L’abbazia dei Tre Fanciulli presso Caccuri

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L’abbazia dei Tre Fanciulli poi detta Santa Maria la Nuova oggi in territorio di S. Giovanni in Fiore (CS).

Su uno degli antichi itinerari di transumanza che dal piano, costeggiando la riva sinistra del Neto, saliva in Sila, nei pressi dell’abitato di Caccuri e poco prima di raggiungere l’altopiano, sorgeva l’antico monastero – santuario dedicato ai Tre Fanciulli.

Il culto
In esso si veneravano tre giovani nobili della tribù di Giuda deportati, assieme ad altri giovani giudei, in Babilonia per essere educati a corte dal re Nabucodonosor dopo la conquista di Gerusalemme. Trattasi dei compagni di Daniele: Anania, Misaele e Azaria. I tre, assunto il nome babilonese di Sadrac, Misach e Abdenego, divennero governatori di province ma, poiché si rifiutarono di venerare una grande statua d’oro, fatta innalzare dal re, furono per suo ordine legati e gettati nella fornace ardente. L’intervento dell’angelo del Signore che, disceso nella fornace, tenne lontana la fiamma, li preservò e rimasero illesi (1). L’intitolazione ai Tre Fanciulli evidenzia il legame con il fuoco. Le funzioni sacre evidentemente avevano lo scopo di proteggere dalle fiamme distruttive i vicini boschi silani e coloro che vi lavoravano, cioè i pastori, i boscaioli, i carbonai e soprattutto gli addetti ai forni della pece (piciarii).

