Risorse minerarie ed attività estrattiva in alcune aree del Crotonese e della Sila in età antica

Strongoli minatori di zolfo

Minatori al lavoro nella miniera di Santa Domenica (da http://web.tiscali.it/ginosulla.sannicola/Miniere/miniere/miniere1.htm).

L’esistenza di risorse minerarie in aree interne anticamente popolate, poste sia nelle valli del Neto e del Tacina che dei loro affluenti, come anche nelle aeree pedomontane e montane della Sila, consente, come ipotesi di studio, di porre in relazione tale antico popolamento con la presenza di queste risorse.

Offre spunto in questa direzione, la scarsa vocazione agricola di alcuni di questi territori, cui fa riscontro la particolare importanza degli insediamenti che vi sorsero nell’antichità e durante il periodo altomedievale. Insediamenti che, come nel caso delle città vescovili di Umbriatico e Cerenzia, decaddero più o meno rapidamente nel corso dello stesso Medioevo e che, comunque, non ebbero sviluppo in età moderna.

Considerata la particolare esiguità della documentazione disponibile per quanto concerne il periodo, questa ricerca è stata condotta, principalmente, sulla base delle informazioni desumibili dalla toponomastica riportata nella cartografia, riscontrando tali informazioni con quelle che ci provengono dalla documentazione medievale e successiva.

 

Il salgemma, lo zolfo, il gesso e la calce

Attorno alla metà del Cinquecento, Gabriele Barrio, descrivendo le principali risorse minerarie dei luoghi appartenenti alle diocesi di Cerenzia e Umbriatico, menzionava il salgemma, lo zolfo, il gesso ed altre.[i]

Tali descrizioni, riprese successivamente dal Marafioti,[ii] dal Fiore[iii] e da altri scrittori, trovano riscontro nelle indagini e nelle ricognizioni compiute dall’ingegnere Emilio Cortese e dai suoi collaboratori durante il decennio 1881-1891, quando fu effettuato il rilevamento per la realizzazione della carta geologica della Calabria.

In questa occasione, le ricerche compiute, misero in evidenza che le “materie minerali importanti” presenti in questa parte del territorio crotonese, erano costituite dal  “solfo, che si estrae, e il sale, al quale il Governo è obbligato a tenere una costosa sorveglianza perché non venga estratto”.[iv] Il Cortese, evidenziava anche che il “gesso è abbondante, e qualche volta utilizzato, oltrechè per cemento, come pietra da costruzione”, mentre calce “eccellente” e rinomata, si trovava a Torre Melissa “in grande massa”.[v]

L’uso di questa calce è documentato alla metà del Cinquecento quando, durante i lavori di costruzione delle fortificazioni di Crotone, più volte ci si recò presso la torre di Melissa ad imbarcare la calce fornita dalla calcara del Petraro ed il legname tagliato in territorio di Umbriatico: il 5 marzo 1542 “li subtoscripti andaro con lo barcone allo petraro loco ditto la turri melissa ad carricare de calce”.[vi]

Petraro

In evidenza la località “Serra del Petraro”. Particolare del F.o 238 “Cotrone” 1:100.000 (1927).

Il sale

La particolare importanza che ebbe lo sfruttamento delle miniere di sale presenti in diverse località della media e bassa valle del Neto[vii] e particolarmente, nell’ambito del territorio di Cerenzia e di quello di Roccabernarda, vicino all’antica abbazia di Calabro-Maria, poi detta di Santa Maria di Altilia, risulta fin dai primi documenti medievali conosciuti.[viii]

Il Caldora, riportando una relazione dell’ottobre 1806, che ripercorre lo stato delle principali saline calabresi esistenti in quel periodo, oltre a quelle di Altomonte e di Paludi, menziona la salina di “Miliati”, ormai “inondata dalle acque” e “povera di minerale”, la salina di “Manca del Vescovo”, che era stata aperta in sostituzione di quella di Miliati, ma che era stata inondata nel 1784, quella di località “Smirne” (sic, ma Sberno) presso Cotronei, che era in corso di apertura, e quelle aperte recentemente presso il fiume Neto, denominate “Nuovo Scavo” e “Salina Nuova, alias Bombacajo”.[ix]

Saline di Miliati e Neto

In evidenza le località “Salina di Migliate” e “Le Saline”. Particolare della tavola N.° 29 (1789) della carta di G. A. Rizzi Zannoni.

Al tempo, accanto a queste, ne esistevano delle altre “anche se chiuse o in abbandono” mentre, da parte del consiglio provinciale di Calabria Ultra, si tentava di perorare nei confronti del governo, “lo scavo di qualche miniera di sale”, perchè la “mancanza di sale marino”, che in passato era giunto dalla Sicilia, “si risente moltissimo e non può essere compensanto dal sale di monti, che sono nell’altra provincia in Nieto, Rossano, e simili”. Tra i siti individuati, dove “potrebbero farsi dei tentativi giacchè v’è l’apparenza di un felice risultato”, si menzionava quello “nello Steccato vicino il fiume Tacina”.[x]

La tendenza verso lo sfruttamento di giacimenti posti in altre aree minerarie del regno, determinerà, invece, il regresso e l’abbandono dei siti presenti nel Crotonese. Le saline di “Basilico”, “Neto”, “Ogliasti e Olivadi”[xi], furono chiuse con il decreto del 13 aprile 1826, perché si considerava che il sale fornito dalle saline di Altomonte, Barletta e Trapani, era sufficiente ad assicurare il soddisfacimento dei bisogni del regno.[xii]

Riferendo dei “depositi di sale” presenti “in tutte le basse vallate del Neto, del Tacina e dei loro affluenti”, il cui sfruttamento era stato ormai abbandonato,[xiii] il Cortese elencava le “località principali” da cui si estraeva il sale in epoca anteriore al 1862. Queste erano quelle di “Mandravecchia”, “Salinella Ogliastro” e “Sal. Petraro”, presso Zinga,[xiv] quelle di “Salina Basilica” e “Sal. Calderazzo”, presso Caccuri,[xv] quelle di “Salinella di Neto”, “Gabella Grande” e “Salinella di Tacina”, presso Rocca Bernarda,[xvi] quella di “Salinella di Inò”, presso Mesuraca,[xvii] la “Salinella di Marcedusa” e quella di “Gabbelluzza”, presso Crotone.[xviii]

In alcune di queste località si riscontrava anche la presenza di “acque termali”. Elencando le “acque salate” e le “acque solfuree” calabresi, “le due sole categorie che si possono fare fra le acque termali di Calabria”, tra le prime, il Cortese menzionava quasi esclusivamente, realtà presenti nel territorio crotonese che, con “Identica natura”, risultavano costituite da “Acque salate provenienti dalle masse salifere delle argille tortoniane”: la “Salina Caldarazzo” di Caccuri, le acque salate presenti nella “Regione Mandravecchia” di Casabona, quelle della “Regione Gabbelluzza” di Crotone, quelle della “Salinella Regione Inò” di Mesoraca e quelle della “Regione Salinella” di Marcedusa.[xix]

Saline

In evidenza le località “Salinella Ogliastro”, Salin.la Petraro”, “R. Miliate”, “Manca del Vescovo”, “Salinella Basilico”, “Sal.la Calderazzo”, “Gipso”, “Sal.la di Neto”, “R. Sberno”, “Salinella Miglio” e “Salinella”. Particolare del F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” 1:100.000 (1927).

Bruciarello Cotronei

Inizi del Novecento. Baraccamenti per i bagni di acqua sulfurea, in località “Bruciarello” presso Cotronei (foto di G. Tallarico).

Le salinelle in territorio di Mesoraca

Oltre alla “Salinella” esistente nelle vicinanze dell’abitato e del luogo detto “Inò”, una seconda “Salinella” si trovava nel territorio di Mesoraca, presso il confine con quello di Belcastro. Luogo che alla metà del Cinquecento, apparteneva al suo casale di Marcedusa.

La presenza dell’antica salina di “Merchedusi” si rinviene in un atto che si fa risalire al maggio del 1225, relativo alla conferma da parte dell’imperatore Federico II, dei privilegi dell’abbazia di S.to Angelo de Frigillo.[xx]

Nella seconda metà del Cinquecento il territorio dell’estensione di circa cinquanta “moya” detto “la Salinella”, assieme ad alcune terre vicine,[xxi] apparteneva al principe della Scalea feudatario di Mesoraca, che l’affittava a pascolo.[xxii]

In un contratto relativo all’affitto dell’erbaggio del corso della Salinella, stipulato il 6 novembre 1587, tra Gabriele Longo generale governatore della terra di Mesoraca, nonchè procuratore dell’Ill.mo Duca di Gallese, utile signore della terra di Mesoraca, da una parte, e Gio Pietro e Gio Paolo Pettinato del casale di Diano, pertinenze di Cosenza, dall’altra, sono descritti i confini dei terreni interessati: “… lo terr.o dicto, et cognominato la Salinella con la gabella deli Maurici di Fronso morano, et di Giulio biundo confine le t(er)re di Gio: Fran.co biasi delo scirarmaco escie all’aira lo cavone a pendino dell’aira, et escie all’acqua dela Salinella lumbro a pendino, et fina alle t(er)re di Madamma Lucretia di belcastro lumbro adietro, et fore alle t(er)re del m.co Gio: Tomaso di Diano la via via confine alle t(er)re di Gio: Dom.co d’andali, ali fronti del’arnone, ali comuni di bolonagi quali seli possano pascolare e far il stazzo a Marcedusa a pascolarsili, e farne quello voranno, e che non sia seminato li chiani di marcedusa da nisciuno ne che ci mandino da hoggi innanti le pecore dela Corte …”.[xxiii]

L’affitto ad uso di pascolo del territorio “dela Salinella, et la battaglia”, confinante con “lo bosco”, la via che conduceva a Catanzaro,[xxiv] e nelle vicinanze di “Cucuzito”[xxv], risulta documentato anche in seguito, quando, alla fine del secolo, il feudatario di Mesoraca possedeva “quattro Territorii Burgensatici sono: La Rotonda, Brucuso, Salinella, Iynò”,[xxvi] sui quali verteva lite con l’arcivescovo di Santa Severina per il pagamento delle decime.[xxvii]

La presenza della via pubblica detta “delli Salinari che si và alla Mandra di Brocuso” è documentata in territorio di Mesoraca ancora nel 1673.[xxviii]

 

Il gesso

In alcune aree caratterizzate dalle saline, le indagini condotte alla fine dell’Ottocento dal Cortese, appurarono che cospicua era anche la presenza del gesso: sia “nella valle del Vitravo, fra Zinga e Cerenzia”, ma anche nelle “valli del Tacina, del Lepre e del Lese”.[xxix]

L’antico abitato di “Gipso” posto a sinistra del fiume Neto, presso la confluenza con il Lese, dove sono stati effettuati numerosi ritrovamenti archeologici risalenti al periodo greco-romano, risulta esistente ancora durante la seconda metà del Duecento, quando “Gipsus”, ovvero “Gissus cum Sancto Stephano”, risulta tra le terre appartenenti al Giustizierato di Valle di Crati e Terra Giordana.[xxx]

Il luogo detto “alla pietra dello giczo”, risulta menzionato il 2 aprile 1474, in occasione della ricognizione dei confini del tenimento di S. Nicola dell’Alto.[xxxi]

 

La pietra di Policastro

Un “lembo” di queste formazioni di gesso si evidenziava anche a Policastro dove, agli inizi del Settecento, lo si usava ancora “assai bene per pietrame da costruzione”,[xxxii] come risulta documentato dalle notizie forniteci dal Mannarino[xxxiii] e da quelle che riguardano i lavori compiuti dall’arcivescovo Carlo Berlingieri alla cattedrale di Santa Severina.[xxxiv]

Il particolare pregio del gesso (“lo ijzzo”) di Policastro, risalta attraverso un atto del 26 febbraio 1641, riguardante alcuni lavori da realizzare all’interno della cattedrale di Crotone.

Quel giorno, alla presenza del notaro Protentino di Crotone, si costituivano il mastro Fran.co Abruzise “de neap.li”, ma “incola Policastri”, da una parte e, dall’altra, i RR. Procuratori della “R. fabricae sacri episcopij Civitatis Crot.s”.

In quella occasione, le parti si accordarono affinchè il mastro costruisse “le lamie alla ala destra del detto Vescovato novo per diritto alla Cappella della Mad.a SS.a dello Capo e Coprire tutti li Cinque archi novi di lamia de ijzzo”, dietro un compenso di ducati 45 comprensivo di “Mastria e manipoli”, mentre i detti procuratori s’impegnavano a fornire “lo ijzzo petra tonequa e lo legname” per realizzare le centine (“le forme”) e “lacqua”.

Si specificava che il mastro avrebbe dovuto fare “a torno a torno” dette lamie, “le Cornici con Relasci a lunettj Come quella di S.to Fran.co di paula” e le cornici come quelle della Cappella del S. Gio: Donisio Suriano “alli Cappoccini”.

Il mastro, inoltre, s’impegnava a “fare” o a “farlo fare” detto “ijzzo”, alla ragione di un carlino a “tu(mo)lo” in Policastro, mentre i procuratori si sarebbero accollata la spesa per farlo venire, consegnando solo per questo, una caparra di 10 ducati. Il denaro restante per il pagamento di questo prezioso materiale, sarebbe stato consegnato al mastro quando questo sarebbe stato portato a Crotone. Il mastro s’impegnava a tornare a Crotone iniziando a fabbricare il primo di maggio, senza ripartire prima di aver completato la sua “Opra”.[xxxv]

 

Lo zolfo

A proposito del “Solfo”, il Cortese affermava che pur essendo abbastanza frequente rintracciare in Calabria “Le rocce della zona solfifera (calcare siliceo e gesso)”, solo nel crotonese ed in particolare, nell’area compresa tra Cotronei, Verzino e Strongoli, queste erano realmente solfifere, anche se non tutti i siti contenevano minerale sufficiente da renderne economica la coltivazione.[xxxvi]

Particolarmente consistente era la presenza di questo elemento nell’area compresa tra San Nicola dell’Alto e Strongoli, non distante dall’antico insediamento di località “Le Murgie”, dove erano avvenute le ricerche più fortunate e dove erano concentrate a quel tempo tutte le escavazioni.

Il minerale scavato “a cottimo”, dai minatori che ci mettevano “del proprio” i ferri, il lume ed in alcuni casi, la vita,[xxxvii] era trattato in fornaci (“calcaroni”) che, in relazione alla diversa ricchezza del minerale, consentivano di ottenere dall’8% fino al 20 o al 25 % di zolfo.

Le miniere esistenti in quest’area erano rappresentate da quella di “Santa Croce” che era prossima all’esaurimento, da quelle di “Commaro Quercia” e “Commaro Santa Maria” e dalle miniere di “Santa Domenica”, “le Carcarelle”, “il Prato” e “Serra Buongiorno”, dove ne esitevano due distinte.[xxxviii]

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Strongoli, resti degli allestimenti della miniera Commaro (foto di Giuseppe Agostino da Panoramio).

La produzione annua del zolfo in questo gruppo di solfare, era di circa 6000 tonnellate che, in massima parte, portato a dorso d’asino alla stazione di Strongoli, era spedito per ferrovia.

