Schiavi “negri” e “turchi bianchi” a Crotone

San Paolino riscatta gli schiavi, 1626-1630 c.a (da catalogo.beniculturali.it).

Gli schiavi ai lavori di fortificazione

I “Conti” del regio pagatore Veles de Tappia elencano le spese sostenute dalla Regia Corte per la costruzione delle fortificazioni delle città e castello di Crotone, i cui lavori iniziarono nella primavera del 1541. Lo scrivano di razione Petro Saporta, incaricato della loro stesura, distinse settimanalmente e giorno per giorno, i denari pagati ai fornitori dei materiali ed ai lavoratori. Questi ultimi risultano divisi in categorie: mastri, manipoli, devastatori, quatrari, saccari, aiutanti di calcara, marinai, ecc., e per città di provenienza.

Vi è poi, a parte, un folto gruppo formato dagli “sclavi, o scavi, de Cotrone”, i cui nomi sono seguiti da quelli dei loro padroni, che sono i nobili della città, i funzionari regi ed i feudatari: Marco Nigro de Infosino, Francesco Nigro de Francesco Pipino, Marco Nigro de Pipino, Martino Nigro de Francischino de Pascqua, Cola Nigro de Joanne de Tappia, Cristofalo Nigro de Ferr.ti de Alexandro, Ferr.ti Nigro de Jo. Antonio de Sena, Cola Nigro de Yirimia, Sulima Moro de Ger.mo Oliveri, Casam Turcho de Luca Castellano, Francesco Nigro de Amato, Rubino Nigro de Julio e Ottaviano Tibaldo, Joanne Nigro de Loyse de Minneses, Cristofalo Nigro de Bernardino Susanna, Franco moro de Nardo Locifaro, Cifaro moro seu yuzo de Nardo Locifaro, Perico Nigro de Perruccio Locifaro, Baram Turcho de Alonso Veles, Barberi Turcho de Alonso Veles, Giorgi Nigro de Cola Faraldo, Bernardino Moro de Marco Malerba, Durala Turcho de Ferr.ti Galluco, Memi Turcho de Gratiano de Amato, Matteo Nigro de Jo. Bb. Xiglano (Syllano), Marzano Moro de Ferr.ti Marzano, Cola Nigro de Joanne Velez de Tappia, Casu Turcho de Jacobo Barbamayore, Lo Moro de Filippo la Vollita.

Scorrendo il lungo elenco, emergono due distinti gruppi di schiavi: i Nigro ed i Turcho. I primi sono stati redenti ed hanno assunto, tramite il battesimo, il nome cristiano, i secondi invece mantengono la loro identità. Gli schiavi di solito erano impiegati come manipoli, devastatori ed aiutanti di calcara, ed erano pagati settimanalmente con un salario uguale a quello di coloro che svolgevano lo stesso lavoro. Il salario, intascato evidentemente dai loro padroni, era di 10 grana al giorno, per sei giorni di lavoro la settimana.[i] La documentazione evidenzia quanto era folta, alla metà del Cinquecento, la comunità degli schiavi a Crotone. Bisogna infatti aggiungere a coloro, che presero parte ai lavori di fortificazione, le donne, i bambini e gli anziani.

Il mercato degli schiavi, 1640-1660 c.a (da catalogo.beniculturali.it).

Vendite di schiavi a Crotone nel Seicento

La presenza di schiavi in città e, nei paesi vicini durante il Seicento, è segnalata, oltre che dai libri parrocchiali, dove troviamo annotati battesimi di “turchi”,[ii] anche dagli atti dei notai di Crotone, i quali, fin dall’inizio di quel secolo, attestano vendite di schiavi negri e bianchi. Se per i cristiani fatti schiavi dai Turchi, a volte, la liberazione giungeva attraverso il pagamento di un riscatto,[iii] o a seguito di scorrerie compiute da cristiani in territori nemici,[iv]4 o da atti di “cordialità” e benevolenza,[v] per i Turchi, fatti schiavi dai cristiani, il riacquisto della libertà era quanto mai raro.

La conversione al cristianesimo qualche volta, era uno dei pochi modi per ritornare liberi. Un caso del genere lo troviamo nel libro dei battezzati di Rocca di Neto. L’arciprete del luogo, Gio. Pietro Pignanello, infatti, acquistò una turca ventenne di nome Homi, ponendo la condizione che se si fosse battezzata, l’avrebbe lasciata libera. La schiava il 30 giugno 1612 prese il battesimo e, col nuovo nome di Anna, riacquistò la libertà.[vi] Altre volte lo schiavo veniva premiato per la sua fedeltà, specie alla morte del padrone, o per i suoi servizi. È quest’ultimo il caso della baronessa di Bellovidere (Belvedere Spinello) Portia Piterà, la quale avendo ereditato una schiava bianca di nome Margherita, per compensarla per lo zelo con cui l’aveva servita e la serviva, il 13 luglio 1616 con atto notarile la liberava.[vii]

Quasi sempre invece, la schiavitù era una condizione che rimaneva per tutta la vita. Imbarcato sulle barche dei trafficanti, come una delle tante merci, lo schiavo veniva venduto a feudatari e nobili.[viii] I possidenti del Crotonese a volte, procedevano all’acquisto tramite prestanome e procuratori, i quali si incaricavano di acquistarli anche in altri centri della regione.