La lunga lite tra monaci greci e florensi
Situata in diocesi di Cerenzia l’abbazia dei Tre Fanciulli era abitata da monaci “greci”. Essa possedeva tenute e feudi nei pressi del corso medio del fiume Neto, del torrente Lepre ed in Sila come da privilegi dati dai regnanti normanni. L’abbazia compare per la prima volta in un privilegio concesso dall’imperatore Enrico VI il 21 ottobre 1195 a Gioacchino da Fiore e al suo monastero. Nella descrizione dei confini dell’ampio tenimento silano donato, che era adiacente al nuovo monastero, così si legge: “… ascendit terminus per alveum eiusdem fluminis Neti, et vadit ultra flumen per fines monasterii SS. Trium Puerorum, et monasterium Abbatis Marci usque ad viam, quae venit a civitate Acherenteae..”. La vicinanza tra il nuovo monastero latino, dotato di privilegi e di un vasto territorio dall’imperatore Enrico VI, ed il preesistente greco dà origine subito ad una lunga contesa. L’abate Isaia ed i monaci del monastero dei Tre Fanciulli sollevarono la questione su alcuni loro pascoli e terre a semina, che si trovavano dentro la possessione concessa dall’imperatore al monastero di Fiore. L’abbate Gioacchino ed i suoi frati li ostacolavano nell’esercizio dei loro diritti. I tentativi dell’abate e dei monaci greci e quelli degli abitanti di Caccuri di aver giustizia dai tribunali del potere secolare, fornendo i privilegi concessi dai re normanni, risulteranno inutili, perché ogni decisione verrà demandata al tribunale episcopale, competente per territorio. La loro azione di rivendica si scontrò infatti con le mutate condizioni storiche che vedeva la chiesa romana impegnata a reprimere con l’azione energica dei papi Innocenzo III (1198–1216) ed Onorio III (1216–1227) i movimenti eretici ed eterodossi ed ogni forma di critica o di disconoscimento della gerarchia cattolica. La restaurazione del potere della chiesa si servì soprattutto dell’azione inquisitoria di arcivescovi e vescovi che per mezzo delle sentenze dei loro tribunali chiamarono il braccio secolare a perseguire i rei e quelli che attentavano all’incolumità dei beni di coloro che godevano della protezione apostolica. L’imperatrice Costanza d’Altavilla, che era succeduta al marito, morto il 28 settembre 1197, nel gennaio 1198 confermava ed ampliava i privilegi concessi a Gioacchino e al suo monastero dall’imperatore e riconosceva i monasteri di nuova fondazione: uno che sorgeva nel luogo che prima si chiamava Calosuber ed ora Bono Ligno, un altro nel luogo detto Tassitano ed il monastero di Abbate Marco (2). Sempre durante il breve regno dell’imperatrice, i monaci greci continuarono a rivendicare i loro diritti ed avendo subito violenza da parte dei monaci di Fiore nel luogo conteso di Calosuber, si rivolsero per avere giustizia alla Curia imperiale ribadendo che parte del territorio concesso dall’imperatore a Gioacchino era di loro pertinenza. Le due parti furono invitate a mostrare i loro diritti. Non essendo stati riconosciuti completamente esaurienti i privilegi portati dai monaci greci, fu emessa sentenza ed il tenimento in contesa fu confermato a Gioacchino. In tale tenimento Gioacchino costruì il monastero di Bono Ligno. Tuttavia per intervento di alcuni uomini pii, per porre fine ad ogni litigio, le due parti stipularono un accordo. Gioacchino ed i suoi frati concessero ai monaci greci di poter avere ovili e pascolassero le greggi nei luoghi detti Misocampo e Vulturno mentre per le vacche, le giumente ed i porci diedero il luogo detto Frassineto, pagando però i greci per questi pascoli annualmente quattro solidi d’oro al monastero di Fiore. Inoltre per quanto riguardava le terre che avevano aperto nel luogo detto Faraclovus rimase concordato che esse fossero libere a entrambi i monasteri. Il monastero di Fiore si sarebbe tenuto le tenute di Calosuber e Faraclovus e tutte quelle terre che erano aperte presso le stesse tenute con ogni diritto di piantagione e di edificazione. In verità l’abbate Gioacchino ed i suoi frati fecero una permuta con i monaci greci e per Calosuber e le accennate tenute e terre concessero altre terre presso il ponte del fiume Neto, con i loro confini ed inoltre aggiunsero l’obbedienza di S. Martino di Neto, con le sue terre e proprietà. Per queste terre e per l’obbedienza l’abbate dei Tre Fanciulli doveva però versare ai monaci di Fiore altri due solidi d’oro all’anno. Morta l’imperatrice (28.11.1198), secondo le accuse di