Nel tentativo di individuare nuovi giacimenti di minerale, ricerche erano state condotte a “Cavallodero” presso le minere di zolfo, dove si trovava “un piccolo sortume di acqua solforosa”,[xxxix] “Pietrebianche” ed in altre località nei territori di Belvedere Spinello, di Pallagorio, Verzino, ecc., ma senza esiti soddisfacenti che consentissero l’apertura di miniere. Tentativi infruttuosi erano stati fatti anche “nella stretta valle del Torrente Cornoo” e nella valle del Lese, presso una vecchia miniera, dove erano i resti “di molti calcaroni”.[xl]

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Resti di fornaci presso la località “Timpo.ne Castello” di Cerenzìa.

Nell’area esistevano anche alcune sorgenti di acque solfuree, quelle di “Strongoli, Melissa, San Nicola dell’Alto, nelle regioni Commaro, Santa Domenica e il Prato” che “Vengono dalla formazione gessoso-solfifera e sono fredde” e quella della “regione Salza Petraro” di Cerenzia, “Sorgente solfurea fredda”.[xli]

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Melissa (KR), miniera di S. Domenica.

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Melissa (KR), ingresso di una galleria della miniera di S. Domenica.

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Melissa (KR), minatori della miniera di S. Domenica.

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Melissa (KR), veduta della miniera di S. Domenica.

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Melissa (KR), Minatori che ritornano dal lavoro. Sullo sfondo la miniera di S. Domenica (foto di E. Treccani).

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Melissa (KR), fabbricati della miniera di S. Domenica (foto di A. Cosentino).

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Melissa (KR), fabbricati della miniera di S. Domenica (foto di A. Cosentino).

Il ferro

Le vicende remote riguardanti il territorio calabrese durante l’età dei metalli, sono ripercorse nel periodo romano dal geografo Strabone che pur in maniera dubitativa, a proposito della città di Temesa, affermava: “Dicono che di questa città di Temesa faccia menzione Omero e non della Tamaso di Cipro. Il verso omerico: «A Temesa per bronzo …» viene infatti interpretato in due modi. Vicino alla città vengono indicate miniere di rame, che ora sono abbandonate.”.[xlii]

 

Una difficile lavorazione

L’antico processo di lavorazione dei minerali ferrosi, comportava diverse difficoltà per gli uomini addetti a questa importante attività. Difficoltà sia di ordine logistico: disponibilità di una vicina forza idraulica, per azionare gli ordigni che servivano a frantumare il minerale e di consistenti riserve boschive, necessarie ad alimentare le fornaci e le forgie, sia di ordine tecnico, legate al fatto di dovere allestire forni capaci di generare temperature elevate necessarie alla fusione.

Avvenuta l’estrazione dalla miniera, il minerale si lasciava stazionare per qualche tempo nelle immediate vicinanze del luogo di estrazione, in maniera che la gelivazione favorisse il distacco del minerale della roccia. Dopo una prima frantumazione ed una selezione, il materiale ottenuto che presentava ancora una pezzatura di dimensioni eccessive, era sottoposto ad un pestaggio mediante l’uso di magli o mulini, azionati dalla forza idraulica di un corso d’acqua. Ottenuta una materia prima di dimensioni adeguate, questa era sottoposta ad un primo processo di trasformazione mediante l’arrostimento in fornaci, con lo scopo di allontanare alcune sostanze indesiderate. A questo punto, il minerale subiva il processo di riduzione per ottenere il metallo, sfruttando l’azione riducente dell’ossido di carbonio sugli ossidi di ferro. In questa fase, accanto alle alte temperature, era necessario mantenere condizioni riducenti, limitando un’eccessiva presenza di ossigeno.

I limiti oggettivi in cui avveniva tale operazione, facevano si che il metallo prodotto contenesse ancora molte scorie. Per allontanarle dal metallo, era quindi necessario trattarlo al calore in una forgia, in maniera da rimuovere meccanicamente, mediante martellatura, tali impurità.[xliii]

 

I diritti del re

Come documenta l’atto del 24 dicembre 1333 che menziona i diritti regi nell’ambito del “tenimentum seu territorium Silae de ducatu Calabriae, quae fore noscitur de maero nostro demanio et antiquo”, relativamente ai quali, non erano soggetti a pagamento i cittadini di Cosenza e dei suoi casali, la regia corte deteneva quello relativo allo sfruttamento di ogni “meneram ferri in quacumque parte Silae”.[xliv]

Con il trascorrere del tempo ed il venir meno dell’importanza dello sfruttamento di questa risorsa, in alcuni casi, l’antico diritto regio fu assimilato ed incorporato a quello della bagliva locale.

La platea dell’abbazia di San Giovanni in Fiore del 1652, testimonia che l’abbate florense deteneva: “… il Jus della bagliva per tutto il Suo Territorio Soprad.o, e Si Suole affittare ducati Cento Settanta l’anno, come al presente Si trova affittata al Sig.r Vincenzo dipignano, e come è Stata ancora affittata da molti anni addietro. … E per ogni Setto ò di forno di aramile ò Canali è Solito pagarsi à detto baglivo Carlini Cinque. …”.[xlv] Ancora alla fine del Settecento, relativamente al diritto di Bagliva nell’ambito dei territori silani, era previsto che si esigessero dagli affittatori delle terre comuni “… carlini dieci per ogni setto di miniera, …”.[xlvi]

 

I privilegi dei Florensi

La concessione regia della potestà di “cavare etiam et percipere minieras ferri et salis libere ad opus praedicti Monasterii per totum dominium Regni nostri”, si ritrova nella trascrizione di un privilegio confermato da Federico II all’abbazia di Santa Maria di Corazzo nel 1225.[xlvii]

La presenza di miniere di ferro nell’ambito del territorio silano e la loro pertinenza alla corona, risaltano soprattutto, dai privilegi concessi all’abbazia di San Giovanni in Fiore in periodo svevo, quando fu concesso e più volte riconfermato ai monaci florensi, di poter “cavare et percipere meneras ferri, per omnes meneras Calabriae”, concedendo loro ancora che, nel caso fossero state rinvenute nuove miniere nei propri tenimenti, queste sarebbero potute rimanere nel possesso perpetuo del monastero.[xlviii]

Questo diritto di poter liberamente scavare le vene di ferro e di percepirne il prodotto, nonché di vendere ed acquistare ferro è ribadito, successivamente, nel giugno del 1222, quando, dall’assedio di Jato, dietro l’istanza dell’abbate Matteo, Federico II rinnovò e confermò tutti i precedenti privilegi concessi ai florensi di San Giovanni in Fiore, il cui tenimento era posto “in Sila Calabriae, in qua eorum monasterium situm est”. Tra questi, quelli di poter liberamente “… ac sine ulla vexactione venam ferri per omnes mineras Calabriae cavare atque percipere pro molendinis suis et aliis, quod fuerint in ipso tenimento suo de Sila et salem similiter per omnes salinas Calabriae libere cavare atque percipere ad omnes necessarios usus et si infra tenimenta ipsius monasterii minera ferri contigerit inveniri, ipsa minera quiete tota, et libere sit ipsis emere quoque et vendere absque omni exactione et passagio atque portulagio, …”.[xlix]

Il 28 gennaio 1233, da Anagni, papa Gregorio IX confermava al monastero di San Giovanni in Fiore tutte le concessioni precedentemente fatte da Federico II. Tale atto riporta il testo di tre privilegi  concessi dall’imperatore nell’ottobre del 1220 e nel giugno del 1221.

Nel primo di questi, dato “in Castris apud Castrum S. Petri in tenimento Bononiae”, l’imperatore ricordando la fondazione da parte dei suoi parenti del monastero Florense “in Sila Calabriae”, dietro la richiesta dell’abbate Matteo e del convento di “Sancti Iohannis de Flore”, confermava ogni concessione precedente, tra cui quella di scavare e percepire liberamente, senza alcuna esazione: “salem per omnes salinas, et venam ferri per omnes meneras Calabriae (…) Et si infra tenimentum ipius Florensis monasterii meneram ferri contigerit inveniri, ipsa menera tota quiete et libere sit ipsius. Emere quoque et vendere absque omni exactione et transire libere terra marique, indultis ei ubique per terram demanii nostri theleonatico, plateatico, et passagio atque portulagio.”.[l]

 

I mulini di Campo Rotondo

Secondo quanto riporta un atto del giugno 1221, i “molendinis ferri” posti “in Sabuto in Campo Rotundo”, si trovavano nel tenimento dell’abbazia di San Giovanni in Fiore. In merito ad essi, registriamo l’intervento di Federico II che, in considerazione di alcune usurpazioni in danno dei monaci florensi, ordinava di far rispettare i loro diritti, in particolare relativamente ai “molendinis ferri, quae fiunt in Sabuto in Campo Rotundo, quem terminus tenimenti Floris includit”.[li]

La località di “Campo rotondo”,[lii] posta presso il corso del fiume Savuto, dove passava la via detta “della Cava”[liii] che conduceva a Nicastro, è menzionata nella descrizione dei confini dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, contenuta nella platea del 1652, dove si legge: “… cammina pure per la via della Cava, che passa Sopra la Terra di Campo rotondo, e và à Nicastro, e tira per Campo rotondo Sino che arriva al fiume di Sambuco in Sù, e Sino che arriva al Vado, d’onde principia d.o fiume quale vado hora communemente Si chiama fontana di labro, …”.[liv]

La stessa platea, ricorda qui, presso le località “Canale” e “Petrarva”,[lv] nelle vicinanze della via pubblica che conduceva verso i Casali di Cosenza, alcune terre comuni appartenenti all’abbazia “dove era la forgia”.[lvi]

La località risulta menzionata tra quelle che erano presso il confine silano, anche nella “Carta della Sila disegnata dal tavolario Antonio Galluccio nel 1685”,[lvii] dove troviamo menzionate in successione: “72. Femina morta”, “73. Campo rotondo”, “74. Passo di Savuto”, “75. V.e del spinetto che viene dalla spina di Cerullo”, “76. Serra di Tavole”, e “77. Serrarico”.[lviii]

Tassitano campo rotondo

In evidenza le località “T.re Tassitano”, “T.re di Camporotondo”, “F. Savuto”, “T.re la Cava”, “T.re Pietrarva”, “T.re Canali”, “T.re Spineto”, “lo Spineto” e “Sorg.te del Savuto”. Particolare del F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” 1:100.000 (1927).

Il monastero Tassitano

L’antichità dell’insediamento umano in questo luogo, c’è testimoniata dalla presenza del monastero “Tassitano”[lix] alla cui antica esistenza, fa riferimento la notizia riportata dal Fiore che, menzionando la sua appartenenza alla diocesi di Cerenzia,[lx] specifica una dipendenza che ci rimanda al periodo altomedievale, quando le diocesi vescovili non avevano ancora assunto l’assetto territoriale proprio dell’epoche successive.

Il monastero greco[lxi] subì, successivamente, la latinizzazione, con il passaggio all’ordine florense.

Nel gennaio del 1198, in Messina, Costanza d’Altavilla, imperatrice dei romani e regina di Sicilia, “ad petionem tuam venerabilis Abbas Joachim”, insieme al “Monasterio tuo Sancti Joannis de Flore”, prendeva sotto la protezione regia anche i “monasteria, quae de novo fundasti in loco qui olim dictus est Calosuber, nunc autem bonum lignum, et in loco qui dicitur Tassitanum”, il “monasterium Abbatis Marci”, ed anche quelli che sarebbero stati edificati in futuro, con tutti i loro possedimenti, beni, frati, “homines” e “loca”.[lxii]

Il 30 ottobre 1204, Innocenzo III, rivolgendosi all’abbate florense Matteo, prendeva il monastero di “Sancte Marie de Botrano” sotto la protezione apostolica elencandone i possessi, tra cui figura il tenimento “de Tassetan(o) et de Caput Rose, cum omnibus pertinentiis suis”.[lxiii]

La protezione regia sul monastero posto “in loco qui dicitur Tassitanum”, assieme a quella del monastero “de Flore”, risulta riconfermata da Federico II in Palermo nel luglio del 1208 a richiesta di “Matthee venerabilis abbas Sancti Ioannis de Flore”,[lxiv] e dallo stesso Federico II allo stesso abbate, in Brindisi, nel marzo del 1221.[lxv]

 

Il castello degli schiavi

Antichi insediamenti legati allo sfruttamento delle risorse presenti nel territorio silano, si rinvengono anche presso il confine settentrionale del territorio dell’abbazia di San Giovanni in Fiore.

Qui i primi privilegi concessi ai monaci florensi, evidenziano l’esistenza del “castellum de Sclavis”, presso il passo che consentiva l’attraversamento del fiume Neto,[lxvi] mentre risale al 21 maggio 1327 un atto di donazione di Thomaso de Aquino “miles baroniarum genocucastri et barbari”, scritto “apud cast.m sclavorum”.[lxvii]

L’esistenza della “Torre di Volpe in testa” o “Castello di Volpe intesta”, si rileva nei pressi di questo confine, nella platea dell’abbazia di San Giovanni in Fiore del 1652.[lxviii]

In evidenza la “Torre” presso il “Vado di Neto” riferibile al “castellum de Sclavis”. Particolare della carta della Sila disegnata dal tavolario Antonio Galluccio (1685).

L’estrazione e la lavorazione dei metalli in aree vicine a quelle possedute dall’abbazia in questa parte del territorio silano, c’è testimoniata dal permanere di alcuni toponimi: “Le Forgie di Cecita”, “Forgie di S. Bartolo”, “Pietralba”, “Pietrabianca” e “S.ta Barbara”.[lxix]

L’insediamento che gli archeologi hanno rilevato in alcuni “siti di epoca tardorepubblicana come quelli di Germano, Forge di Cecita e Campo San Lorenzo”, ha evidenziato la presenza di “fornaci” in località “Forge di Cecita”.[lxx]

Forge di Cecita

In evidenza le località “Le Forgie di Cecita”, “Forgie di S. Bartolo”, “R.e Pietralba”, “Pietrabianca” e “R.e S.ta Barbara”. Particolare del F. 230 III “Longobucco” 1:50.000 (1872).

Le abbazie di San Giovanni in Fiore, di Santa Maria della Sambucina e di Santa Maria del Patire, presidiavano le principali direttrici di accesso all’area mineraria silana, posta presso il confine tra le attuali provincie di Crotone e Cosenza.

Patti e condizioni

In considerazione del fatto che le miniere di ferro rappresentavano una risorsa appartenente alla corona e ad essa direttamente sottoposta in regime monopolistico, la regia corte, di norma, concedeva a particolari la licenza di scavare miniere e di “conflare forgias”, ovvero “focinas”, a determinati patti e condizioni.

Ciò avveniva dietro pagamento di un tributo annuo per ogni forgia messa in esercizio, (pari in media ad un’oncia e mezza) ed in ragione dei mulini o magli (“malleis”) impiantati, iniziando a pagare il dovuto, dal giorno in cui i concessionari avessero dato principio al loro “ministerium ferri”.

In ragione dell’importanza di questi materiali e della loro limitata disponibilità nell’ambito del territorio del regno, era previsto che il ferro, l’acciaio e gli altri metalli prodotti per la vendita, non potessero essere estratti fuori dal regno, ma fossero venduti “alla Curia o a coloro i quali dalla Curia saranno indicati”, alla quale andavano corrisposti anche  tutti i dazi e le gabelle dovute, solite a pagarsi dai venditori di ferro.

Ricevuta la licenza regia, i concessionari che si ponevano in questa impresa, stipulavano gli opportuni contratti con i feudatari del luogo, dai quali ottenevano il terreno, l’acqua ed il legname necessari alla loro attività.