Il 13 gennaio 1613, il notaio di Crotone Giovanni Dionisio Speziale si recò a Monteleone, per registrare l’atto di vendita di una schiava bianca di 25 anni di nome Margarita Mingrella, che Giovanni Pallodio della città di Schjo, vendeva ad Antonia Piscina. Sborsato il denaro, la schiava passò in pieno dominio, usufrutto e proprietà dell’acquirente, dei suoi eredi e successori, i quali potevano “quella havere, tenere possidere, dare, vendere et alienare a qualsivoglia persona” di loro piacimento.[ix]

Il due agosto 1629 in Crotone Gioseppe Maria Syllano, padre e legittimo amministratore del chierico Gio. Andrea, riceveva da Gio. Francesco Telesio, procuratore del regio castellano del castello di Crotone, lo spagnolo Don Antonio Paredes, ducati 120 in contanti, come prezzo della vendita di una “scava”, che apparteneva al chierico. La schiava di nome Barbara è descritta come una negra d’anni trenta incirca e di alta statura. Ricevuto il denaro, il Syllano consegnò per la mano la schiava al Telesio e “la consigna per tale quale è sana per gratia di Dio vestita con dubletto e con una guttunera di panno verde”. Due mesi dopo il castellano morì, così la “scava di anni 28 incirca christiana nome barbara”, fu rivenduta dalla vedova ed erede, Leonora Canillo, per lo stesso prezzo al capitano spagnolo Giuliano Rizon dela Cerda.[x]

Di frequente gli schiavi venivano venduti di contrabbando, cioè senza pagare le tasse di sdoganamento ed eludendo sia la verifica, che lo schiavo fosse effettivamente “turco”, sia il permesso del vicerè, di cui doveva munirsi il compratore. A volte favorivano le truffe gli stessi funzionari, addetti ai controlli, che si avvalevano all’occasione della complicità di notai corrotti.

Il 12 novembre 1664 su richiesta di Orazio Migliolo, regio sostituto arrendatore del fondaco della città di Crotone, il notaio Isidoro Galatio ed alcuni testimoni, si recano al porto dove è ancorato il vascello del patrone Nicola Catavi di Corfù. Poiché corre voce in città che è stata venduta una “sclavam moram”, il funzionario regio vuole cautelarsi nei confronti dei suoi superiori e certificare il suo corretto operato, dimostrando che ciò che si dice in giro è falso; vuole cioè dimostrare che la schiava non ha lasciato il vascello e tanto meno è stata consegnata al compratore. Saliti sulla barca, il notaio in presenza di testimoni e del richiedente accerta che vi ha trovato una schiava mora, che stava seduta.[xi]

O Mercado de Escravos, Jean-Leon Gerome (1866).

Dagli schiavi negri ai “turchi bianchi”

Nella seconda metà del Seicento e nei primi decenni del Settecento, il traffico schiavistico ha come centri di provenienza le città della Dalmazia e le isole ioniche, che sono sotto il dominio della Repubblica di Venezia. Gli schiavi che vengono venduti a Crotone risultano infatti imbarcati a Zante, Fiume, Segna, Castelnuovo di Dalmazia, Corfù, ecc. Oltre a schiavi “negri”, compaiono sempre più frequentemente “turchi bianchi” e di color olivastro, anzi, col passare del tempo, gli schiavi bianchi risultano i più richiesti e rappresentano la maggior parte degli acquisti. Sembra che presso le famiglie aristocratiche crotonesi avere uno schiavo bianco, fosse divenuto un segno distintivo di ascesa e potenza sociale. La schiavitù perde ogni valore legato al lavoro e lo schiavo, o la schiava, diviene uno dei tanti elementi di distinzione tra le classi.

L’intensità di questo traffico è segnalato anche dalla presenza a Crotone di un console veneziano. Il 6 maggio 1682 a Crotone, Costantino Michelizzi di Zante, Gio. Vittorio Cefalai di Cefalonia e Giorgio Magnaci di Corfù, patroni greci di barche, ossia di sandali, nominavano per loro console il nobile Fabrizio Suriano, dandogli ampia potestà di potere esercitare il consolato per la loro nazione e per tutti i Veneziani, come se egli fosse stato nominato direttamente dalla Repubblica di Venezia. Il nuovo console potrà esigere carlini quattro da ogni imbarcazione della nazione veneta, che attraccherà al porto della città, e sarà obbligato a difendere a Crotone e nel suo distretto, ogni suddito della Repubblica di Venezia, per ogni accidente che gli potesse succedere ed assisterlo in tutto quello che comporta tale ufficio.[xii]

Il 22 febbraio 1682 nella città di Zante, per atto del “civis et notarius Venetus” Julius Ziblettus, in presenza di testimoni, il signor Santhi Planitero consegna un suo schiavo di nome Adruman, moro negro di circa venti anni, al patrone Costantin Michelizzi, nativo di Cefalonia ed abitante a Zante.

