Savelli, due omicidi ecclesiastici a cavallo dell’800

Savelli (KR).

Sono molteplici i moventi che hanno provocato, nel corso dei secoli, una scia di sangue dovuta ad omicidi e congiure. Una lunga narrazione parla di omicidi politici, di ritorsione, vendetta, sangue. Delitti d’onore, ma anche rituali, superstiziosi. Le cronache ci restituiscono ampi stralci di fatti del genere, e la Calabria, nella sua storia – antica quanto recente – non è esente da tali vicende.

Una questione sicuramente meno dibattuta riguarda gli omicidi ecclesiastici, che in Calabria assumono un contorno ben definito e molto particolare in special modo a cavallo dell’800 ed a seguito dei moti giacobini di cui abbiamo già parlato [i].

Accadde infatti che in molti centri abitati sacerdoti ed arcipreti finirono per sposare la causa della repubblica partenopea, assieme a nobili e notabili. Al termine però dell’effimera rivoluzione, iniziò la repressione che non lasciò impuniti neppure gli ecclesiastici, nel mero disinteresse delle autorità ma anche della Chiesa stessa.

Potremmo definirla una sorta di “resa dei conti”, dettata spesso dalle inclinazioni che baroni e feudatari avevano nei confronti dei sanfedisti o dei giacobini. Ma non solo. Un esempio pratico ci viene fornito da due omicidi avvenuti Savelli [ii] a distanza di pochi anni: nel 1796 e nel 1806. Omicidi che sarebbero stati “comandati” dalla stessa mano, ossia dal barone Nicola Barberio Toscano di San Giovanni in Fiore, subfeudatario di quelle terre particolarmente avverso dalla popolazione.

Nel primo caso ad essere giustiziato fu Don Vincenzo Arcuri, sacerdote che avrebbe criticato pubblicamente in più occasioni proprio il feudatario, definendolo un despota che impoveriva e danneggiava i poveri contadini di Savelli. Una vicenda che probabilmente andò avanti per diverso tempo, finché nel 1796 non venne deciso di metterlo a tacere.

“Occorreva dare al contadiname una dimostrazione di forza, con una punizione esemplare, che desse l’idea precisa che il padrone di Savelli in avvenire non avrebbe mai minacciato invano. E dunque gli sgherri di D. Nicola Barberio-Toscano prelevarono il buon sacerdote, trascinandolo nel cortile della casa baronale e quivi si apprestò una specie di forca caudina, cioè due travi conficcate nel terreno, con una terza trasversale all’altezza un po’ superiore di quella di una mula. Si fece salire sull’animale il condannato e dopo avergli legato le mani dietro la schiena e i piedi sotto la pancia della bestia, si diede un colpo deciso di frusta alla mula, che passando sotto l’asse trasversale della forca, produsse un violentissimo colpo all’addome del disgraziato, provocandogli la rottura in due della schiena” [iii]

Tale episodio, dunque, è da inquadrarsi non ancora in contesto di fermento politico, bensì di mera rivalità e soprattutto di controllo del territorio. L’impiego di bande armate per ristabilire l’ordine – definiti spesso sgherri, sbandati e da qui a breve briganti – era una prerogativa di numerose famiglie del tempo: nobili, feudatari, possidenti li utilizzavano per risolvere definitivamente i problemi senza sporcarsi le mani.

Il secondo caso invece avvenne nel 1806, e dunque nel periodo immediatamente precedente al decennio francese. Era ancora in atto la reazione sanfedista, e nel mese di settembre del 1806 caddero dapprima il notaio Giovanbattista Venturi ed il giudice Giuseppe De Titta: entrambi vennero fucilati “tra la disapprovazione della moltitudine nel luogo della Cupola” come riporta l’arciprete del tempo, Francesco Scigliano. Il giorno dopo la stessa sorte sarebbe toccata anche a lui.

“Verso le ore nove dei forsennati afferrarono l’arciprete e rimproverandogli il suo attaccamento ai francesi gli comunicarono la sua condanna a morte. Indi lo trascinarono alla solita Cupola, lo fecero inginocchiare e gli consentirono di raccomandarsi a Dio. Gli scaricarono le armi addosso, ma, o per miracolo o per caso, nessuna palla lo colpì. Ci volle una seconda scarica perché il buon prete restituisse la sua ardente anima a Dio”.[iv]

Quest’ultimo delitto forse si sarebbe potuto evitare, in quanto lo stesso Scigliano sarebbe stato informato per tempo da alcuni concittadini, che gli avrebbero consigliato di allontanarsi dalla terra di Savelli per salvarsi la vita. Ma evidentemente decise di rimanere, pagando con la vita.

Sono diversi gli autori degli efferati omicidi avvenuti in tutto l’alto Marchesato e nella Presila. In molti vennero arrestati nel corso delle spedizioni del 1808 – che risalirono l’intero percorso del fiume Neto – ma a seguito di rivolte e sommosse trovarono presto la libertà. Ed una volta evasi, si vendicarono dei loro accusatori e di chi gli voltò le spalle. Ma questa è un’altra storia.

 

Note

[i]      https://www.archiviostoricocrotone.it/crotone/i-moti-giacobini-nella-crotone-del-1799/

[ii]     https://www.archiviostoricocrotone.it/urbanistica-e-societa/origine-e-chiese-di-savelli/

[iii]   Briganti in Sila, di Salvatore Meluso.

[iv]    Savelli nella tradizione e nella storia, di Pericle Maone.


Creato il 14 Febbraio 2022. Ultima modifica: 14 Febbraio 2022.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

*