Gioacchino, i monaci greci, ritenendo gravoso il pagamento dei sei solidi d’oro rifiutarono i pascoli , le tenute e l’obbedienza di San Martino. Per mantenere la pace, per trattative di comuni amici, fu concesso allora che i monaci greci potessero avere in perpetuo terre arabili, capaci di accogliere 30 moggi di seme in località Salice. Per queste terre essi però dovevano annualmente pagare al monastero di Fiore nella festa di San Giovanni Evangelista una libbra di cera e rinunciare alla tenuta di “Mixi” ed ad ogni pretesa sui territori concessi dall’imperatore Enrico VI. Fu anche stabilita una penale di cento once d’oro, da pagarsi per metà alla Curia regia e per metà alla parte offesa. I monaci greci non vollero sottomettersi al monastero di Fiore e portando con sé le armi aggredirono i frati rivali, che stavano pascolando il gregge del monastero. Alcuni furono percossi, ad altri fu portato via ogni avere. Le violenze non cessarono. Non passò molto tempo che, radunatosi in maggior numero con una moltitudine di gente armata, i greci invasero il monastero suffraganeo di Bono Ligno; assalirono e cacciarono via i monaci, distrussero i magazzini e saccheggiarono i beni. Gioacchino, forte dei privilegi ottenuti, dapprima richiese l’aiuto dei Giustizieri di Cosenza. Essi convocarono invano i monaci dei Tre Fanciulli, perché dimostrassero le loro ragioni, e proibirono sotto pena di cento once d’oro che proseguissero ad invadere e danneggiare le proprietà del monastero di Fiore. Le incursioni continuarono, anche perché i greci erano forti dell’appoggio degli abitanti di Caccuri. A nulla servì l’intervento a favore del monastero di Fiore del capitano di Calabria Rayniero Marchisorto e del legato pontificio.
Morta l’imperatrice ed emessa la sentenza dalla curia imperiale, Gioacchino si recava a Nicotera ad incontrare Bartolomeo, arcivescovo di Palermo e familiare del re, per avere il suo aiuto. Perseverando nel chiedere giustizia per le incursioni ed i danni subiti dal suo monastero, dietro interessamento dell’arcivescovo ottenne che fossero mandate delle lettere da parte del re che ordinavano di non lasciare impuniti gli eccessi, ma di fare giustizia delle ingiurie secondo il diritto e la ragione. L’arcivescovo di Palermo convocò l’abate dei Tre Fanciulli, affinché di persona, o per altri, si presentasse per definire in sua presenza la causa, ma questi né si recò, né invio alcuno. Allora l’arcivescovo, dopo aver esaminato la testimonianza dell’arcivescovo di Capua, che illustrava la controversia, così come aveva avuto origine e come era stata decisa dalla curia imperiale dopo la morte dell’imperatrice, egli in Palermo il 29 aprile 1199 emise sentenza a favore del monastero di Fiore ed il 25 maggio 1199 da Corigliano ordinava all’arcivescovo di Cosenza Bonomo, all’abbate di Sant’Eufemia Riccardo, a Simeone de Mamistra, capitano, comestabile e giustiziere di Val di Crati, Sinni e Laino, a Gugliemo de Bisignano, a Ruggero, figlio di Joele, ad Alessandro figlio di Guglielmo ed ai regi giustizieri, ai quali erano state indirizzate le lettere regie, di eseguirla tutti assieme o almeno tre di loro. La sentenza stabiliva il risarcimento dei danni compiuti dai monaci greci e dagli abitanti di Caccuri e preservava i monaci di Fiore da ulteriori saccheggi ed incursioni. L’arcivescovo di Cosenza, Bonomo, l’abbate di S. Eufemia Riccardo, Guglielmo di Bisignano ed il figlio Alessandro, regio giustiziere di Val di Crati, avute le lettere e la sentenza emanata dall’arcivescovo Bartolomeo, si impegnarono a confermarla anche perché all’arcivescovo Bonomo ed al giustiziere era stato raccomandato con lettera papale di proteggere dalle incursioni di uomini male intenzionati il monastero di Fiore. Per tale scopo l’abate Gioacchino andò a Cosenza mentre l’abbate dei Tre Fanciulli mandò solo un nunzio a riferire che era ammalato. Convocati alcuni ecclesiastici e laici, per un miglior esame della questione in modo da esser certi della verità, nel mese di giugno 1199 fu resa esecutiva la sentenza, emanata dall’arcivescovo di Palermo, che accoglieva la richiesta dell’abbate Gioacchino, riconoscendo all’abbate i danni patiti e ripristinando i suoi diritti sui luoghi di Calosubero o Bono ligno e di Faraclovo e sugli altri territori invasi e danneggiati.
