intento perché furono fatti oggetto di “pari di schioppi” da parte dei cavallari. L’olandese si diresse allora al porto di Crotone, da dove mandò un corriere a Fasana.[ix]

Ruderi del concio per la lavorazione della liquirizia in località S. Pietro di Isola Capo Rizzuto (KR).

 

Nascita dell’industria della liquirizia nel Crotonese

La redditività del commercio della liquirizia, anche in rapporto alla crisi che sta investendo il mercato cerealicolo, spinge alcuni nobili crotonesi ad investire in questo settore. Traendo forza e potere dall’ingente capitale di cui dispongono, proveniente dalla speculazione granaria, utilizzano la rete commerciale, da tempo funzionante per il commercio del grano, che li collega con i mercanti di Napoli. Essi associano i produttori silani e si inseriscono da protagonisti anche nel mercato della liquirizia.

Gregorio Niceforo di Stilo, da tempo dimorante a Crotone, e Bernardo Orsino di Scandale si uniscono per fare pasta di liquirizia. Il Niceforo, esperto in questa attività, mette “la sua opra seu perizia ed industria per detta fabrica”; l’Orsino fornisce il capitale. La copia dell’accordo è depositata nel Regio Tribunale del Consolato del Commercio. Dopo un po’ sorgono delle liti e la società si scioglie. Poiché non si trovò un accomodamento sui conti, nel 1743 essi ricorrono al Regio Consolato; la lite tuttavia tre anni dopo proseguiva tra spese e odi. Così nel luglio 1746 i due ex soci convengono di dare a due loro rappresentanti la facoltà di trovare una via d’uscita.[x]

Sarà tuttavia con i Suriano, specie con Filippo ed il nipote Raffaele, barone della Garrubba, che la produzione di pasta di liquirizia nel Crotonese passerà da artigianale ad industriale. Già prima della metà del Settecento il decano della cattedrale di Crotone Filippo Suriano, grande mercante di grano, è anche proprietario di un concio. Egli ne ha affidato la gestione al suo fattore Leonardo Villaroja, il quale assieme al fratello Francesco, oltre a soprintendere agli affari di campagna del nobile, si interessa anche all’attività del “concio della regolizia”.[xi]

L’attività verrà proseguita dal nipote Raffaele. Il nove marzo 1780 in Crotone presso il notaio Nicola Partale, il patrizio crotonese conclude una convenzione con Pietro Francesco Mancini, Vincenzo Funari, Luca Giovanni Gagliardi e Giuseppe de Simone, tutti e quattro di Malito, in territorio di Cosenza. L’accordo prevede l’erezione e fabbrica in società di due conci di pasta di liquirizia da attivare dal prossimo mese di novembre (1780), uno nel luogo detto Sant’Antonio di Mesoraca e l’altro nel territorio di Simbo, o nelle vicinanze, appartenente al Suriano. La società avrà la durata di almeno tre anni e l’utile, o il danno, sarà ripartito in cinque parti: quattro saranno divise in parti uguali tra il Suriano, il Mancini ed il Funari; la quinta spetterà al Gagliardi e al De Simone.

La liquirizia (foto di Daddo Scarpino).

Il Mancini amministrerà il concio di Sant’Antonio ed il Funari quello di Simbo. Il Gagliardi ed il De Simone saranno alle dipendenze dei due amministratori e si interesseranno soprattutto alla costruzione dei conci, alla compra della radice, alla pesatura ecc. Gli amministratori Mancini e Funari, mese per mese, dovranno rendere conto della loro amministrazione al Suriano, il solo che potrà prendere le decisioni riguardanti “l’utile ed il vantaggio della società”. Così mentre il Mancini, il Funari, il Gagliardi ed il De Simone dovranno badare a tutto ciò che riguarda il reperimento e la produzione della liquirizia, affinché essa riesca di “tutta bontà e qualità”, il Suriano contratterà e venderà in Napoli e fuori regno tutto il prodotto dei conci. Sempre il Suriano anticiperà il denaro occorrente per mettere in funzione i due conci e “per compra delle radici, caparra di uomini” ecc., finché non si potrà contare sul denaro proveniente dalla vendita della liquirizia.[xii]

Non era ancora iniziata l’attività dei due conci, uno a Sant’Antonio di Mesoraca e l’altro alla Palazzina di Corazzello,[xiii] che il Suriano, il 21 agosto 1780, tramite un suo corrispondente in Napoli stipulava un contratto di vendita con Bernaba Abenante, impegnandosi a consegnare mille cantara di pasta di liquirizia, che i conci avrebbero prodotto nel 1781.