Particolari accordi contenuti nelle regie concessioni, potevano prevedere che il materiale scavato potesse essere liberamente trasportato alle forgie in assoluta franchigia doganale e che si potessero costruire case ed orti nelle vicinanze dei pozzi e delle gallerie, o che fosse consentito il libero taglio nei boschi per alimentare le forgie.

Particolari condizioni riguardavano anche gli uomini impiegati dal concessionario nell’estrazione e nella lavorazione dei metalli, che erano in parte sottoposti alla sua giurisdizione.

Facendo distinzione tra la manodopera regnicola (“regnicole”) e quella forestiera (“exteri”), le concessioni prevedevano, infatti, nel caso di quest’ultima categoria, che gli “operarii et laborantes” addetti alle forgie ed alle miniere, fossero esenti da ogni prestazione, da qualsiasi servizio e dal pagamento di qualsiasi imposta. In merito alle cause civili, essi non potevano essere tradotti davanti ad alcun giudice ordinario o straordinario del regno, ma soltanto davanti al tribunale dell’imprenditore concessionario. In caso di fuga, “per cento giorni e per cento notti” il concessionario o i suoi agenti, potevano, dovunque, ricercare, arrestare e tradurre il fuggitivo innanzi al più prossimo funzionario regio, il quale aveva l’obbligo di costringerlo a ritornare al lavoro e di punirlo.[lxxi]

 

I fondaci

In forza dello “ius plateatici seu fundici”[lxxii] detenuto dalla regia corte, i concessionari s’impegnavano a conferire tutto il ferro prodotto nel fondaco regio più prossimo[lxxiii] in quanto era proibito a chiunque, vendere o comprare ferro se non “in ordinatis fundacis”, mentre quanti importavano ferro, dovevano consegnarlo integralmente ai fondaci delle città marittime. Qui i funzionari preposti, ne prendevano nota in appositi registri, riservandosi la potestà di acquistare la merce se l’avessero voluto mentre, in caso contrario, potevano venderla ad altri col consenso dei gabellieri. Chi importava ferro doveva prestare anche un’apposita fideiussione, attraverso cui s’impegnava a non portare la merce se non in luoghi ben determinati. L’esportazione risultava  “vietata in modo assoluto”.[lxxiv]

Il commercio di vomeri di “aczaro et ferro” nell’area di Cariati e Rossano è documentato per gli anni 1443/1449,[lxxv] periodo in cui, comincia anche ad essere documentata l’esistenza dei fondaci del ferro di Policastro e di Crotone.

Il 31 agosto 1451, Martino Iohannes Escarer scriveva al capitano della terra di Policastro “Sigismundo de … de Badulato”, affinchè provvedesse a restituire le chiavi di un “magazzenum” sito nella città di Crotone, appartenente a Francesco de Becchutis di Cosenza, dove si trovavano “certam quantitatem ferri et nonnullas alias merces et bona”. Chiavi che erano custodite in Policastro, da Antonio de Thomasso, “iuvenem seu familiarem” del detto Francesco, in qualità di custode ed amministratore “ipsius fundaci” e che, alla sua morte, unitamente alle dette merci, erano state sequestrate dal detto capitano.[lxxvi]

E’ del 1455 la concessione ad Antonio Valerio di Venezia, di poter estarre dai propri magazzini siti in Crotone, 110 cantaia di ferro, per venderli liberamente ovunque, anche nei luoghi dove esistevano i fondaci della corte, alla quale, per acquisire tale libertà, erano stati pagati 230 ducati “come terciaria”.[lxxvii]

Da un atto del 1478, sappiamo che il vescovo di Crotone esigeva la decima sopra la “dohana” della città di Crotone “et gabella del ferro di dittà città”[lxxviii] mentre, come c’informa un atto della metà del Settecento, per privilegio concessogli nel 1483 da Ferdinando I, i crotonesi ebbero l’esenzione del pagamento di ogn’imposizione dovuta al regio arrendamento dei ferri.

In quella occasione, a seguito del ricorso di D.a Anna Suriano di Crotone, assieme ad altri cittadini ed alla università della città di Crotone, D. Gherardo Sabino del Sole, regio consigliere, avvocato fiscale della Regia Udienza di Calabria Ultra e subdelegato del Regio Arrendamento de’ Ferri nella detta provincia, faceva notare: “… come li Cittadini Cotronesi per Privileggio concessoli nell’anno 1483 dal Sereniss.mo Re Ferdinando Primo di Felice memoria, sono franchi di tutti li dritti spettantino al Reg.o Arrendam.to de ferri nell’estraz.ni o immissioni delle di loro mercanzie per tutti i luoghi del Regno …” e che “… per esser immuni d.i Cittadini da d.i Datii, tanto nell’immissione, quanto nell’estraz.ne di qualunq.e di loro mercanzia, o sia per mare, o sia per terra, sempre è stato, ed è al p(rese)nte in vididi observantia, in maniera che tanto lei, quanto ogn’altro Cittadino Privileggiato nell’estraz.ni, o immissioni sud.e, sono stati trattati immuni di tutte l’imposiz.ni, e datii, che pagansi all’Arrendam.to de ferri, che sono videlicet: Grana 18 per onc.a per il ius Doanae per il 2 ½ per cento che fanno grana 25 ad’oncia, dritto di Fondaco, che sono grana 25 ad’onc.a, nuova Gabella, che sono grana sei ad’onc.a, Ponderatura, che sono grana 5 a cantaro …”.[lxxix]

Relativamente agli anni 1497-1498, sappiamo che Giacomo Antonio Ricca, deteneva l’ufficio di secreto del fondaco del ferro di Policastro.[lxxx]

La presenza del fondaco del ferro e le movimentazioni di questo metallo nel porto di Crotone, risultano documentate durante il periodo 1541-1550, quando assunsero l’ufficio di “regente lo regio fundaco del ferro et dohana dela cita de Cotrone”: Pietro Saporta de Napoli (1541), Loysio Plasmo de Tropea (1545), Antonio Leone de Napoli (1546), Jo: Caladeroti de Napoli (1549) e Francesco Cafarello senese (1550).[lxxxi]

Relativamente agli anni 1581-1582 ed in merito all’ “Arrendamento de ferri del presente regno cioè carrichi”, tra le “Provisioni delli officiali delle sottoscritte province e fundaci” di Calabria Citra e Ultra, risultano menzionati i fondaci di “Cariati”, “Cutrone” e “Castelle”.[lxxxii]

E’ del 28 gennaio 1650, un provvedimento in favore di Geronimo Longobucco, per consentirgli di far esercitare da un sostituto, il suo officio di vicesecreto del fondaco del ferro della città di Crotone.[lxxxiii]

 

Il ferro in territorio di Policastro

Tracce relative alla presenza di giacimenti di ferro sfruttati anticamente in territorio di Policastro, emergono attraverso l’indagine toponomastica, che evidenzia il permanere del toponimo “Macinello”,[lxxxiv] in prossimità del corso del fiume Soleo e dei confini silani. Nel 1663, in località “vallone del Maciniello”, nei pressi della Scanzata del Gariglione, fu posto uno dei pilastri che delimitavano il confine silano.[lxxxv]

La località, invece, non risulta menzionata nella “Carta della Sila disegnata dal tavolario Antonio Galluccio nel 1685” dove, tra quelle denominate “R.e Le Petinelle”, “R.e del Principe” e “M.te Femminamorta”, nella carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis (1889), e “R. le Petinelle”, “R. Principe” e “M. Femminamorta”, nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), troviamo la località “Irto del Ferro”: “55. Timpone del Principe”, “56. Serra della Petinella”, “57. Montagna della Petinella”, “58. Macchia longa”, “59. Serra de Friano”, “60. Montagna de’ Faghi”, “61. Serra della Giumenta”, “62. Timpone di Ariano”, “63. Irto del Ferro”, “64. Strada di Femina morta” e “65. Fontanella di Femina morta”.[lxxxvi]

Policastro

In evidenza la località “R. del Ferro”. Particolare del F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” 1:100.000 (1927).

La località “Irto del Ferro”, nelle vicinanze di quelle denominate “M. Pettinella” e “Cariglione”, si rinviene ancora nella cartografia alla fine del Settecento.[lxxxvii]

A riprova della particolare importanza di questa località, derivante dalla presenza dei vicini boschi e del fiume Soleo, alcuni documenti evidenziano che, durante la seconda metà del Seicento e gli inizi del Settecento, “nel fiume di Soleo nel loco detto Macinello”, esistettero, contemporaneamente, una “Serra di Serrare tavole de Pino et altri legnami” appartenente al feudatario, servita di acquaro e di strade,[lxxxviii] ed un forno per la produzione della pece, detto il “furno di macinello”, anch’esso di pertinenza feudale.[lxxxix]

Discendendo il corso del fiume Soleo, l’attività legata alla produzione del ferro in aree montane più prossime all’abitato di Policastro, è testimoniata dalla presenza dei toponimi “M. S. Barbara”[xc] e “Ferro” e/o “del Ferro”.[xci]

Nel 1877 i “fondi comunali (demaniali)” denominati “Macinello”, “Destra del Ferro” e quelli vicini a quest’ultimo, di “Cardopiano”, “Difisella” ed altri, risultavano dati in affitto in maniera da arricchire il bilancio comunale.[xcii]

Santa Barbara

Santa Barbara. “Come protettrice dei minatori, una semplice statua della santa spesso viene posta nelle gallerie minerarie; questa si trova all’ingresso di una miniera di piombo ai Pian dei Resinelli” in provincia di Lecco (da Wikipedia).

 

Santa Maria di Cardopiano

Le antiche concessioni medievali in questa parte montana ricadente nel Castanetum, ed appartenente al territorio di Policastro, sono evidenziate dalla presenza dell’abbazia appartenente alla “Religione Basiliana” di “S. Maria di Cardopiano nelle montagne di Policastro”.[xciii]

Essa compare, per la prima volta, in un atto del 28 settembre 1150, quando papa Eugenio III, comunicandolo all’abate Sigismundo, prese sotto la protezione apostolica, la chiesa di Santa Maria Requisita (poi detta della Sambucina) con tutti i suoi possedimenti, tra i quali figura quello della “ecclesiam de Carteclano” che, più anticamente, dovette godere, invece, della dignità abbaziale e di una propria autonomia.[xciv]

Risale all’anno successivo 1151-1152 (a.m. 6660), l’atto con il quale Andrea, arcivescovo di Santa Severina, concedeva allo stesso Sigismundo, abate del monastero della “Rékysita” sito nel luogo detto “Saboukina”, il monastero della “Théotokos de Kardikkiano” (Θεοτόκον τού Καρδικκιάνου), assieme a quelli di S.to Nicola de Pineto e di S.to Angelo de Frigilo, dietro il pagamento annuale nel giorno di Pasqua, di quattro libre di cera e l’obbigo di comparire in occasione del sinodo.[xcv]

Ricalcando quanto avevano fatto i loro predecessori Eugenio III (1145-1153) e Alessandro III (1159-1181), prima papa Clemente III, il 29 dicembre 1188 e successivamente, papa Celestino III il 21 dicembre 1196, confermavano alla Sambucina i suoi possedimenti, tra cui continua a figurare la “ecclesiam Sancte Marie de Cardeplano”.[xcvi] Il possesso della “ecclesiam Sancte Marie de Cardeplano” da parte della Sambucina, risulta confermato ancora al tempo di Innocenzo III (1198-1216).[xcvii]

Successivamente la grangia della “Théotokos de Kardakianon” (Θεοτόκον τού Καρδακυάνου) passò all’obbedienza vescovile. Ciò avvenne in occasione di una permuta riguardante il monastero di S. Stefano d’Abergarès, avvenuta tra Bartolomeo arcivescovo di Santa Severina e la Sambucina, come evidenziano una pergamena greca del giugno 1202[xcviii] e quelle latine edite dal Pratesi.[xcix]

In questa occasione, l’arcivescovo, con il consenso del capitolo, concesse all’abbazia della “immaculate Dei genitricis de Sabucina”, il monastero pertinente alla propria arcidiocesi detto “Sanctum Stephanum de Abrigari quod est in territorio Mesurace”, con il consenso del suo abate “domine Cosme”. Tale concessione tesa ad assecondare la volontà dell’abate sambucinese Luca di costituire nel territorio di Mesoraca il futuro “capitale monasterium nostre regule de Cistella”, avvenne attraverso la permuta con la grangia detta “Sanctam Dei genitricis de Cardoiano”, assieme a quelle di “Sanctum Iohannem de Monticello” e di “Sanctum Dimitrium cum casale et vinea quam ibidem tenebat Sanctus Nicolaus de Pinito”.

Si stabiliva ancora che, a compensazione dell’annuo censo di tre libre di cera, percepito dalla chiesa metropolitana di Santa Severina fino a quel momento, per le tre grangie di “Sancte Marie de Archelao”, “Sancti Angeli de Frigillo” e “Sancti Nicolai de Pinito” appartenenti alla Sambucina, l’abazia s’impegnava ad indennizzare l’arcivescovo attraverso la cessione di “villanos quatuor in terra Policastri”, alla condizione che, in futuro, l’abate del costituendo monastero sarebbe stato obbligato ad intervenire al sinodo diocesano.[c]

La “eclesia Sante Marie de Cardoplano” e le altre precedentemente menzionate, figurano successivamente, tra i possessi confermati all’abazia di S.to Angelo de Frigillo da Innocenzo III il 6 marzo 1210.[ci]

L’antico obbligo contratto, continuerà ad essere assolto da parte dell’abate di S.to Angelo de Frigillo nel tempo a venire, come documentano a partire dalla metà del Cinquecento e fino alla metà del Settecento, i libri dell’entrate e gli atti dei sinodi che si conservano presso l’Archivio Arcivescovile di Santa Severina, nelle annotazioni contenute nei volumi 3A, 6A, 25A, 26A e 18B del Fondo Arcivescovile. Gli stessi documenti evidenziano che, alla stessa maniera, l’abate di Santa Maria di Cardopiano era obbligato ad intervenire al sinodo diocesano ed in segno della sua obbedienza, a pagare il cattedratico nelle mani dell’arcivescovo.[cii]

Successivamente, a causa della scarsità delle rendite di cui godevano le parrocchiali di Policastro, le tenui entrate dell’abbazia di Santa Maria di Cardopiano, furono unite a quelle della parrochiale di S.to Pietro, mentre il titolo abaziale passò al parroco.