Non passò molto tempo che la lite sopita riprese. Questo avvenne al tempo in cui Ilarione era abate dei Tre Fanciulli e Matteo Vitari aveva preso il posto dell’abbate Gioacchino, morto il 30 aprile 1202. Al monaco cistercense Luca Campano, arcivescovo di Cosenza, veniva richiesto un arbitrato per una amichevole composizione tra l’abate ed i monaci florensi e quelli greci sulla questione delle tenute in controversia della Sila. Nell’agosto 1215 l’arcivescovo Luca assieme al decano Jacobo, al tesoriere Michele ed al canonico della chiesa cosentina Goffredo, a Rogerio figlio di Raone, regio giustiziere, ai giudici in qualità di assessori Benedetto e Jacobo, dichiarava che erano venuti in Cosenza l’abate di Fiore Matteo con tre suoi monaci e l’abate dei Tre Fanciulli Ilarione, con tre suoi monaci. Entrambe le delegazioni dichiararono in loro presenza che per libera deliberazione avevano avuto il consenso dei frati dei loro rispettivi conventi ed erano pronti a subire l’arbitrio ed il consiglio, così come sarebbe stato deciso dall’arcivescovo, su ogni e qualunque questione, che era agitata tra loro e tra i loro predecessori. Veniva quindi stipulato presso il notaio di Cosenza Guglielmo l’atto di composizione. Onorio III con bolla del 22 gennaio 1218 diretta all’abbate e al convento del monastero di Fiore confermava il concordato stipulato sotto l’arbitrato dell’arcivescovo di Cosenza (3). La composizione comunque non dovette essere ben accolta dai greci, se con bolla dello stesso anno, il 12 novembre 1218 continuava l’azione papale contro la loro dissidenza e deviazione. Onorio III, infatti, interveniva pesantemente contro l’abbate Ilarione accusandolo di essersi appropriato della carica, circuendo fraudolentemente e corrompendo con il denaro Ysaia, il quale aveva retto il monastero per più di trenta anni, da uomo religioso, provvido e onesto. Ilarione fu accusato di simonia, per aver comprato la carica con il denaro, di aver dilapidato i beni del monastero e di aver commesso crimini ricadenti nella sfera della lesa maestà papale. Per porre fine a tutto ciò, il vescovo di Belcastro e gli abbati cistercensi di Corazzo ed Sant’Angelo de Frigillo venivano incaricati di recarsi al monastero di Santa Maria della Nova e di procedere alla sua riforma (4). Procedeva così la latinizzazione del monastero dei Tre Fanciulli, detto ora anche Santa Maria Nova, con l’immissione di monaci provenienti da monasteri latini vicini. Sappiamo che nell’aprile 1219 era monaco di Santa Maria Nova il frate Miletus il quale, come da atto rogato, affermava che quando abitava nella città di Mesoraca e da secolare esercitava l’ufficio di giudice, spinto da divina ispirazione, chiese ed ottenne dall’abbate Alexandro dell’abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigilo di far parte di quella congregazione. Egli col consenso dei figli Nicola, Teodoro e Mabilia fece per l’anima sua e dei suoi antenati la donazione di una sua terra dotale a quel monastero (5).
L’anno dopo il Papa interveniva nuovamente mettendo il monastero dei greci di Santa Maria della Nova sotto la visita degli abbati cistercensi di Corazzo e di Sant’Angelo de Frigillo (6) e poco prima di morire, con bolla del 23 dicembre 1226 confermava all’abbate e al convento florense, il tenimento della Sila nel quale era costruito il loro convento, inibendo all’arcivescovo di Cosenza o ad altri di esigere le decime nei possessi concessi dall’imperatore o da altri (7).
Sul finire dell’età sveva l’abbazia greca, oltre ad aver mutato il suo nome originario, aveva perso ogni autonomia religiosa ed era ormai soggetta al vincolo vassallatico con l’abbazia di Fiore. Essa era caduta in rovina, sia spirituale che economica. L’undici ottobre 1256 il papa Alessandro IV ordinava al vescovo di Bisignano, all’arcidiacono di Squillace ed al canonico cosentino Amato di riformarla e ricostruirla (8).
All’inizio dell’occupazione angioina, da due provvisioni di Carlo I D’Angiò del 1271 e 1272, veniamo a sapere che ai tempi di Corrado (1250-54), figlio di Federico II, il monastero di S. Maria la Nova, dell’ordine florense, era stato privato del casale di Cotronei e del tenimento di Cuzuli. Tali beni erano stati poi occupati dai fratelli Guidone e Giordano de Amanteya. Con tali provvisioni il re ordinava di reintegrare il monastero dei beni usurpati (9). Continuava quindi l’autonomia economica del monastero da quello florense come evidenzia anche un documento del 1290, quando sotto l’abbate Francesco Tommaso fu venduto un mulino sul fiume Lepore all’abbazia di S. Giovanni (10).