Poiché la società doveva durare almeno tre anni, rimanendo scoperta la produzione del 1782 e 1783, il Suriano il 29 gennaio 1781 ne vende ad Emanuele Abenante di Rossano altre cantara 2600 al prezzo di ducati 14 il cantaro. Una metà sarà consegnata a Le Castelle o nel porto di Crotone da novembre 1781 a giugno 1782 e l’altra da novembre 1782 a giugno 1783. La pasta dovrà essere “lustra, francibile, ben cotta, non bruggiata, senza fondi di caldara, o sacchi, di buon odore e sapore, non terrosa, non arenosa, netta di ogni lordura, e fatta a sittori, e piccoli pani a modo di ciccolata di oncie sei circa l’uno”.[xiv]

Gli impegni di vendita non cessano. Un mese dopo, il 5 marzo 1781, Arturo Quinto, procuratore in Napoli di Rafaele Suriano, vendeva a Guglielmo Andiè agente e console generale del re di Svezia presso il re delle Due Sicilie, altre 500 cantara di fermo e da 200 a 300 di rispetto di pasta di liquirizia. Gran parte di questi impegni non verranno poi mantenuti, in quanto la produzione risulterà inferiore alle attese. Infatti il patrone Valentino di Ruggiero, noleggiato dall’Andiè, per recarsi col suo pinco al porto di Crotone per imbarcare la merce, che deve portare a Nizza, giunto all’inizio di giugno, presenta la lettera d’avviso al corrispondente e procuratore dell’Andiè, Saverio Papa di Catanzaro, per avere la merce. Ma la pasta di liquirizia tarda ad arrivare, solamente all’inizio di luglio, il venditore Raffaele Suriano ne riesce a fornire cantara 452 e rotola 40, mentre per quella di rispetto non se ne parla nemmeno, perché la fornitura era già stata annullata in aprile.[xv]

Impianti per la produzione della liquirizia nel Concio di Isola Capo Rizzuto (foto fornita da Daddo Scarpino).

 

Note

[i]ASCZ, busta 334, f.lo 1679, ff. 94-95.

[ii] I caccavi pesavano 1467 libre e dovevano essere riconsegnati subito alla richiesta. ASCZ, busta 337, f.lo 1694, f. 9.

[iii] ASCZ, busta 337, f.lo 1696, ff. 168-174.

[iv] ASCZ, busta 611, f.lo 1712, ff. 91-92.

[v] Pietro Lupinaccio, procuratore del Ponte, protesta perché il Rezza non vuol firmare le polizze di carico che attestano la qualità, nonostante avesse avuto la possibilità di accertare la merce, scassando a suo piacere tre casse. ASCZ, busta 614, f.lo 1724, f. 31.

[vi] ASCZ, busta 614, f.lo 1724, ff. 100-103.

[vii] ASCZ, busta 662, f.lo 1724, ff. 230-233.

[viii] ASCZ, busta 662, f.lo 1727, ff. 26-29.

[ix] ASCZ, busta 915, f.lo 1761, ff. 62-63.

[x] ASCZ, busta 912, f.lo 1746, f. 83.

[xi] ASCZ, busta 1124, f.lo 1748, f. 31.

[xii] ASCZ, busta 1774, f.lo 1781, ff. 18-20.

[xiii] Il Suriano aveva concesso di costruire un concio sul suo territorio di Simbo con l’impegno per la società di pagargli ogni anno ducati 115, in compenso il Suriano forniva il terreno per costruire il concio, la casetta che vi era e tutto quella legna che sarà necessaria per il concio, eccetto le querce. ASCZ, busta 1774, f.lo 1781, f. 19.

[xiv] ASCZ, busta 1774, f.lo 1781, ff. 36-40.

[xv] ASCZ, busta 1666, f.lo 1781, ff. 66-68.


Creato il 13 Marzo 2015. Ultima modifica: 1 Giugno 2021.

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  1. Franco Paese

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