Dalla “Nota” delle entrate della parrocchia di S.to Pietro di Policastro compilata dal parroco D. Gio: Fran.co Bernardi nel 1713, rileviamo tra queste entrate, quella di dieci carlini che proveniva da “uno Castagnitello loco d.to Cardopiano”, mentre “Dal terreno di d.to luogo dove sta fondata l’Abbatia quando si semina s’esigono un tumolo, e mezzo di germano, o due tumula attualm.te non si ne ha niente”. Tra i pesi che gravavano la parrocchia, vi era quello che era anticamente dovuto “Alla Mensa Arcivescovale per il Catredatico paga l’Abbatia d. 0.1.0”.[ciii]

Questo era lo stato delle cose come si riscontrava ancora alla fine del secolo.[civ] Dallo Stato dell’Arcipretura di Policastro con nota dei beni stabili e rendite annuali, apprendiamo che alla fine del Settecento: “Vi è poi un Abbadia annessa a d.a Arcipretura sotto il titolo di S. Maria di Cardoplano, e possiede un Territorio alberato di castagne di circa tum.e quattro, la terra è libera, ed ogni cittadino può seminarla perché comune, e dalle castagne ne percepisce il d.o Arcip.e come Abbate annui d. 4.50.”[cv]

Durante il Decennio francese “La parte della Sila, come Cardopiano e Melito (complessivamente la Montagna) restò ancora per poco al feudatario, e per esso al Duca dell’Infantado”,[cvi] mentre, in seguito, entrò a far parte dei “fondi comunali (demaniali)” di Policastro.[cvii] Agli inizi degli anni Sessanta, il “titolo (solamente onorifico) di Abate, trasmesso dalla badia cistercense di S. Maria di Cardopiano al parroco di S. Pietro”, risultava conferito all’arciprete “pro tempore”.[cviii]

 

Il rame di Cotronei

Come documentano gli atti seicenteschi dei notari di Policastro, gli utensili e le stoviglie di rame per la cucina, costituivano una parte importante della dote di ogni sposa.[cix]

La presenza di rame in territorio di Cotronei ed il suo sfruttamento, ci sono testimoniati da un atto del 21 agosto 1634, relativo al pagamento di quanto dovuto al signore feudale di Cotronei, da parte di Alterio Capisciolto e di Gio: Fran.co Franco che, per l’annata 1633-34, avevano preso in affitto le entrate “delli Cotronei”.[cx]

Quel giorno, in Cotronei, Gio: And.a Grastello “Erario della baronal corte delli Cotronei”, alla presenza di Fran.co Valasco, procuratore del Sig.r D. Horatio Sersale, barone del detto “Casale delli Cotronei”, dichiarava di aver esatto per quanto dovuto al detto Sig.r D. Horatio, alcune partite di denari ascendenti alla somma complessiva di ducati 224 e tari 4, tra cui quella pagata dai detti Alterio e Gio: Fran.co, relativa a libre di rame 299 che, a carlini 2 la libra, facevano ducati 59 e tari 4.[cxi]

Il ritrovamento nel 1952, di un importante ed antico ripostiglio di armi di bronzo “in un punto ora coperto dalle acque del lago Ampollino” in territorio di Cotronei,[cxii] testimonia della cultura materiale del luogo durante l’età dei metalli.

 

Un progressivo abbandono

Secondo il Caggese, che trae le sue considerazioni dai registri angioni andati distrutti durante il secondo conflitto mondiale, dopo l’avvento degli Angiò sul trono di Napoli, l’attività estrattiva riguardante le miniere d’argento del regno, non ebbe mai grande importanza. Ciò, secondo il suo parere, per ragioni riconducibili all’estremo fiscalismo del governo angioino che caratterizzò questo periodo.[cxiii]

Certo è che pur con alterne vicende, le importanti ed antiche miniere d’argento di Longobucco “la meglio e principale minera de argento che sia in questo Regno”, furono attive durante il periodo svevo-angioino ed anche in seguito, quando almeno fino al sopraggiungere delle ricchezze cha affluivano dal Nuovo Mondo, continuarono ad essere sfruttate.[cxiv]

La loro antica importanza e la loro potenzialità produttiva, assieme a quella dei luoghi vicini, come “nella valle di Cariati e nelle campagne al settentrione di Rossano”, risulta messa in evidenza ancora alla fine del secolo XVIII, in una “Memoria presentata alla Real Accademia di Scienze e Belle lettere di Napoli” nel 1785 dal dottor fisico Angelo Fasano.[cxv]

Le potenzialità produttive di questi luoghi, valutate, comunque, sulla base di quanto era possibile documentare da fatti e notizie del passato, si ritrovano illustrate anche successivamente. Traendone notizia “dalla scrittura di Scipione Mazzella Descrizione del Regno di Napoli messa a stampa la prima volta nel 1586”, alla metà dell’Ottocento, si menzionava che “In Longobucco son miniere di Argento, e di Mercurio”.[cxvi]

Qualche indicazione più concreta, ci proviene dalle notizie relative alle “Miniere del Regno” che accompagnano la carta del “REGNO DELLE DUE SICILIE” di Benedetto Marzolla (1841), dove leggiamo che “Nelle montagne delle Sile (Calabria) sono miniere di piombo, argento, e stagno. Dell’argento ricavato da tali miniere fu coniata da Carlo III nel 1758 la 5 grana.”. In relazione alle sue potenzialità produttive che, evidentemente, si valutavano ancora redditizie per lo sfruttamento, durante il decennio francese, l’arcivescovo di Rossano fornì al Miot campioni dell’argento di Longobucco.[cxvii]

Tramontata ormai ogni possibilità di sfruttamento delle antiche argentere calabresi e ridotto quello delle miniere di ferro, ai siti più remunerativi alle condizioni di mercato del tempo, qualche decennio dopo l’Unità d’Italia, il Cortese poteva ormai affermare, in maniera lapidaria, che: “In Calabria si ha una sola miniera, anzi un solo giacimento importante di minerale di ferro, ed è quello di limonite che sta alla base dei monti Stella e Consolino, presso Stilo.”.[cxviii]

 

Il ferro e l’argento di Verzino

La presenza del ferro e dell’argento tra le risorse del territorio di Verzino, antico centro menzionato già da Strabone (“Vertinae”, Οὐερτῖναι) nella sua Geografia (VI, 1, 2-3), sono ricordate sinteticamente dal Barrio verso la metà del Cinquecento: “… ferrum, et argentum, item lapis albus argenti materia, ut quidam volunt”,[cxix] ma trovano una più ampia descrizione da parte del Marafioti che, agli inizi del Seicento, pur costatando che lo sfruttamento di queste risorse era stato ormai abbandonato, ne evidenziava, comunque, l’importanza passata:

“Per distanza dalla predetta Città (Umbriatico ndr) quasi uno spatio di quattro miglia occorre un Castello chiamato Verzìne edificato, come dice Stefano, da gl’Enotrii, ma Strabone vuole, che fosse stato edificato da Filottete: si deve’l territorio di questo Castello molto lodare, perche si nobilita con la preciosità delle diverse cose, che produce; imperò che quivi si ritrovano le minere dell’argento, et alcune pietre bianche, delle quali gli Cittadini fabricano le case, nondimeno quando sono poste al fuoco, doppo la debita trituratione al forno filosofico insino alla fusione col vaso recipiente di sotto in quel modo, che s’usa appresso gl’Alchimisti, si fondono in argento perfettissimo, ma perche ’l guadagno è puoco, non curano i Signori fare alle pietre tal cottura: Si ritrova quivi ’l solfo, l’alume ’l vitriolo, l’alabastrite bianco, e nero, la terra rossa detta rubrica fabrile, v’è la miniera del ferro, si cava la terra samia, che noi altri diciamo terra di Tripoli, con la quale si poliscono le gemme pretiose, e si fa sale terrestre:”.[cxx]

Di seguito, scrivendo delle “Miniere pretiosissime di diversi metalli, e pietre”, il Marafioti affermava che “Le miniere dell’oro, dell’argento et altre si ritrovano in questi luoghi di Calabria, cioè, … in Verzine d’argento; nella Sila di Cosenza d’oro, argento, e ferro; …”.[cxxi]

Dell’esistenza di queste risorse, fa menzione anche il Sofia agli inizi del Seicento[cxxii] mentre, in merito all’abbandono del loro sfruttamento, si sofferma il Fiore alla fine del secolo: “… dell’oro, e dell’argento sono in più parti; ma non si lavorano, perché la spesa vantaggia l’utile.”[cxxiii]

 

La serra della Miniera

La presenza di miniere di ferro presso il confine silano del territorio di Verzino, si evidenzia al tempo di re Roberto d’Angiò (1333), quando nella confinazione del tenimento di Cosenza “in quo est Sila”, si menziona: “… et vadit ad vallonem de Afari in confinio Campanae et descendit per ipsum vallonem usque ad flumen de Laurenzana, et ascendit per ipsum flumen ad serram de Minera, et vadit ad serram de Alessandrella et ascendit ad locum dictum ortum de Menta, …”.[cxxiv]

Le località menzionate in questo documento, trovano corrispondenza nella “Carta della Sila disegnata dal tavolario Antonio Galluccio nel 1685”, dove troviamo: “22. Serra della Alessandrella”, “23. Serra della Minera”, “24. Timpone delli Bovi”, “25. Timpone di scaccia Diavoli” e “26. Orto della Menta”.[cxxv]

Nella cartografia successiva, il toponimo “Serra della Minera” non compare più mentre, al suo posto, troviamo “Irto del Ferro” e “C.zo Ferro” o “Cozzo del Ferro”.[cxxvi]

S. Marina uno

In evidenza le località “F. Arenzana”, “Irto del Ferro”, “Colle degli Buoi” e “Scaccia Diavoli”, presso il confine silano. Particolare della tavola “N.° 27” (1778) della carta di G. A. Rizzi Zannoni.

L’argentera

L’esistenza dell’argento e di altri metalli (piombo, ferro, rame) presenti nei minerali che caratterizzano la zona[cxxvii] e l’antico sfruttamento delle relative miniere aperte in territorio di Verzino, che ha lasciato alcune tracce anche nel patrimonio leggendario di questi luoghi, come nel caso della grotta dei “Farfari” (gli gnomi), esseri associati all’attività mineraria, ci sono testimoniati da un atto del 19 novembre 1580. Da questo documento, apprendiamo che nel corso dell’anno passato, il m.co Fabio Barbuscia “habitator” in Cirò, assieme al m.co Petro Curto ed al R.do clerico Pompeo de Franza, ad uso di pascolo per i maiali, avevano preso in affitto dall’università della terra di Verzino, per 400 ducati, la “defensam dictam la argentera et s(an)ta marina positam in terr.o d(ic)te t(er)re”.[cxxviii] Il toponimo “S. Marina” e quello vicino “Grotte lo scavo”,[cxxix] compaiono tra gli abitati di Savelli, Verzino e Umbriatico.[cxxx]

S. Marina

In evidenza le località “T. Laurenzana”, “C.zo Ferro”, “S.ra Lissand” e “R. S. Marina”. Particolare del F.o 230 “Rossano” 1:100.000 della Carta Geologica d’Italia (1900).

Santa Marina

L’esistenza dell’abbazia greca di Santa Marina è documentata in periodo normanno. Nel 1167, il vescovo di Umbriatico “Ropertus”, confermava il monastero di S. Stefano, costruito e dotato dai re Ruggero e Guglielmo, ai monaci basiliani di S. Maria “de Patirio”. L’atto fu scritto in greco, per ordine del detto vescovo Roperto, da “Filotetto Monacho et Abbate sanctae Marinae, anno Mundi 6670, primae Indict. qui fuit Christi 1167”.[cxxxi]

Da documenti successivi, apprendiamo che anticamente, i vescovi di Umbriatico possedevano il mero e misto imperio sulle baronie di S. Marina, S. Nicola dell’Alto e Maratea, che erano feudi della chiesa.[cxxxii]

Il favore regio nei confronti dei vescovi di Umbriatico, riguardo questo loro possedimento feudale, si rileva ancora al tempo di Carlo I d’Angiò, quando il sovrano concesse al vescovo di tenere mercato a San Nicola dell’Alto e nella chiesa di Santa Marina: “Mandatum pro Episcopo Umbriacensi de mercato celebrando in diocesi sua, in loco q. d. Sanctus Nicolaus de Alto et in eccl. Sancte Marine”.[cxxxiii]

Risale a questo primo periodo della dominazione angioina, la notizia dell’esistenza di un casale presso l’abbazia che, in occasione della guerra del Vespro fu saccheggiato e distrutto dagli almugaveri capitanati da  Matteo Fortunato.[cxxxiv] Quest’ultimo, nel quadro delle operazioni condotte alla devastazione dei luoghi appartenenti ai partigiani degli Angiò, dopo aver incendiato il monastero di San Giovanni in Fiore,[cxxxv] passò al guasto dei luoghi appartenenti al vescovo di Umbriatico Lucifero Stafanizia che, assieme a suo fratello Ruggero, arcivescovo di Santa Severina, si era schierato in armi dalla parte angioina.

Il primo giugno 1306, da Napoli, Carlo II, rispondendo alla supplica di “N.” vescovo di Umbriatico, considerato “quod Casalia Sanctae Marinae, Sancti Nicolai de Alto, et Marathiae, quae sunt Umbriaticensis Ecclesiae propter praeteritae guerrae discrimina sunt destructa”, gli concedeva di ripopolarli, esentando i futuri venuti dalle tasse per il legname delle galee e dagli altri oneri dovuti.[cxxxvi]

Le antiche prerogative feudali detenute sul luogo dai vescovi di Umbriatico “cum Titulo Baronis”, che si facevano risalire “Ante aevum Caroli II utriusque Siciliae Regis” e le circostanze che avevano condotto al suo spopolamento in occasione dell’episodio citato, saranno ricordate, ancora, nelle relazioni vescovili alla metà del Settecento, quando il feudo di Santa Marina, ormai decaduto alla condizione di feudo rustico, era stato perso dalla chiesa che, a quel tempo, ormai, non lo possedeva più.[cxxxvii]

Lo spopolamento del casale e le generali condizioni di regresso della diocesi di Umbriatico a partire da questi avvenimenti, interessarono anche la vita dell’abbazia. I documenti vaticani che, in alcuni casi, l’appellano come “S. Marinae de Camerota”, facendo confusione con luoghi appartenenti alla diocesi di Policastro Bussentino, evidenziano, infatti, che già agli inizi del Cinquecento e durante il secolo successivo, “S. Marinae”, posta presso il confine con il territorio di Campana, fu concessa in commenda.[cxxxviii]

 

Note

[i] “Melissa (…) Sunt aquae sulphureae. (…) casuonum castellum. (…) In hoc agro Alabastrites nascitur. Et gypsum e terra foditur. Est et sulfur, et iuxta cinga vicus est, ubi fontes sunt salsam aquam manantes. (…) Cacurium (…) Hic sal fossile nascitur. Extant et sulfureae aquae. (…) Cerenthia sive Gerentium (…) Extant sulfureae aquae multis locis. Fit sulfur, nascitur sal fossile, et alabastrites, sive lapis alabastritae similis et lapis, ex quo fit alumen, quo oppidani ob inscitiam in fabricandis aedibus utuntur. (…) Vertinae oppidum (…) In hoc agro alabastrite albus et niger nascitur, item sulfur, et alumen, et rubrica fabrilis, et calcanthum, et sal fossile, et lapis sive terra samia gilva et alba, qua aurum et gemmae expoliuntur, tripolim vocant aurifices, nascitur et ferrum, et argentum, item lapis albus argenti materia, ut quidam volunt. (…) Briaticum (…) Nascitur alabastrites, et gipsum marmorosum, et lapis molaris.”. Barrio G., Antiquitate et Situ Calabriae, Liber Quartus, Roma 1571, pp. 371-375.

[ii] Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Padova 1601.

[iii] Fiore G., Della Calabria Illustrata I, 1691.

[iv] Con alterne vicende, lo sfruttamento di queste due risorse minerarie è continuato fino ai nostri giorni. Ottenuta la concessione alla fine degli anni Sessanta, la produzione di sale a Belvedere Spinello fu ripresa dalla Montedipe (poi Enichem) nel 1970. Nel 2000, la Syndial, società del gruppo ENI, ha preso il posto di Enichem. “Dal 2009 la miniera di Belvedere di Spinello è ferma”. Francesco Neve (a cura di), Le zone morte: 2. Il sale fa più paura del cloro. Il caso di Belvedere Spinello (KR), da il blog della Società Chimica Italiana (SCI), https//ilblogdellasci.wordpress.com.