Il Trecento
All’inizio del Trecento l’abbate di Santa Maria Nova o “de Caccurio” in diocesi di Cerenzia, come “subditus” del Monastero di Fiore, compare nel pagamento delle decime papali (11).
Nel settembre 1346 l’abbate di san Giovanni, Pietro da Spinadeo, veniva incaricato dai monaci del monastero di Fiore, e da Giuseppe de Piniano, abbate Santa Maria de la Nova, e dall’abbate di Calabro Maria, di impetrare da Clemente VI in Avignone la nomina di un cardinale, in modo da essere protetti (12). I beni del monastero si trovavano infatti insidiati dal feudatario di Caccuri Squarcia de Riso, il quale rivendicava il diritto di pascolo e di tagliare alberi in alcuni territori (13). E’ del 19 agosto 1360 un intervento regio contro il feudatario che usurpava i beni del monastero florense , del monastero di Santa Maria Nova e della grangia di Bordò (14).
Il 20 gennaio 1383, il re Carlo III di Durazzo confermava al monastero l’annua concessione di 12 tomola di sale (15).

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S. Giovanni in Fiore (CS), Santa Maria la Nuova.

 

La decadenza
Dopo la morte di Andrea, che aveva governato il monastero per circa 40 anni, esso fu indebitamente occupato dal vescovo di Cerenzia Giovanni de Volti (1437 – ? )
Il 3 settembre 1443 il papa Eugenio IV, accogliendo la supplica degli abbati Matteo di S. Giovanni in Fiore ed Andrea di Santa Maria dela Nova ordinava agli arcivescovi di Rossano e di Santa Severina ed al vescovo di Catanzaro di allontanare l’intruso e di consegnare il monastero all’abbate florense (16).
Con l’introduzione dell’istituto della commenda l’abbazia dell’ordine florense di S. Maria de la Nova, situata fuori le mura di Caccuri, andò ben presto in rovina. Abbandonata dai monaci, andarono dispersi gli antichi documenti con i privilegi e, rimasta deserta, ben presto caddero gli edifici e la chiesa. Fu in questi anni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento che i beni dell’abbazia passarono di mano in mano a vari commendatari. IL 2 ottobre 1484 il papa Innocenzo VIII, poiché era vacante per libera remissione fatta dal commendatario Andrea, la concedeva all’agostiniano Napoli Cola degli Arnoni. Allora l’abbazia apparteneva ancora all’ordine florense e le sue rendite non superavano i 24 fiorini d’oro “de camera” (17). Poi la ebbe Napoli Cosentino, che si fece passare per monaco e fu perciò rimosso, quindi fu data al chierico Giacomo Cosentino della terra di Verzino e poi pervenne al chierico reggino Matteo Paganelli (18). Il Paganelli, che la ebbe all’inizio del Cinquecento, lascerà legato il suo nome all’abbazia, che sarà in seguito conosciuta anche come la “Paganella”. In seguito fu del chierico della diocesi di Cosenza Agostino Monacho Ruffino e poi per rinuncia di quest’ultimo nell’ottobre 1539 la ebbe in commenda il chierico crotonese Giulio Prothospatario (19).
Con la fine della vita comunitaria non erano cessate però le liti, che videro impegnati gli abati commendatari. E’ del 1530 una lettera di esecuzione della sentenza emanata a favore dell’abate florense contro quello di S. Maria de la Nova per il possesso della “Difesa di Campo di Manna” (20). In seguito vi fu una lunga lite tra gli abati commendatari dell’abbazia ed i baroni di Caccuri. Nel luglio 1545 l’abate commendatario Giulio Prothospatario concedeva al feudatario di Caccuri GiovanBattista Spinelli, la tenuta il “Teninentello”. La concessione veniva fatta in enfiteusi per 29 anni e con la possibilità di revoca, previo il pagamento di un annuo canone di ducati 16 e mezzo. Passata la commenda per cessione di Giulio Prothospatario dapprima per un breve periodo (1554-1555) al nipote Filippo Giacomo Prothospatario, il quale rinunciò alla commenda in cambio di una pensione sulle rendite dell’abbazia, (21) in seguito pervenne ad Ottavio Prothospatario. Costui ritenendo irrisorio il canone, rispetto alla rendita della tenuta, tentò di revocare la concessione ma il nuovo feudatario Francesco Cimino gli fece opposizione. Iniziò una lunga lite che coinvolse anche i monaci, in quanto il commendatario aveva assegnata alla mensa conventuale la terza parte della tenuta e altri ducati 10 l’anno ad esigersi sulla sua parte, che dovevano essere usati “per reparatione della chiesa e monasterio”. Morto il Prothospatario senza che la lite avesse trovato soluzione, fu continuata dal nuovo commendatario, Giovan Vincenzo Forcellato, ma si concludeva solamente al tempo del commendatario Rodolfo de Rodolfis, che era subentrato nel 1606 al Forcellato (22). Il “Tenimentello” passava definitivamente nelle mani del barone di Caccuri, Paolo Cimino, che lo avrebbe posseduto “liberamente”, previo il pagamento ogni 15 agosto di un canone perpetuo di ducati 38 e tari due all’abbate commendatario, mentre ai monaci non rimase più niente (23).

Il ritorno dei monaci
Dopo un lungo periodo in cui l’abbazia era rimasta deserta essa fu nuovamente abitata dai monaci e ritornò il culto divino. Ciò avvenne dopo i ripetuti interventi a favore dei monasteri da parte dei papi. Furono perciò emanate molte constituzioni come quelle di Pio IV nel 1563, Pio V nel 1569, Gregorio XIII nel 1574 e Sisto V nel 1596, che imposero, anzi ordinarono sotto la pena di rigorosissime pene, agli abbati commendatari che si riedificassero le chiese e gli edifici claustrali e si assegnasse alla mensa conventuale la terza parte delle rendite “per il vitto, vestito et altre cose necessarie alli Religiosi”. In tal modo i monaci dovevano riprendere i monasteri, introducendovi nuovamente il culto divino ed un competente numero di religiosi. L’abbazia dall’ordine florense era passata a quello cistercense.
Dalla visita ai monasteri dell’ordine cistercense dell’anno 1569 risulta che il monastero di S. Maria Nova, presso la città di Caccuri, era nuovamente abitato da due monaci, l’abate risiedeva saltuariamente a Caccuri, e sebbene ci fosse il commendatario, aveva poche rendite ma sufficienti per due monaci. La chiesa era “integra” (24).
Pochi anni dopo, nel 1583, fu stabilito l’accordo tra i monaci ed il commendatario, Ottavio Protospataro, il quale assegnava “per vitto, vestito, fabrica et altre cose necessarie per dui monaci et uno diacono” una rendita annua di ducati 50 proveniente da vari beni che andavano a comporre la mensa conventuale. Essa era costituita da terreni (tomoli 141 nella “Montagna” il territorio “La Forestella de Casale Novo”, due tomolate e mezzo vicino all’abbazia, un orto di una tomolata e mezza, una vigna con due tomolate di terreno, la terza parte del “Tenimentello”) e censi (su case, vigne e terre). Inoltre il commendatario, o chi prendeva in fitto i beni abbaziali, doveva versare ogni anno ai monaci ducati 19 ed era a suo carico le spese di riparazione degli edifici della chiesa e del convento. Per far fronte a queste spese ogni anno doveva dare ai monaci altri ducati 10 dalle entrate della parte rimastagli del “Tenimentello” (25). Il vescovo di Cerenzia e Cariati, Maurizio Ricci, pochi anni dopo cercherà di trasferire la mensa conventuale alla comunità dei preti di Caccuri, chiedendo la chiusura del convento.
Il presule, nella sua relazione del 1621, fa riferimento all’abbazia dell’ordine di S. Bernardo “dove sta un frate ch’a la Mensa dell’Abbate quale e Rodolfo de Rodolfi che la tiene in comenda, et resteranno per l’Abbate da 150 d.ti et la Mensa sarà d.ti 30. Questa chiesa è discosta dalla t.ra circa un miglio. La chiesa è destrutta et la casa del Monaco sta mal accomodata, sarebbe forsi bene levar il monaco et trasferire il serv.o delle messe, che molte volte non se dicono, alla chiesa Matrice della T.ra et farle celebrar dalla Comunità de preti, questo temperam.to non sarebbe di preiudicio alla Religione, perche l’interesse è di niun momento. Sarebbe di qualche agiuto a questi poveri Preti, si sodisfarebbero le messe et si levarebbe anco qualche nido de Ladri. Sempre lo stesso vescovo ribadirà la richiesta di soppressione dell’abbazia nel 1625 chiedendo al Papa “che il servitio della messa dell’abbadia Paganella di S. Maria Trium Puerorum dell’abate Rodolfo mal servita da un frate di S. Bernardo, si riduchi alla comunità de preti di Caccuri con l’entrata della Mensa, che saranno da trenta ducati lanno incirca, che saria d’utile alla chiesa perché saria servita et di nulla preiuditio all’abbate et si levaria quel nido de ladri” (26).
Anche se il vescovo Ricci, per suoi intenti, diminuiva di molto il valore delle rendite del monastero, noi sappiamo che esse erano aumentate. La mensa conventuale infatti in questi anni si arricchì per donazioni di benefattori e per l’intervento di valorizzazione, compiuto dagli stessi monaci. Alcuni devoti lasciarono due vigne; dei vignali e delle terre pervennero perché i possessori li rinunciarono per non pagare i censi; tre casette “fabricate di luto e pietre” accanto alle mura del monastero rimasero ai monaci in quanto i proprietari se ne erano andati ad abitare a Caccuri; Francesco Antonio Perito donò circa otto tomoli di terra confinanti con la “Forestella de Casale Novo”; i monaci infine piantarono numerosi gelsi e vigne.

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S. Giovanni in Fiore (CS), Santa Maria la Nuova.

 