[v] Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 249-250. A proposito della “Pietra da calce” il Cortese affermava: “Il Nummulitico non è tanto utilizzato, perché in pochi luoghi si trova in grandi masse, dà però buona calce quello di Colle Trodo e dei dintorni di Mormanno. Rinomato quello di Torre Melissa, che è in grande massa, e spunta fra le argille del’Eocene medio.”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 319.

[vi] ASN, Dip. Som. Fs. 196/6, ff. 132v, 174v, 208, 214v. Il toponimo “Capo Petraro” è riportato nella carta dei regni di Sicilia, Sardegna, etc., fatta a spese degli eredi Homann (1762) e nella carta del 1782 intitolata “il Regno di Napoli diviso nelle sue Provincie” (“C. Petraro”). Il toponimo “Serra del Petraro” è riportato nel F.o 238 Cotrone, 1:100.000 (1927). Le località “S.ra del Petraro” e “P.ta Petrara” si evidenziano presso il confine tra i territori di Strongoli e Melissa, nel Foglio 562, Cirò, 1:50.000.

[vii] Un atto del 30 settembre 1630, evidenzia che Stefano de Martini di Policastro, possedeva beni in territorio di Strongoli, tra cui la gabella nominata “la salina”. ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297 ff. 172v-174. Il toponimo “C. Salinella” in territorio di Strongoli è riportato nel Foglio 562, Cirò, 1:50.000.

[viii] Pesavento A., La Salina di Neto presso Altilia; Estrazione e commercio di Sale nelle miniere di Miliati e Neto, in www.archiviostoricocrotone.it.

[ix] Nella tavola “N.° 29” (1789) della carta di G. A. Rizzi Zannoni, troviamo i toponimi “Le Saline” presso Altilia e “Salina di Migliate” presso Cerenzia. I toponimi “R. Meliate”, “Manca del Vescovo” e “Sal.la di Neto”, sono riportati nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000 (1927), dove troviamo “R. Sberno” presso Cotronei. Il toponimo “Miliato” ed il vicino “Caserma (Abb.ta)” sono riportati nel Foglio N. 561 S. Giovanni in Fiore, 1:50.000, mentre troviamo “Salinella” presso Altilia, nel Foglio nel Foglio N. 570 Petilia Policastro alla stessa scala.

[x] “(…) 3) Miliati, inondata dalle acque. Era povera di minerale. Si pagavano al vescovo di Cariati duc. 50 per evitare sia che il terreno fosse messo a coltura sia che la «gente campagnola» rubasse il sale; la R. Corte fittava il terreno ad uso di pascolo per duc. 32 annui; 4) Manca del Vescovo, aperta in sostituzione di Miliati ma inondata nel 1784; era sita nel feudo del principe di Cerenzia, a cui la R. Corte pagava duc. 80 all’anno; 5) Smirne, presso Cotronei, in corso di apertura; 6) Nuovo Scavo, presso il fiume Neto, di proprietà della R. Corte che percepiva duc. 16 annui dal fitto del prato; 7) Salina Nuova, alias Bombacajo, pure nella stessa zona.”. “Il 9.7.1806, Vincenzo Pecorari scriveva al Ministro dell’Interno: «Fra moltissimi luoghi del Regno vi sono miniere di salgemma. Nelle Calabrie sono le più note», ASN, Interno, II, f. 2347. E il Consiglio provinciale di Calabria Ultra: «L’opera più vantaggiosa sarebbe lo scavo di qualche miniera di sale. La mancanza di sale marino che tiravasi dalla Sicilia si risente moltissimo e non può essere compensanto dal sale di monti, che sono nell’altra provincia in Nieto, Rossano, e simili»; «Nel territorio di calimera, nel luogo detto la Salina, in quello di Mantineo, nello Steccato vicino il fiume Tacina, nella Grancia dei Certosini di S. Leone di Stilo, potrebbero farsi dei tentativi giacchè v’è l’apparenza di un felice risultato». Idem, I, f. 183/1.”. Caldora U., Calabria Napoleonica (1806-1815), ed Brenner Cosenza 1985, p. 270 e n. 10.

[xi] I toponimi “Salinella Basilico”, “Sal.la di Neto” e “Salinella Ogliastro”, sono riportati nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000 (1927).

[xii] “Le saline di Basilico (a 10 miglia da S. Severina e 3 da Cerenzia), Neto (sotto Altilia), Ogliasti e Olivadi furono definitivamente chiuse con il decr. 13.4.1826, perché quelle di Altomonte, Barletta e Trapani erano esse soltanto sufficienti ai bisogni del Regno.”. Caldora U., Calabria Napoleonica (1806-1815), ed Brenner Cosenza 1985, pp. 299-300, n. 11.

[xiii] “Ma si hanno depositi di sale anche in tutte le basse vallate del Neto, del Tacina e dei loro affluenti, e questi depositi si manifestano sotto forma di piccole lenti di salgemma, o di scaturigini di acque sature di cloruro di sodio. Infatti lungo quelle vallate si trovano molte salinelle, o gabelle, località dove, prima del 1860, si ricavava il sale, sotto la sorveglianza, forse, di agenti governativi, ed attualmente ancora nella località detta Mandravecchia, sotto Zinga, si mantiene una numerosa brigata di guardie di finanza, per impedire la utilizzazione libera dell’abbondante e naturale prodotto.” Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 149-150.

[xiv] Il toponimo “Mandriavecchia” è riportato nel Foglio N. 561 S. Giovanni in Fiore, 1:50.000. I toponimi “Salinella Ogliastro” e “Salin.la Petraro”, sono riportati nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000, 1927.

[xv] Il toponimo “Basilicoi” è riportato nel Foglio N. 561 S. Giovanni in Fiore, 1:50.000. I toponimi “Salinella Basilico” e “Sal.la Calderazzo” sono riportati nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000, 1927.

[xvi] Il toponimo “Salinella” è riportato nella carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis, Roma 1889. I toponimi “Sal.la di Neto” e “Salinella”, sono riportati nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000, 1927. I toponimi “Salinella” e “Montedipe Miniera di Salgemma” sono riportati nel Foglio N. 570 Petilia Policastro, 1:50.000.

[xvii] Il toponimo “Salinella” è riportato nella carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis, Roma 1889, nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000, 1927, e nel Foglio N. 570 Petilia Policastro, 1:50.000.

[xviii] A proposito del “Salgemma”, il Cortese afferma: “In tutta la regione dei fiumi Lese, Neto e Tacina, di cui si è già parlato in un precedente capitolo, si hanno degli ammassi di sale fra le argille mioceniche. Essi sono accompagnati da gesso in piccole croste, ma poi, sopra alle argille, abbiamo gli enormi depositi di gesso della zona gessoso-solfifera. Furono fatti anche dei lavori, i quali però, più che per scavare il salgemma, erano fatti per raccogliere le acque cariche di sale che gemevano dalle argille salate: tanto cariche, che si trovano sotto a quegli stillicidii delle distese di un bel sale bianco, cristallizzato, un vero sale raffinato, formatosi spontaneamente per l’evaporazione di quelle acque. Le guardie doganali hanno l’incarico di sporcare quel sale e di farvi la guardia, perché nessuno lo utilizzi. E’ un vero sperpero di materiale utile non solo, ma necessario, e che viene imposto soltanto dalla legge fiscale. Le località principali dove si prendeva il sale, nell’epoca anteriore al 1862, erano: Mandravecchia – Salinella Ogliastro – Sal. Petraro, presso Zinga – Salina Basilica – Sal. Calderazzo, presso Caccuri. Salinella di Neto – Gabella Grande – Salinella di Tacina, presso Rocca Bernarda – Salinella di Inò, presso Mesuraca – Salinella di Marcedusa – Gabbelluzza, presso Cotrone.”. (Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 302-303.

[xix] Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 286-288.

[xx] “Federico II imperatore e re di Sicilia, su richiesta di Blasio monaco, priore del monastero di S. Angelo de Frigillo, presentatosi alla curia imperiale a nome dell’abate e del convento, prende il monastero stesso sotto la sua protezione confermandone i possessi e le immunità.”. Nel documento molto frammentario, sono ricordati diversi possessi e diritti dell’abbazia tra cui: “… et ut libere sumant sale de salenis nostris Neti et Merchedusi absque alicuius contradicione.”. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1958, pp. 335-339.

[xxi] “Terre à la Salinella foro de Sansonetto piano e di Giovanni Iannigi deli roberti et ceraldi di belcastro … salmate 30 …”. “Terre congiunti à la salinella che foro del q.m Cola de arnone salmate cinque …”. AASS, 7A, f. 41.

[xxii] “Item lo terr.o della Saninella sito dentro ditto tenimento di moya cinquanta incirca, iuxta lo terr.o de Balcastro, le t(er)re di Jo Thom.o de Diano, e le terre di Aurelio Maurice, quale si vende per ditto Ill. Principe docati sessanta l’anno incirca insieme con una gabelluccia confine li heredi di Aurelio Maurice e Tho: de lamantea.”. AASS, 7A, f. 44.

[xxiii] AASS, 14A, ff. 2-2v.

[xxiv] “… affitto dela Salinella, et la battaglia q.ale limita per l’umbro ad Irto per la via si va à Catanzaro confine lo bosco, et li comuni di bolinaggio et altri fini soliti et consueti …”. AASS, 14A, f. 27v.

[xxv] “… per la mandra della salinella e battaglia e Cucuzito territ.o di mesoraca. …”. AASS, 7A, f. 139.

[xxvi] AASS, 2A, f. 95.

[xxvii] AASS, 7A.

[xxviii] AASS, 15B, f. 96v.

[xxix] “Le argille poi sono gessifere e specialmente salate, come si è indicato per le valli del Tacina, del Lepre e del Lese, dove si hanno tutte le antiche salinelle e gabelle.”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 245.

“Infatti nella valle del Vitravo, fra Zinga e Cerenzia, si hanno le argille gessifere, assolutamenti sottostanti alle grandi masse di gesso, di Serra Cornoo, di Serra di Fica e Serra di Dera, le quali hanno tutto l’aspetto delle argille intercalate al gesso e ne hanno la posizione stratigrafica. Ma esse però presentano delle agglomerazioni di sale, identiche alle vicine argille tortoniane, ed in esse sono le salinelle Ogliastro, Petraro e Mandravecchia. Benchè nella Carta geologica al 1:100.000 le argille di questa località siano state segnate nella zona gessosa, potrebbero forse considerarsi, più opportunamente, come tortoniane”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 158.

“I gessi sono regolari sopra alle zone mineralizzate, mentre sono alabastrini, e in masse irregolari, a Cozzo Granatello. Straordinario è lo sviluppo che prendono i gessi, e le argille che li accompagnano, fra San Nicola, Verzino, Cerenzia vecchia e Belvedere Spinello. Sono bellissime formazioni di gesso stratificato, di colori diversi, e che copre immense estensioni.”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 246.

[xxx] Reg. Ang. XIII, p. 267. Reg. Ang. XVII, pp. 57-58. Reg. Ang. XLVI, pp. 204 e 237. Il toponimo “Gipso” è ancora riportato nel F.o 237 S. Giovanni in Fiore, 1:100.000 (1927), mentre troviamo “M. Izzuso” nel Foglio N. 561 S. Giovanni in Fiore, 1:50.000.

[xxxi] Maone P., Casabona Feudale, in Historica n. 3/4 e 5/6, 1963, p. 206.

[xxxii] “Un altro lembo si trova a Petilia-Policastro, ed è gesso marmoreo ceruleo (balatinato come si dice in Sicilia) che si lavora assai bene per pietrame da costruzione.”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 246.

[xxxiii] “… e oltresi miniere Ricchissime di Gesso, di Marmo, di Bolo, e di Sale in più parte, …”. Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro (1721-23).

[xxxiv] “Nec non Templi Frontem, post plurium annorum laborem, Policastrensi lapide, Tyburtino lapide haud absimili, eleganti facie iam absoluta, venustam reddidi.”. ASV, Rel. Lim. S. Severina, 1709. “Nec non Templi Frontem, post plurium labores annorum, Policastrensi lapide, Tyburtino haud absimili, eleganti facie iam absoluta, venustam reddidi.”. AASS, 059A, f. 134.

[xxxv] ASCZ, Notaio Protentino Crotone, Busta 119, ff. 019-020.

[xxxvi] La presenza di un luogo chiamato “la sulfara” in territorio di Cirò, si rinviene in un atto del 22 settembre 1577. Quel giorno, Personico Tessitor vendeva al m.co Frabicio Morano “baronis casalis carficzi”, la “continentiam terrarum” posta “intus territorium ditte t(er)re ciro”, “in loco ubi dicitur la sulfara”, confine le terre del nobile Marco Valerio Papandro, le terre di Antonello de Falcone ed altri fini. ASCZ, Notaio Alboccino G., b. 13, ff. 80v-81.

[xxxvii] Ancora nel 1975, come riportava il “Giornale di Calabria” del 15 febbraio 1975, quattro operai erano rimasti sepolti dalla roccia staccatasi dalla volta di una galleria e tre di essi erano deceduti. Da www.strongoli.org, Archivio Fotostorico Bibliografico di Strongoli.

[xxxviii] Il toponimo “Temp.e di S. Croce” è riportato nella tavola “N.° 29” (1789) della carta di G. A. Rizzi Zannoni. I toponimi “S.ra Buongiorno” e “R. il Prato” sono riportati nel F.o 238 Cotrone, 1:100.000 (1927). I toponimi “Comero” e “S.ra S. Croce” sono riportati nel Foglio 562, Cirò, 1:50.000. I toponimi “Min.a di zolfo di Comero”, “Serra S. Croce” e “C. Santa Croce”, sono riportati nella sezione 1:10.000  (IV N.O. Sez. B) Strongoli, del F. 238 della Carta d’Italia, mentre i toponimi “S. Domenica”, “C. S. Domenica”, “Carcarella (rov.e)” e “Prato”, si ritrovano nella sezione 1:10.000 (IV N.O. Sez. C) S. Nicola dell’Alto della stessa carta.

[xxxix] Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 249-250.