Verso la soppressione
Rovinata dal terremoto del 1638, fu in parte riparata dall’abate Emanuele Pelusio (27).
Situata a mezzo miglio di distanza dall’abitato, circondato da mura, di Caccuri, “in luogo aperto a canto alla strada Publica”, l’abbazia a metà Seicento era formata dalla chiesa intitolata a Santa Maria della Nova, ricostruita di recente a pianta quadrata di lato palmi 58, con altare maggiore, dove si officiava, e per metà ricoperta da un soffitto a tavole, rifatto dal commendatario.
Davanti alla chiesa vi era un ampio cortile circondato da mura dove affacciavano cinque stanze abitabili ed una scoperta, usate per cucina, forno, magazzino e stalla. Al di sopra di queste stavano altre quattro stanze, dove abitavano i monaci ed i la servitù. Accanto, ma fuori delle mura, che circondavano l’abbazia, vi erano tre casette disabitate, costruite “di luto e pietre” ed un terreno che, quando non veniva seminato, serviva ai monaci per il pascolo dei loro animali. Il 20 marzo 1650, come richiesto dalla Costituzione di Innocenzo X, il priore Gregorio Ricciuti di Mesoraca ed il sacerdote Michel’Angelo Prospero stendevano la relazione sullo stato del monastero di S. Maria della Nova, o della Paganella, appartenente alla congregazione cistercense della Calabria e Lucania. Essi dichiararono che tutta la famiglia era composta dai soli estensori e dal serviente Gio. Pietro Ricciuto del casale di Altilia e che le rendite del monastero, calcolate sugli ultimi sei anni, si aggiravano in media attorno a ottanta ducati e pareggiavano con le spese. Facevano anche notare che parte delle rendite, a suo tempo assegnate dal commendatario, col passare degli anni per varie cause si erano ridotte. Le terre nella “Montagna”, dalle quali i monaci esigevano la metà di ogni tomolo seminato, al tempo in cui erano state assegnate erano state valutate ducati 15 annui, negli ultimi sei anni, invece, avevano reso solo otto ducati. Lo stesso valeva per i censi su delle case e delle vigne. Valutati allora in ducati cinque annui, ora davano poco più della metà, perché molte erano “dirute”. La “Forestella del Casale Novo” aveva ancora la stessa rendita, ma la sua estensione era aumentata di otto tomoli donati da un benefattore. Per non parlare del “Tenimentello” che, dopo l’accordo tra il commendatario ed il barone, non dava più niente. Se alcune rendite dei beni a suo tempo assegnati erano diminuite, altri non apportavano alcuna entrata in denaro in quanto erano ad uso dei monaci. Si trattava di alcuni terreni presso il monastero che, quando non si seminavano, servivano per il pascolo degli animali dei religiosi e quando si seminavano, il grano era usato per il loro vitto. Lo stesso valeva per la vigna, che non sempre forniva il vino sufficiente “per la fameglia e passaggi di forastieri così regolari come secolari”, ed i due buoi che utilizzati dal garzone o dal massaro, davano solo grano ad uso del monastero. Parte degli altri beni veniva affittata in denaro. E’ il caso dell’orto, di alcune vigne, delle fronde dei gelsi, di “alcune grotte a canto la forestella”, che si davano in fitto a caprai. Parte in grano che poi i monaci vendevano, come alcune terre e vignali. Completavano le entrate i ducati 19 sopra tutti i beni della abbazia che il commendatario, o chi per lui, doveva dare e la vendita della parte non consumata di sale a suo tempo concesso dal re. Per quanto riguardava le uscite, il vitto ed il vestiario incidevano per quasi il 90%, nonostante che parte del grano, del vino e di altre vettovaglie proveniva dalla “massaria, seu arte del campo” e dalla vigna. Esse erano così elevate anche perché comprendevano i “passaggi et alloggi così di regolari, come di secolari”. Vi erano poi i costi della vita quotidiana e del mantenimento della chiesa e del monastero: “biancherie, mobili di casa, vasi et robbe di tavola di cucina”, “sacrestia et cera”. Seguivano le contribuzioni (al Padre Procuratore Generale, alla cassa comune per il sostentamento del Padre Presidente della Congregazione, per visita del Padre Presidente e Visitatori, per il vitto del Capitolo che si celebra ogni quattro anni, per il viatico del Padre Presidente che viene deputato da Padre Generale per soprintendere al Capitolo). Da ultimo una piccola spesa era riservata al mantenimento dei “tetti et altre reparationi” del monastero (28).

Gli abbati commendatari
Non avendo i requisiti richiesti dalla Costituzione di Innocenzo X il monastero nel 1652 fu soppresso (29). Rimase la chiesa alla cui manutenzione dovevano pensare gli abbati commendatari. Al tempo della soppressione era abbate commendatario il cardinale Francesco Angelo Rapaccioli e alla sua morte i beni dell’abbazia furono dati in commenda nel luglio 1657 al cardinale Geronimo Bonvisio al quale seguì nel settembre 1681 il cardinale Giovanni Francesco Ginetti. Morto il Ginetti la commenda venne concessa nel luglio 1694 al chierico nobile diciannovenne Giacomo Caracciolo, che all’inizio del Settecento restaurò la chiesa, come è evidenziato da una epigrafe murata sul portale: “ IACOBUS CARAC. E DUCIB/ US MARTINE ARCHIEP./ EPHESINUS CAMERE APOST./ GEN.LIS AUDITOR. ET SANCTE/ MARIE TRIUM PUEROR. AC S./ IOA.NI. FLORE PERPETUUS COM/ MEND. ECCLESIAM HANC RESTAU/ RAVIT A. D. MDCCXVII(?)”. Dopo la sua morte la commenda fu concessa nel 1718 al cardinale Martino Innico Caracciolo. Nel settembre 1754, per morte del Caracciolo, passò al cardinale Enrico Henriquez e, morto costui, il 9 agosto 1756 è concessa al chierico napoletano Giacomo Filomarino dei principi della Rocca.