[xl] “Grande espansione prende il calcare solfifero fra San Nicola dell’Alto e Strongoli, e colà non è stratificato, ma in masse irregolari, ed è solfifero, tanto da essere coltivato con profitto nelle varie miniere locali.”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 246. “Le rocce della zona solfifera (calcare siliceo e gesso) si mostrano frequentemente (…) ma non sono mai realmente solfifere, menochè nel Cotronese, da Cotronei a Verzino, e a Strongoli. Qui sono solfifere, e tuttavia non tutte contengono tanto minerale di solfo da essere convenientemente coltivate. Desciverò quindi la zona di Strongoli e San Nicola dell’Alto, dove furono aperte le miniere. Il solfo si trova generalmente in mezzo ad una ganga marnosa, ma non è raro trovarlo proprio nel calcare. (…) In Calabria, se è abbondantemente rappresentata la formazione, non è che scarsamente distribuito il solfo, anzi possiamo dire che è localizzato alla regione che si estende da Cerenzia e da Cotronei a Strongoli. (…) La formazione da Strongoli a Cerenzia, ricopre una estensione di 30 chilometri quadrati, ma l’esistenza del solfo fu riconosciuta solo per 6, cioè per la metà circa della parte ove si mostra anche il calcare siliceo. Alcune ricerche fatte presso a Cerenzia, a Pallagorio, ed a Cotronei, hanno mostrato l’esistenza del solfo, ma in piccola quantità, e per ora le ricerche più fortunate e le escavazioni sono tutte concentrate presso San Nicola dell’Alto. Generalmente, come si vedrà dalle unite sezioni, vi sono due zone di minerale, una più grossa alla base, riposante quasi direttamente sul tripoli, ed una superiore, più sottile, separata dalla precedente da un grosso strato di alabastro. Al di sopra si ha, a Serra Buongiorno, una potente zona di alabastri e gessi alabastrini e poi delle argille sabbiose e arenarie argillose gessifere e dei gessi. Al Cozzo Granatello invece, sopra al terreno solfifero, si hanno pochi gessi bianchi alabastrini, e poi quattro alternanze di argille gessifere e gessi alabastrini, e in ultimo le arenarie argillose. (…) Il minerale viene scavato a cottimo, da minatori che, mettendo del proprio i ferri e il lume, vengono pagati 22 lire ogni cassa di minerale. Una cassa è circa metri cubi 4,80, talchè il minerale viene pagato circa lire 4,50 al metro cubo (in nota: Ciò va riferito al tempo in cui fu scritta la memoria). Viene trattato, al solito, nei calcaroni, col solito disperdimento, reso anche maggiore dalla cattiva condotta del fuoco, tanto che avviene spesso di vedere, la notte, durante la vuotatura del calcarone sollevarsi delle grandi fiamme cerulee dal mucchio, ciò che indica che molto solfo va disperso inutilmente, perché brucia senza colare. Il minerale più povero produce al calcarone l’8% di solfo, il più ricco fino al 20 o al 25 %. Le miniere principali sono: Santa Croce, limitata e quasi esaurita, Commaro Quercia e Commaro Santa Maria, Santa Domenica, le Carcarelle, il Prato, Serra Buongiorno (ove se ne hanno 2 distinte). Ricerche furono fatte a Cavallodero, dove, a 10 metri di profondità, fu trovato il minerale dello spessore di 0,30 che fu ritenuto troppo piccolo, per cui fu abbandonata l’idea di aprirvi una miniera. Altre ricerche più fortunate, a quanto si dice, furono fatte recentemente a Pietrebianche. Moltissime, ma poco fortunate, erano state fatte nei territori di Belvedere Spinello, di Pallagorio, Verzino, ecc. In tutte le miniere aperte, fu trovato che la formazione pendeva al massimo di 30° verso S.S.E, e in profondità la pendenza tendeva a diminuire. A Serra Buongiorno la potenza massima del minerale fu di 3 metri, ma alle miniere di Commaro si trovarono lenti anche più potenti. In quest’ultima però, causa gli antichi scavi che si incontrarono, e una cattiva direzione, i lavori erano piuttosto irregolari. Ora procedono più regolarmente in tutte le miniere. La produzione annua del solfo, in questo gruppo di solfare, è di circa 6000 tonnellate, e per la massima parte viene portato alla stazione di Strongoli e spedito per ferrovia. Il trasporto dalle miniere alla stazione (16 chiolometri in media) è fatto generalmente a dorso d’asino, e si paga L. 1,50 al q.le. E’ da augurarsi che l’esistenza del solfo vegna accertata in altre località non solo, ma anche in tutta la parte di questa regione in cui si trova il calcare. (…) Benchè ulteriori ricerche siano state fatte, non vi è da segnalare che un rinvenimento di vecchia miniera nella Valle del Lese ove si trovano i resti di molti calcaroni. Anche nella stretta valle del Torrente Cornoo, a tergo della precedente, si vede un vecchio calcarone. Pare che una faglia diretta NO-SE abbia ribassato il giacimento, ma non fu ricercato più oltre.” Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 303-307.

[xli] Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 286-288. Troviamo il toponimo “Acqua Solfara” tra “Acerentia” e Zinga, nel Foglio N. 561 S. Giovanni in Fiore,1:50.000, mentre troviamo “Acque Termali Bruciarello” presso il fiume Neto, nel Foglio N. 570 Petilia Policastro alla stessa scala.

[xlii] Strabone, VI, 1, 5. Il celebre verso è posto dal poeta in bocca ad Atena che nel primo libro dell’Odissea, si presenta a Telemaco sotto le sembianze di Mente, re dei Tafi, antico ospite di Ulisse: “(…) Io Mente esser mi vanto, / figliuol d’Anchialo bellicoso, e ai vaghi / del trascorrere il mar Tafi comando. / Con nave io giunsi e remiganti miei, / fendendo le salate onde, ver gente / d’altro linguaggio, e a Temesa recando / ferro brunito per temprato rame, / ch’io ne trarrò (…)”. Odissea – libro I, vv. 242-250. “… in Calabria, dove una tradizione ricordava ferriere antichissime, in attività prima della venuta dei Saraceni.”. Caldora U., Calabria Napoleonica (1806-1815), ed Brenner Cosenza 1985, p. 276.

[xliii] Panichi F., La produzione medievale del ferro nella Toscana meridionale, progetto di ricerca dell’Università degli Studi di Siena a. 2005-2006.

[xliv] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 170-172. “Infra quod tenimentum curia nostra habet jus plateaticiae haerbasii, affidatur, animalium extraneorum, Glandasgi, mineram ferrei, juspicis, exceptis hominibus Consentiae et Casalium suorum, qui adnihil prodicta praestatione tenentur”. Marini C., Sulla Selva Bruzia e sulla interpretazione ed applicazione de’ Reali Decreti del 5 ottobre 1838 e 31 marzo 1843 alle quistioni relative all’Agro Silano, Cosenza 1844, rist. an. 1995, p. 38.

[xlv] ASCS, Corporazioni Religiose, B. 8, Vol. 89, f. 9v e f. 10.

[xlvi] Marini C., Sulla Selva Bruzia e sulla interpretazione ed applicazione de’ Reali Decreti del 5 ottobre 1838 e 31 marzo 1843 alle quistioni relative all’Agro Silano, Cosenza 1844, rist. an. 1995, p. 52.

[xlvii] BAV, Fondo Latino 7572, f. 46.

[xlviii] “Privilegium Federici [II] regis Siciliae quod monasterium libere possit cavare et percipere meneras ferri, per omnes meneras Calabriae et in suo tenimento nova invenire perpetuo possidenda et molendinum edificare in tenimento Acherentiae, anno 1210.” De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, p. XXXV.

Nel maggio del 1210, in Messina, Federico II, concedeva a “Matheae venerabilis abbas et conventus Floris”, di poter “cavare et percipere meneram ferri per omnes meneras Calabriae. Si vero infra tenimenta eiusdem monasterii Floris menera ferri poterit inveniri, ipsam meneram ferri” concedeva e donava liberamente in perpetuo senza alcuna esazione. De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 042-043.

“Privileg. eiusdem Rom. Imp. super confirmatione omnium granciar. et concessione cavandi mineras etiam in tenimento Abbatiae, ac aedificandi molendinem in tenimento Acherentiae. In Anno 1219.” Siberene, p. 219.

“Privilegium Federici Romanorum regis super confirmatione omnium granciarum et concessione cavandi mineras etiam in tenimento abbatiae ac aedificandum molendinum in tenimento Acherentiae et loco de Bordò, anno 1219.” De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, p. XXVIII.

Nell’aprile del 1219, in Basilea, Federico II confermava i possedimenti del monastero, con la possibilità di “cavare et percipere meneram ferri per omnes meneras Calabriae” e di possedere in perpetuo le miniere che fossero state rinvenute nei suoi tenimenti. De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 080-082.

[xlix] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 099-101 e 102-103.

[l] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 123-130.

[li] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 092-093.

[lii] La località “T.re di Camporotondo” è riportata nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927).

[liii] Il toponimo “T.re la Cava” è riportato nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), mentre i toponimi “T.re la Cava (rud.o)”, “La Cava”, “Cave di pietra” e “Cava di Pietra”, si rinvengono nel Foglio N. 569 “Soveria Mannelli” 1:50.000.

[liv] “(…) La predetta Abbazia hà un bellissimo Territorio di Sopra cento / miglia di circuito consistente tutto nella Sila di Cosenza, mà / però fertilissimo, ed abbondante d’ogni Sorte de’ frutti, e biade (…). Il Territorio Sudetto viene descritto nelle concessioni, e privi / legii de’ Sudetti Imperatori, e Rè colli fini descritti nella d.a / Platea nel principio, li quali Si Sono posti anco in questa con / haversene aggiunto, ed intermezzato qualcheduno per mag / gior chiarezza, come hanno giudicato, e dichiarato li Sud.i / huomini periti prattichi del detto Territorio mediante il loro / giuramento, e li Suoi fini sono l’infra(scri)tti cioè. Comincia / dal Vado del fiume di Neto, quale è Sotto il Castello delli Schia / vi, e tira in Sù col fiume di Reyo, e la Strada delli Sici / liani, andando verso mezzo giorno via via, che Si và alla / Terra di Lurica, e dalla Terra andando per la via verso / Sararico, pure tira innanzi via via, e passa per la Cava / detta delli Spagnoli, e fuori  alla fiumarella di mellaro di / duo fere allo passo di Pinui cellito, e  per la via che Si và allo / melillo cammina pure per la via della Cava, che passa Sopra / la Terra di Campo rotondo, e và à Nicastro, e tira per Campo rotondo Sino che arriva al fiume di Sambuco in / Sù, e Sino che arriva al Vado, d’onde principia d.o fiume / quale vado hora communemente Si chiama fontana di / labro, e poi Scende coll’altra fiumarella, che nasce poco / lontano da detta fontana di labro, e và in giù, finche Si / unisce colla fiumarella, che viene da Varvarano, e Siegue / con la detta fiumarella di Varvarano, finche Si unisce col / fiume d.o Ampolino, e discende Secondo và detto fiume / finche Si unisce col fiume di Neto, (…)”. ASCS, Corporazioni Religiose, B. 8, Vol. 89, ff. 4-4v.

[lv] I toponimi “T.re Canali” e “T.re Pietrarva” si rinvengono nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), mentre i toponimi “Colle Pietrarva”, “Pietrarvella”, “Pietralba” e “Torre di Canale” sono riportati nel Foglio N. 569 “Soveria Mannelli” 1:50.000.

[lvi] “(…) In luogo detto Canale vi è ancora un Commune il quale prin / cipia proprio dalla fontana di labro, e tira in giù la fiuma / rella dell’istessa fontana chiamata Sabuto Sino al passo / Petrarva, di dove volta alla via, che ritorna verso la detta / fontana di labro in loco detto li rizzosi, dove è una difesa / che fù già delli Rizzusi, che hoggi la possiede il Sig.r Anto / nio Cavalcante +. / Vi è un Commune, il quale comincia dal passo del Vallone, e / proprio dove era la forgia, e per lo Vallone in giù Si unisce / con l’altro Vallone, e per lo Vallone in Sù esce alla Strada / publica, che và verso li Casali di Cosenza, e per la via ritor / na al passo Sopradetto del Vallone. (…).” ASCS, Corporazioni Religiose, B. 8, Vol. 89, f. 41.

[lvii] Valente G., La Sila dalla transazione alla riforma (1687-1950), Rossano Calabro 1990.

[lviii] I toponimi “lo Spineto” e “T.re Spineto” si ritrovano nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), mentre i toponimi “Quarto di Spineto”, “Borgo Torre Spineto”, “T.re dello Spineto”, “Spineto Otto Case”, “Manco Spineto”, “Spineto Dodici Case” e “Villaggio Spineto” sono riportati nel Foglio N. 569 “Soveria Mannelli” 1:50.000.

[lix] Vicino a “T.re di Camporotondo”, troviamo i toponimi “T.re Tassitano” e “T.re Vecc.a” nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), mentre quelli “Tassitano, “T.re Tassitano”, “Contrada Tassitano”, “Torrevecchia” e “T.re Vecchia”, sono riportati nel Foglio N. 560 “Spezzano della Sila”, 1:50.000 e nel Foglio N. 569 “Soveria Mannelli” alla stessa scala.

[lx] “Dell’Ordine Florense. (…) 3. Tassitano, diocesi di Gerenzia. (…)”. Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 594.

[lxi] Il toponimo “Vallone Tassiti” ricorre in occasione della confinazione del territorio di Sanduca alla fine del sec. XI: “… incipit à Vallone quod dicitur de Graecis, et vadit ad flumen Ampulini, et ascendit de ipso Vallone Tassiti, et vadit ad locum, quod dicitur Arenosa, …”. Ughelli F., Italia Sacra IX, 476.

[lxii] Ughelli F., Italia Sacra cit., IX, 195-196.

[lxiii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 239-241.

[lxiv] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 029-031.

[lxv] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 088-089.

[lxvi] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 9-10, 11-13, 29-31, 88-89, 123-130, 194-196, 230-233. ASCS, Corporazioni Religiose, B. 8, Vol. 89, ff. 4-4v.

[lxvii] ACA, Cancillería, Reg. 2903, f. 180v. Sempre al tempo di re Roberto d’Angiò, relativamente ad una località della Sila non meglio precisata, sappiamo che fu concesso a Michele de Cantone di Messina, milite e maestro razionale della regia curia, “di poter costruire in quella estesissima giogaja boscosa (di circa 60 miglia) un fortilizio «in quo homines habitare valeant»” “Ex regest. An 1333-1334 lit. B fol. 315 v.o. …”. ASRC, Super fondo Raccolte e Miscellanee, fondo Blasco Salvatore, in ASMM, www.archividelmediterraneo.org.

[lxviii] “(…) Item in loco detto S. Nicola è proprio dove Si dice la Torre di / Volpe in testa è lo Commune come Sopra, quale confina colla / difesa di San Nicola Sottana dalla parte di Sopra di detta / difesa, e fere al macchione del forno della pece, in mezzo del / quale vi Sono due pini, e nel pino Sottano vi è una pietra / grande, e ripartite in più parte, e proprio dove è nel mez / zo del detto macchione vi è un galapo, e Sorge per detto Ga / lapo à detto forno della pece, ed à d.o forno Siegue di pia / no per mezzo del pinetto per lo Colono, e Siegue alli pini / alto di Sopra lo macchione libero di detta difesa, che / confina colla difesa delli monaci di monte Oliveto / di Pelosi detto Vallone alle Case, e Siegue la Terra in Sù / che confina con macchia di Pietro, e finisce allo Ca / stello di Volpe intesta acqua fundente nel destro verso / mezzo giorno, ed à d.o Castello asciende al galapo verso al / bosco verso Tramontana, ed esce alle fornelle, e di là Se / guita come tengono li confini di S. Nicola Settano / e Si unisce colla difesa di San Nicola Settano, ed à d.i / limiti in Sù, come comincia il term.to d.o di sopra. (…)”. ASCS, Corporazioni Religiose, B. 8, Vol. 89, f. 42.

[lxix] I toponimi “Le Forgie di Cecita”, “Forgie di S. Bartolo”, “R.e Pietralba”, “Pietrabianca” e “R.e S.ta Barbara”, si ritrovano nel F. 230 III “Longobucco”, 1:50.000, 1872. I toponimi “R. Forgie di S.n Bartolo”, “Pietrabianca”, “Pietralba” e “C. S. Barbara” sono riportati nella Carta Geologica d’Italia, F.o 230 “Rossano”, della carta al 100.000, 1900. I toponimi “R.ne Forgie di S. Bartolo”, “Pietrabianca”, “Pietralba” e “C. S. Barbara”, si ritrovano nel F.o 230 “Rossano”, 1:100.000, 1927. I toponimi “Forgie di S. Bartolo”, “Pietra Bianca” e “S. Barbara”, si ritrovano nel Foglio N. 560 “Spezzano della Sila”, 1:50.000.