Liti tra i feudatari di Caccuri e l’abbazia di S. Giovanni in Fiore
Dopo la soppressione il feudatario di Caccuri, Antonio Cavalcanti (1651–1676) rivendicò i beni dell’abbazia in quanto luogo pio ricadente nel territorio del suo feudo ma trovò l’opposizione degli abati del monastero di S. Giovanni in Fiore i quali dimostrarono che l’abbate e l’abbazia dei Tre Fanciulli erano, fin dai tempi antichi, sudditi e vassalli dell’abbate florense. Così l’abbate commendatario florense amministrò anche i beni di Santa Maria Nova o dei Tre Fanciulli e la soppressa abbazia con i suoi fabbricati , orti e vigne divenne parte del territorio badiale. La lite tuttavia non si esaurì. Verso la metà del Settecento essa era ancora verteva tra il cardinale Martino Innico Caracciolo, abbate e perpetuo commendatario della badia di S. Giovanni in fiore e di S. Maria della Paganella (1718- 1754), ed il duca di Caccuri Marzio Cavalcanti (1710–1752). Per l’abbate, l’abbazia dei Tre Fanciulli con le sue proprietà, era dentro i confini dell’abbazia di S. Giovanni in Fiore, per il duca la questione era ancora aperta in quanto sulla questione dei confini tra l’abbadia di S. Giovanni in Fiore ed il feudo di Caccuri pendeva lite in Sacro Regio Consilio e in Camera della Sommaria. Secondo il feudatario di Caccuri i beni dell’abbazia dei tre Fanciulli, la difesa seu serra dell’Olivaro, Rittusa, S. Nicola, Caria, Gradia, Manco di Scavo e la badia della Paganella, erano da considerarsi suoi beni burgensatici (30).

Note

1. Daniele, cap. 3.
2. Ughelli F., Italia Sacra, t. IX, 195-196.
3. Ughelli F., cit., 197-198.
4. Russo F., Regesto, I, (628).
5. Pratesi A., Carte cit., pp. 280 –282.
6. Fiore G., cit., II, 378.
7. Russo F., Regesto, I (710).
8. Russo F., Regesto, I, (935).
9. Reg. Ang., IX, 271; XII, 161.
10. Russo F., Gioacchino da Fiore e le fondazioni florensi in Calabria, Napoli 1959, p. 107.
11. Nel 1324 e nel 1325 l’abbate Nicolaus versa tar. XII, Vendola D., Rationes cit., n.2709; Russo F., Regesto, I, (5061)
12. Russo F., Gioacchino da Fiore cit. , p. 111.
13. Maone P., Caccuri monastica e feudale, Portici 1969, p.16.
14. Fonseca C. D., Dall’abbazia al casale di San Giovanni in Fiore, in San Giovanni in Fiore, a cura di F. Mazza, Soveria Mannelli 1998, p.49.
15. Barone N., Notizie storiche tratte dai Registri di Cancelleria di Carlo III di Durazzo, ASPN a. XII, fasc. II (1887), p. 193.
16. Russo F., Regesto, II (10743)
17. Russo F., Regesto, III, (12908)
18. Russo F., Regesto, III (15179).
19. Russo F., Regesto, IV, (18127).
20. Russo F., Le fondazioni cit. p. 116.
21. Russo F., Regesto, IV, (20176)
22. IL 24 luglio 1606 cessava la commenda del Forcellato sul monastero di S. Maria la Nova che era data in commenda al De Rodolfis. Al Forcellato rimaneva un’annua pensione di 73 ducati sulle entrate della stessa, Russo F., Regesto, V, (26297).
23. S. C. Stat. Regul. Relationes, (1650) 16 , Riformati San Bernardo (Cistercensi), f. 105v, ASV; Maone P., Caccuri cit. pp. 25-26.
24. Status monasteriorum Cist. Ord. Ex visitatione an. 1569, Conc. Trid. 2, f. 119, ASV.
25. S. C. Stat. Regul. Relationes cit., ff. 104-105.
26. Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1621.
27. Russo F., Le fondazioni cit., p.183.
28. S. C. Stat. Regul. Relationes, cit., ff. 104 –106.
29. Fiore G., cit., II, 378.
30. Maone P., Caccuri cit., pp. 42-44.


Creato il 19 Febbraio 2015. Ultima modifica: 28 Aprile 2021.

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