[lxx] Sangineto A.B., Roma nei Bruttii, Città e campagne nelle Calabrie romane, 2013, pp. 37-38.

[lxxi] Caggese R., Roberto d’Angiò e i suoi tempi Volume I, 1922, p. 520 e sgg.

[lxxii] Caggese R., Roberto d’Angiò e i suoi tempi Volume I, 1922, p. 312 n. 4.

[lxxiii] Caggese R., Roberto d’Angiò e i suoi tempi Volume I, 1922, p. 524.

[lxxiv] Caggese R., Roberto d’Angiò e i suoi tempi Volume I, 1922, p. 529.

[lxxv] ASCS, Fondo Pergamene, in ASMM, www.archividelmediterraneo.org. Russo G., Documenti Inediti di Archivi e Biblioteche Calabresi (sec. XII-XVII), Castrovillari, 2006, pp. 465-470.

[lxxvi] Fonti Aragonesi II, p. CIL e pp. 101-102. Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 117.

[lxxvii] “… autorizzazione al veneziano Antonio Valerio di poter estarre da Crotone, ove possiede magazzini di ferro, che vende in Calabria e fuori, 110 cantaia di ferro per smerciarlo ove meglio creda, tranne «per li lochi dove su fundichi e supta fundichi de nostra Corte». Ma anche questa restrizione fu rimossa grazie al pagamento di 230 ducati, «come terciaria», alla Regia Tesoreria.”. Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, 1963, p. 98, nota 2.

[lxxviii] ASN, Reg. Camera della Somm., Segreteria, Inventario.

[lxxix] ASCZ, Regia Udienza, Cart. S. 426-7, fasc. XI-1752.

[lxxx] Falanga M., Il Manoscritto da Como Fonte Sconosciuta per la Storia della Calabria dal 1437 al 1710, in Rivista Storica Calabrese n. ½ 1993, p. 259.

[lxxxi] Pesavento A. La Costruzione delle Fortificazioni di Crotone, una Cronaca del Cinquecento, 1984, p. 30.

[lxxxii] ASN, Reg. Camera della Somm., Segreteria, Inventario.

[lxxxiii] ASN, Cancelleria e Cons. Coll., Inv.

[lxxxiv] IGM, Carta Geologica della Calabria, Foglio 237 – III N.E. Monte Gariglione, 1:25.000, della Carta d’Italia.

[lxxxv] Dizionaretto Geografico della Sila in Valente G., La Sila dalla Transazione alla Riforma 1687-1950, pp. 265-279.

[lxxxvi] Valente G., La Sila dalla transazione alla riforma (1687-1950), Rossano Calabro 1990.

[lxxxvii] Da A. Leoni, Giornale e notizie de tremuoti accaduti l’anno 1783 nella Provincia di Catanzaro, Napoli 1783.

[lxxxviii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 099v-101.

[lxxxix] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 051-051v e ff. 066v-067. Nel relevio del 1696, fra i corpi feudali di Policastro compaiono un forno di pece nera e un caccavo di pece bianca prodotte “in contrada Macinello”. Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 151 che cita lo Spoglio dei Relevi dell’anno1696, fol. 125 e 248. “Nel 1714 Nicola Cattaneo si affittava dal Principe della Rocca un territorio in quel di Policastro, tenimento detto Macinello, appunto per impiantarvi un forno di pece.”. Valente G., La Sila dalla Transazione alla Riforma 1687-1950, p. 216 n. 305.

[xc] Foglio 237 – II N.O. “Petilia Policastro” 1:25.000 della Carta d’Italia.

[xci] Il toponimo “R. del Ferro” è riportato nella Carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis (1889) e nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), mentre la sezione 1:10.000 “Montano” (II N.O. sez.C) del F. 237 della Carta d’Italia, riporta il toponimo “Ferro” in due vicine e differenti localizzazioni.

[xcii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 336.

[xciii] Fiore G., Della Calabria Illustrata II, p. 582. “(…) Nella Montagna alla parte occidentale in sù da questa parte del fiume Soleo, ben quattro miglia lontano dalla Città, vi era il Monastero di Santa Maria di Cardopiano di Padri Basiliani, dà tempi come si crede del Beato Nilo Calabrese Abbate di quel luogo dell’ordine stesso sin presso all’anno mille, e quattrocento circa di quel secolo legasi una sottoscrizione d’un altro Nilo Abbate di quel luogo. A ben della sua chiesa ne appariscono ancor le reliquie, e se ne conserva il titolo Abbaziale nell’ordinario Paroco di Santo Pietro alla di cui Parocchia fu incorporato tutto il Comprensorio di terreno, che circuiva il Convento. (…)”. Mannarino F. A., “Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro” (1721-23).

[xciv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958,  pp. 43-45.

[xcv] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 95-97.

[xcvi] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 86-90 e pp. 116-122.

[xcvii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 146-151.

[xcviii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 101-106.

[xcix] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 168-179.

[c] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 168-175.

[ci] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958,  pp. 241-247.

[cii] 1546: Dal “Libro de tutte l’intrate de lo arcivescovado dè s(a)nta Anastasia”, “Denari receputi ad lo sinido nello iorno de s.ta anastasia de lo ij.o anno de lo afficto 1546”, (…) Da s.ta maria de cardo chano libra una de cera”. Metà del Cinquecento, entrate della chiesa arcivescovile senza data: “Rector et Cappellanus s(an)te m.e de Cardopiano debbet Comparere Cum censu cere libre unius et medie C.L. i ½”. 1564: “Rector sante Marie de cardo plano de policastro cum censu cere libre unius cum dimidia” non comparve personalmente e fu condannato a pagare entro 8 giorni. 1579: “R.s Abbas s.te M.e de Cardo plano de polic.o Cum Censu Cere lib. unius” comparve D. Joannes Petrus Papaiani “pro abbate” pagando 1 libra di cera. 1581: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano de Polic.o cum censu cerae librae unius” comparve D. Antonuccius Papasoderus “et excusavit eum propter senectutem et solvit”. 1582: “R.s Abbas s.te M.e de Cardoplano de polic.o” comparve l’archipresbitero di Policastro e pagò una libra di cera. 1584: “R.s Abbas sanctae Mariae de Cardoplano de polic.o” non comparve. 1587: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano de Polic.o Cum censu cerae librae Unius” comparve il “R.s capp.s seu Abbas” e pagò. 1588: “R.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano de Polic.o” non comparve e fu condannato al pagamento della terza parte dei frutti. Il 19.11.1589, in merito alla mancata comparizione nel sinodo, si menziona la “Abb.a S.tae Mariae de Cardoplano”, “in T(er)ra Cutri” (sic). 1590: “R.dus Abbas S. Marie de cardoplano cum Censu cere libre Unius” non comparve ma comparve per lui D. Joannes Paulus Letus che “stante eius infirmitate” testimoniata mediante una “fide” fu ammesso. 1591: “R.dus Abbas S.tae Mariae de Cardoplano de policastro” non comparve ma comparve il suo procuratore e non pagò. Il 30.06.1591, in merito alla mancata comparizione nel sinodo, si menziona il “R.s Abb. S. Marie de Cardoplano”, “In T(er)ra Policastri”. 1593: “L’Abbate di S. Maria di Cardoplano di detta T(er)ra una libra di cera”. 1594: “L’Abbate di s. Maria Cardopolano di d.ta t(er)ra con una libra di cera” comparve … Joannes Thomas Jordanus. 1595: “L’Abbate di S. Maria di Cardoplano con una lib(ra) di Cera” non comparve nessuno e fu condannato. 1595: “L’Abb.e di S. Maria di Cardopolano con una libra di Cera” non comparve nessuno e fu condannato. 1596: “L’Abb.e di s. Maria di Cardopolano con una libra di Cera” comparve fu condannato. 1597: “R.s Abbas S. Mariae de cardoplano” comparve. 1598: “R.s Abbas S. Mariae de cardoplano de Polic.o”. 1600: “R.s Abbas S. Mariae de cardoplano” comparve il presbitero Joannes Dom.co Catanzaro della terra di Policastro senza procura e senza leggittimità. 1601: “R.s Abbas S.te Mariae de Cardoplano” comparve D. Jo : Thomas Giordano con i tre carlini soliti. 1602: “R.dus Abbas S.tae Mariae de cardo plano” comparve e pagò tre carlini. 1603: “R.dus Abbas S(anc)tae Mariae de cardo plano” comparve. 1604: “R.dus Abbas s(anc)tae Mariae de cardo plano” fu scusato per infermità. 1605: “R.dus Abbas Santae Mariae de cardo plano” comparve D. Marcellus Monteleone senza mandato di procura. 1605: “R.dus Abbas santae Mariae de cardo plano” comparve Donnus Marcellus Monteleone senza il mandato di procura. 1606: “R.s Abbas S. Mariae de cardo plano” non comparve. 1606: “R.dus Abbas S. Mariae de cardo plano” non comparve. 1607: “R.dus abbas Sanctae Mariae de Cardo Plano” comparve Joannes Dom.cus Catanzaro. 1608: “R.dus Abbas Sanctae Marie de Cardo Plano” non comparve. 1609: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Carda Phano” comparve Dominicus Catanzarus. 1610: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo Plano” comparve. 1611: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo Plano”. 1612: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo Plano” comparve D. Joannes Thomas Faracus. 1613: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo Plano” comparve il “procurator cleri”. 1614: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo plano” comparve Petrus Ceraldus. 1615: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo plano” non comparve. 1616: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardo Plano” non comparve. 1617: “R.dus Abbas S(anc)tae Mariae de Cardo Plano” non comparve. 1618: “R.dus Abbas S(anc)tae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1619: “R.dus Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1633: “R.s Abbas S. Mariae de Cardo Plano Non comparvit”. 1634: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano Non comparvit”. 1634: R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano – Non comparvit (Siberene p. 24 e sgg.). 1635: “R.s Abbas S. Mariae de Cardo Plano” non comparve. 1636: “R.s Abbas S. Mariae de Cardo Plano Comparvit presbyter Scipio Callea offerens libram cerae p(rese)nte R.s fisci Mensae procuratore et protestanti non admitti nisi docto titulo Et D(omi)nus reservavit provisionem quoandocumque”. 1637: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano Comp.t presbyter Scipio Callea et obtulit libram cerae R.s fisci Mensae promotore se protestante non recepi nisi docto titulo et fuit reservavato provisio”. 1638: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano”. 1639: “R.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” per il R.mo D.no Laelio Falconeri “Priore”, comparve Benincasa “Procurator” del sopradetto. 1640: “R.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1642: “R.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1643: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano”. 1644: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1645: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1646: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano”. 1647: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1648: “R.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” “non”. 1649: “R.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1651: “Rev.s Abbas S.tae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1653: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano” non comparve. 1655: “Rev.s Abbas Sanctae Mariae de Cardoplano”. 1656: “Rev.s Abb.s Sanctae Mariae de Cardoplano”. 1658: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano”. 1661: “Rev.s Abbas S. Mariae de Cardoplano”. 1663: “Rev.s Abbas S. Mariae de Cardoplano”. 1664: “Rev.s Abbas S. Mariae de Cardoplano”. 1689: “R.s Abbas S. M. de Cardoplano cum libra Cerae d. 0.[1.0]”. 1693: “R.s Abbas S. M. de Cardoplano cum libra Cerae”. 1694: “Rev.s Abbas S. M. de Cardoplano cum libra Cerae”. 1695: “Rev.s Abbas S. M. de Cardoplano cum libra Cerae sol.”. 1696: “Rev.s Abbas S. M. de Cardoplano cum lib. Cerae sol. d. 0.1.0”. 1697: “Rev.s Abbas S. M. de Cardoplano cum lib. Cerae”. 1698: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1699: “R.s Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1701: “R.s Abb.s S.ae Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1702: “R.s Ab.s S. Mariae de Cardo plano cum lib. Cerae”. 1703: “R.s Abb.s S. Mariae de Cardo plano cum lib. cerae”. 1704: “Rev.s Ab.s S. Mariae de Cardo Plano cum libra cerae”. 1705: “R.s Abb.s S. [Mariae] de Cardo Plano cum lib. Cerae”. 1706: “Rev.s Abb.s S. Mariae de Cardo Plano cum lib.a Cerae”. 1707: “R.s Abb.s S. Mariae de C[ardo Plano cum lib. Cerae]”. 1708: “Rev.s Abb.s S.tae Mariae de Cardo plano cum lib. Cerae”. 1709: “R.s Abb.s S. Mariae de Cardo Plano cum lib. cerae”. 1710: “R.s Abb.s S. Mariae de Cardo plano cum lib. cerae”. 1711: “R.s Ab. S. Mariae de Cardo plano cum libra cerae”. 1712: “R.s Ab. S. Mariae de Cardo plano cum lib.a cerae”. 1713: “[R.s] Ab. S. Mariae de Cardo plano cum libra cerae”. 1714: “Rev.s Abbas S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1715: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1716: “R.s Ab.s S. Mariae de Cardo plano cum lib.a cerae”. 1717: “R.s Ab. S. Mariae de Cardoplano cum lib.a cerae”. 1718: “R.s Abbas S.ae Mariae de Cardo plano cum lib. Cerae”. 1719: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1720: “R.s Ab.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1724: “R.s Abbas S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1726: “Rev.s Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1727: “[R.s] Ab.s S. Mariae dè Cardoplano cum lib. cerae”. 1728: “[R.s] Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1729: “[R.s] Abb.s S. Mariae dè Cardoplano cum lib. cerae”. 1730: “R.s Ab.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1731: “[R.s] Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1732: “[R.s] Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1734: “R.s Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1735: “R.s Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum lib. cerae”. 1736: “Rev.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1738: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1739: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1740: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1741: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1742: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1743: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1744: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1745: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1747: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1748: “Rev.s Abb.s S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1749: “Rev.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1750: “Rev.s Ab.s S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1751: “Rev.s Ab.s S. Mariae de Cardoplano cum libra cerae”. 1752: “R.s Ab.s S.ae Mariae de Cardoplano cum libra cerae”.

[ciii] AASS, 24B, fasc. 1.

[civ] Il 17 dicembre 1793, l’arciprete di Policastro D. Girolamo Carvelli, ricorreva presso la Giunta perché, in merito al pagamento della congrua, non gli è stato corrisposto quanto invece secondo lui gli era dovuto. Egli infatti, a saldo dei ducati 150, che costituivano la sua congrua maturata nel mese di agosto di quell’anno, aveva ricevuto solo ducati 60.82, mentre ne rivendicava 66.53.3. In tale ricorso si faceva presente che, seppure la rendita della sua parrocchia “si avesse situata” per ducati 42.31, già il 22 ottobre 1790 la Giunta aveva ordinato che da tale rendita si deducessero complessivamente ducati 5.70.4, cioè grana 31.2 “da quello detto il Salito” e ducati 4.50 che al tempo della liquidazione furono quantificati come la rendita della “Badia” annessa all’arcipretura, ma che si appurò essere quella che si ricavava dal “fondo detto Cardopiano” e “per tal raggione duplicati”. AASS, 24B fasc. 3.

[cv] AASS, 24B fasc. 3.

[cvi] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 276.

[cvii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 336.

[cviii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 226-227.

[cix] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciaro, buste 78, 79, 80 e 182; Notaio ignoto, busta 81; Notaio F. Cerantonio, buste 196, 197, 198, 199 e 200.

[cx] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300 ff. 076-076v.

[cxi] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301 ff. 128-128v.

[cxii] Maone P., Notizie Storiche su Cotronei, in Historica n. 4, 1971, p. 213.

[cxiii] “… la visione che la Corte ebbe del problema minerario così strettamente fiscale che lo stato non ne trasse mai vantaggi notevoli …”. “Nel 1274, si intraprendono le ricerche a Longobuco, e, trovato dell’argento, la Curia ne trae subito qualche profitto, come quelle modestissime 526 marche e 13 once d’argento che nel 1282 sono ricordate (tra gli oggetti conservati a S. Salvatore di Napoli) come provenienti dalla miniere di Longobuco.” Caggese R., Roberto d’Angiò e i suoi tempi Volume I, 1922, p. 519.

[cxiv] Bresacchio G., L’Argentera di Longobucco, l’Abbazia di SantAngelo de Frigillo e il Porticciolo di Castella, in un Manoscritto del Cinquecento, 1972. Mazzoleni J., Fonti per la Storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734), esistenti nell’Archivio di Stato di Napoli, 1968, pp. 4-6. Alla fine del Settecento, l’area mineraria di “Serra di Pomeri”, posta dentro la Sila ma appartenete all’università di Longobucco, è ricordata ancora in occasione della ricognizione delle difese silane: “Serra di Pomeri. … l’Università di Longobucco possiede dentro la Sila un comprensorio di terra di circuito di miglia tredici in circa consistenti in montagne di faggi, pini e querce con pochi luoghi seminatorj, nel qual territorio vi sono anche le miniere, nelle quali pel passato si cavava l’argento, l’oro, ed il piombo.” Stato della Regia Sila liquidato nel 1790 da Giuseppe Zurlo, volume I, Napoli 1862, p. 61.

[cxv] ASRC, Super fondo Raccolte e Miscellanee, fondo Blasco Salvatore, in ASMM, www.archividelmediterraneo.org.

[cxvi] G. F., Delle ricerche fatte in diversi tempi per trovar miniere nel Regno, in Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, 1843, Fasc. LXII, p. 139.

[cxvii] “La miniera di argento di Longobucco – sulla quale insisteva anche il Consiglio Provinciale di Calabria Citra nel 1809 – fu concessa dal re Cattolico a Galezzo Caracciolo in perpetuum et in feudum. Per effetto di una causa con il Fisco, il figlio di Galezzo la restituì alla R. corte, in cambio di un feudo con rendita annua di 500 ducati d’oro. Prima del 1584, l’ebbe in fitto Luca Grillo: ma a causa del clima e della neve, non si giungeva a lavorarvi più di quattro mesi all’anno, sicchè la spesa superava largamente l’introito; e da allora rimase inaffittata; Biblioteca Nazionale di Napoli, ms. XI. D. 10.”. Caldora U., Calabria Napoleonica (1806-1815), ed Brenner Cosenza 1985, p. 269 e nota n. 4.

[cxviii] Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, p. 290.

[cxix] Barrio G., Antiquitate et Situ Calabriae, Liber Quartus, Roma 1571, p. 374.

[cxx] Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Libro Terzo, Padova 1601, p. 203.

[cxxi] Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Libro Quinto, Padova 1601, p. 308. Secondo quanto è riportato dal Caldora, nei primi anni dell’Ottocento (1807-1809), si segnala la scoperta di “oro a Caccuri” che, al pari di altre risorse minerarie individuate in Calabria in quel periodo, non risulta che fu mai sfruttato. Caldora U., Calabria Napoleonica (1806-1815), ed Brenner Cosenza 1985, pp. 268-269.

[cxxii] “Nel territorio di longobucho sono le miniere dell’argento, e dell’argento vivo. (…) Nel territorio di Cosenza vicino al fiume Iovinio sono le miniere dell’oro, e del ferro, e nel loco detto volgarmente Macchia germana è la miniera dell’oro, del piombo, et del solfo, e poco discosto in un’altro luogo detto Miliano, è la miniera del sale, e dell’alume.” Sofia P.A., Il Regno di Napoli Diviso in dodici Provincie, 1611 p. 50.

[cxxiii] Fiore G., Della Calabria Illustrata I, 1691, p. 560. “Del ferro lungo tempo lavorato in Temesa, come si è dimostrato di sopra; e ne continuò il lavoro fino a pochi anni prima l’età di Gabriele Barrio, che poterono essere il 1550; poiché negl’anni, ch’ei scrisse, quali furono li 1570, erano quei luoghi ancora in piedi; ma senza lavoro, poco prima dismesso: Et aurofonidarum locus ostenditur, quae hisce defecere annis. Oggidì lavorano nelle montagne di Stilo, e prima in quelle di Castelvetere.”. Fiore G., Della Calabria Illustrata I, 1691, pp. 560-561.

[cxxiv] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 170-172. Alla fine del Settecento, la località risulta individuata in prossimità della strada che da Bocchigliero conduceva a Savelli. “Vallone d’Afari, dov’è il luogo, che sta accosto la strada, che dalla terra di Bocchiglieri va dentro la Sila” (Stato della Regia Sila liquidato nel 1790 da Giuseppe Zurlo, volume I, Napoli 1862, p. 62). “Serra della Minera. … proprio sotto la cima di detta Serra, vicino la strada, che da Bocchigliero va a Savella”, “… a destra della descritta strada nel luogo chiamato Irto del Ferro” (ibidem p. 67). “Dalla Serra di Pomeri fino a questo luogo dell’Orto della Menta dal Principe di Cariati si possiede dentro la Sila un comprensorio di terra di circuito di miglia sedici in circa, consistenti in luoghi seminatorj pascoli, montagne di pini, e fiumi, nel quale si fanno forni di pece, e trementina, e vi è anco la Serra di Minera, dove nel tempo passato si cavava il ferro.” (ibidem, p. 70).

[cxxv] Valente G., La Sila dalla transazione alla riforma (1687-1950), Rossano Calabro 1990.

[cxxvi] Nella tavola “N.° 27” della carta di G. A. Rizzi Zannoni (1808), sul confine silano, poco sopra Savelli, troviamo i toponimi “F. Arenzana”, “Irto del Ferro”, “Colle degli Buoi” e “Scaccia Diavoli”, mentre, nella carta della Provincia di Calabria Ultra II (1852), il confine provinciale che la divide dalla parte citeriore, risulta passare per “… ferro” e “Scaccia Diavoli” sopra Savelli. I toponimi “T. Laurenzana”, “C.zo Ferro”, “S.ra Lissand” o “S.ra Lissandrelli”, si ritrovano nella Carta Geologica d’Italia, F.o 230 “Rossano” della carta al 100.000 (1900), e nel F.o 230 “Rossano” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), mentre il toponimo “C.le dei Buoi”, si ritrova nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della stessa carta. Nello stesso periodo, il toponimo “C.zo Ferro” è riportato nell’Atlante Stradale d’Italia del Touring Club Italiano, foglio 41 “La Sila-Cotrone”, 1:300.000. All’attualità, nel Foglio N. 561 “S. Giovanni in Fiore” 1:50.000 dell’IGM, troviamo i toponimi: “T. Laurenzana”, “Cozzo del Ferro” e “Serra Lissandrelli”.

[cxxvii] A proposito dell’argento, il Cortese affermava che “In Calabria avremo l’argento solo nelle galene e nel rame grigio, contenuti in piccoli filoni e masse, nelle filladi, come è detto a proposito di questi.”. Egli afferma ancora che “Il minerale di piombo più abbondante è la galena, la quale è spesso a grandi lamelle, quindi poco argentifera: altre volte a piccoli grani, più spesso accompagnata da piriti di ferro e calcopiriti, rame grigio, stibina, ecc. Se ne trova in moltissime località, e mai ha potuto alimentare una industria seria. (…) Presso Longobucco, alla regione Spartari, e lungo il torrente Macrocioli, fu trovata della galena fra i detriti delle frane o valanche. Non si potè però mai individuare un filone né attuarvi delle ricerche serie.”. Cortese E., Descrizione Geologica della Calabria, Firenze 1934, pp. 292-293.

[cxxviii] ASCZ, Notaio Durande G.D., b. 35, ff. 4v-5.

[cxxix] “R. S. Marina” (Carta Geologica d’Italia, “Rossano”, F.o 230 della carta al 100.000, 1900). “R.ne S. Marina” (F.o 230 “Rossano”, 1:100.000, 1927). “R. S. Marina”, “Grotte lo scavo” (F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000, 1927).“S. Marina”, “Grotte dello Scavo” (Foglio N. 561 “S. Giovanni in Fiore” 1:50.000).

[cxxx] Nelle adiacenze di Umbriatico, troviamo il toponimo “Scaldaferro” e, poco distante, “Capeferro” che probabilmente, hanno solo un riferimento onomastico. (“R. Scaldaferro”, “R. Capeferro” (Carta Geologica d’Italia, Rossano, F.o 230 della carta al 100.000, 1900). “R.ne Scaldaferro”, “R.ne Capeferro” (F.o 230 Rossano, 1:100.000, 1927). “Scaldaferro” (IGM, 1:50.000, Foglio N. 561 S. Giovanni in Fiore 1:50.000).

[cxxxi] Ughelli, Italia Sacra, IX, 526.

[cxxxii] “Taxa flor. 37. qui partim colliguntur ex feudis antiquissimis Maradiae, sancti Nicolai de Alto, et sanctae Marinae, in quibus utrumque gladium Umbriaticensis Episcopus habet, tametsi Maradiae, et sanctae Marinae diruta jaceant, …”. Ughelli, Italia Sacra, IX, 526.

[cxxxiii] Reg. Ang. XIV, 1275-1277, p. 254.

[cxxxiv] Bartolomeo di Neocastro, Istoria Siciliana (1250-1293), cap. LXXXII, pp. 56-59.

[cxxxv] Russo F., Regesto I , 1495.

[cxxxvi] Ughelli, Italia Sacra, IX, 527.

[cxxxvii] “In his multa Mensa Episcopalis possidet Praedia, et inter cetera Feuda Rustica, Maratheam scilicet, S. Marinam, et Mottam, ex quibus Episcopus pro tempore fructus quotannis percipit cum Titulo Baronis, exercendo Iurisditionem Civilem, et mixtam, et exceptis tribus casibus Regiarum Pragmaticarum, etiam Criminalem in Personas in dictis Feudis ad eorum culturam habitantes. Olim antedicta Feuda Nobilia, et Populosa fuerunt, quae hodie ab Ecclesia in Allodium, et absque ullo feudali onere possidentur.” ASV, Rel. Lim. Umbriaticen.,1724.

“Ante aevum Caroli II utriusque Siciliae Regis Ecclesia possidebat in feudum castra S. Marinae, S. Nicolai de Alto, et Maratheae, sed propter bellorum descrimina descriventa, evaserunt feuda rustica, ut patet ex albo Regii Archivii in regesto praefati Caroli II anno a partu Virginis 1304. lit. C. fol. 258. a terg. Temporum inde decursu feudum S. Marinae deperditum, nullo pacto ab Ecclesia modo possidetur.”. ASV, Rel. Lim. Umbriaticen.,1735.

[cxxxviii] 24.07.1519. “Petro de Medina, clerico Palentin., Litterarum Apost. Scriptori, providetur de parochiali sive rurali ecclesia, abbatia nuncupata, S. Marinae de Camerota, Umbriaticen. dioc., vac. per cessionem Iacobi de Gotifredis, clerici Romani.” Russo F., Regesto III, 16060.

25.07.1519. “Asculan. et Strongulen. episcopis ac Vicario generali episcopi Umbriaticen. mandat ut Mgro Petro de Medina, clerico Palentin., Scriptori et familiari suo, provideant de rurali ecclesia, abbatia nuncupata, S. Marinae de Cammarata, Umbriaticen. dioc., vac. per ob. Alberici Inglese, rectoris, abbatis nuncupati.” Russo F., Regesto III, 16061.

28.07.1519. “Die XXVIII Iulii 1519, d.nus Iacobus de Gotifredis, cl.cus romanus concessit cessioni concessionis gratie sibi facte de parochiali sive rurali eccl.a, abbatia nuncupata S. Marine de Cammarota, Umbriaticen. dioc., de qua providetur d.no petro de Medina, cl.o palentin., litt. apost. scriptori, sub dat. Rome, VIII Kal. Augusti, an. VII.”. Russo F., Regesto III, 16064.

06.02.1564. “Sebastiano de Manzonis, familiari suo, providetur de ecclesia, abbatia nuncupata, S. Marinae, Umbriaticen. dioc., vac. per ob. Io. Baptistae Angliso.” Russo F., Regesto IV, 21289.

“Il Cozza-Luzzi, Notizie per Umbriatico, in Lettere Calabresi, Napoli 1902, II, 32-34, ricorda un’iscrizione esistente in S. Balbina in Roma, in cui figura un «Iohannes Cropalatus, Crotoniata, Civis Romanus, abbas S. Marinae, Umbriaticen. dioc.». Si tratta evidentemente, di un commendatario del sec. XVI. In seguito alla soppressione, il vescovo di Umbriatico, ai suoi titoli aggiunse anche quello di Abbas S. Marinae.” Russo F., Regesto, IV, p. 368, nota 78.

Agosto 1593. “De ecclesia, abbatia nuncupata, S. Marinae, Umbriaticen. dioc., cuius fructus XVI duc., vac per ob. illius ultimi possessoris, de mense Iuliii def., providetur Fabio Tramonto, clerico Rossanen. dioc.”. Russo F., Regesto V, 24671.

Novembre 1606. “De ecclesia seu cappella, abbatia nuncupata, S. Mariae, terrae Campanae, Umbriaticen. dioc. (sic), cuius fructus XX duc., vac. per ob. Octavii Maleno, de mense octobris def., providetur Paulo Martinello, clerico Rossanen.”.  Russo F., Regesto V, 26357.

01.09.1607. “Causarum Curiae camerae aplcae Auditori generali et Vicariis generalibus episcoporum Umbriaticen et Cariaten. mandat ut capiant possessionem ecclesiae seu Cappellae S. Mariae seu S. Marinae, Umbriaticen. civ. vel. dioc., nomine Antonii Foresii, clerici Mediolanen., cui commendata est, per ob. Oliverii Malvici, de mense Iulii ex. Ro. Cu. def.”. Russo F., Regesto V, 26458.

Settembre 1668. “De beneficio simplici, abbatia nuncupata, ad altare S. Marinae, in parochiali sive alia ecclesia loci S. Marinae, Umbriaticen. dioc., cuius fructus 2 duc., vac. per ob. Iosephi Grilletta, de mense Februarii def., providetur Paulo Aemilio Marino cl.o.”. Russo F., Regesto VIII, 41538.

29.04.1669. “Dominico de Pane, pbro Romano, Familiari suo et Musico Cappellae Pontificiae, providetur de beneficio, abbatia nuncupata seu ecclesia S. Marinae, loci de Campana, Rossanen. dioc., vac. per ob. Iosephi Guilleti, apud S.A. de mense Martii 1668 def.”. Russo F., Regesto VIII, 41705.


Creato il 11 Dicembre 2015. Ultima modifica: 29 Luglio 2019.

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