Il Planitero, affidando lo schiavo al Michelizzi, dà a quest’ultimo la facoltà di venderlo a Messina, o in altro luogo al miglior prezzo possibile, “rimettendosi alla di lui coscienza”. In acconto ed a cauzione del futuro affare, il Planitero ottiene dal Michelizzi la somma di 50 reali ed altri 6 reali per cambio marittimo, “a risico e pericolo sopra il corpo della barca”, con dichiarazione espressa che, morendo lo schiavo prima della sua vendita (“che il Signor nostro Iddio non voglia”), in tal caso il signor Planitero sia obbligato alla restituzione dell’intero denaro avuto in anticipo.

A sua volta il Michelizzi si impegna al suo ritorno a Zante, a dare conto al signor Planitero, tanto del prezzo ricavato dalla vendita, quanto delle spese sostenute per la custodia, mantenimento e collocamento del moro negro e, fatti i calcoli, gli darà il rimanente. Il Michelizzi, preso in consegna lo schiavo, prima di lasciare l’isola lo munisce di una patente di salute, che è rilasciata in Zante il 3 marzo dello stesso anno. In essa è certificato che la città di partenza, cioè Zante, è “tutta sana et libera d’ogni sospetto e di mal contagioso”, e tale è anche la merce cioè “Adruma’ turci moro passeggero con le sue robbe d’uso con barca di ventura per il viaggio di Messina. Però ove venisse a capitare ne stati e regni di Sua Maestà se gli potrà dare libera e sicura prattica”.

Lasciata Zante con il suo brigantino “La SS.ma Trinità”, il Michelizzi, dopo aver compiuto alcuni scali, collocando parte della merce, attracca alla fine di aprile al porto di Crotone. Qui getta l’ancora e cerca di piazzare lo schiavo. Dopo vari tentativi e trattative, si raggiunge un accordo. Per renderlo legale, il primo maggio il notaio Antonio Varano si reca nel castello di Crotone, dove è redatto l’atto di vendita. Lo schiavo o moro negro detto Adruma’ è venduto per il prezzo di 72 ducati di moneta corrente del regno al castellano del regio castello di Crotone, l’almirante Domingo Rodrigues. Così come il denaro sborsato ed intascato cambia di padrone, anche Adruma’ ne segue la sorte. Lo schiavo diventa dominio e possessione dell’almirante e dei suoi eredi, i quali potranno “quello havere, tenere, possedere, vendere et alienare et farne come cosa propria”.[xiii]

Il 26 marzo 1687 a Crotone, il reverendo Domenico Cenula di Positano, vende al capitano Antonio Villegas, procuratore di Carlo Blasco di Rossano, marito di Laura Berlingieri di Crotone, una turca bianca di circa 22 anni “di giusta statura capelli biundi con una sima sotto il labro a parte sinistra et per destera”, di nome Sacchia originaria di Novigrado.

Il Cenula l’aveva comprata nella città di Segne. Prima di stendere l’atto di vendita, la schiava è portata dal parroco di Santa Veneranda Giuliano Villaroja dove, in presenza del notaio e del regio giudice della città, è interrogata se era stata battezzata e lei rispose “che era vera turca”. La vendita è possibile in quanto sia il Cenula che il Blasco hanno ottenuto il permesso del vicerè, “in virtù del rescritto per Segreteria di giustitia spedito sotto il 27 Xbre 1686”. Per tale trattato, fatta sdoganare nella regia dogana di Crotone e pagate le dovute tasse, è venduta al Blasco per ducati 40 in moneta di Sicilia. Il compratore potrà “quella havere tenere et possidere vendere et alienare et altrimenti farne come cosa propria”.[xiv]

Il 28 marzo 1687 Felice Scarpato, patrone di tartana, vende una turca bianca di nome Musco di circa 13 anni “punta di varoli, capelli castagni”, da lui comprata a Fiume. Egli si era in precedenza accordato con il nobile crotonese Gio. Paulo Pipino. Il Pipino, ottenuto il permesso dal vicerè, può ora perfezionare l’acquisto. Il nobile consegna l’assenso al notaio, il quale procede alla stipula dell’atto di vendita, col quale il patrone cede al Pipino la turca, ricevendo in cambio il suo prezzo, cioè 25 ducati.[xv]

Nell’ottobre 1692, il maltese Claudio de Rosi arriva con la sua feluca al porto di Crotone. Egli trasporta numerosi schiavi bianchi che ha acquistato in Castelnuovo di Dalmazia. Con sé ha anche una fede rilasciata il mese prima dal vice curato dell’ospizio di San Francesco di Castelnuovo, che certifica che gli schiavi sono tutti “veri turchi”. Il marchese di Crucoli, Giuseppe Oronso Amalfitano, che soggiorna nel suo casino di La Sala, ne vuole acquistare uno e perciò incarica Tommaso Varano di Crotone a trattare per suo conto l’affare.

Ottenuta la licenza del vicerè e dopo aver fatto esaminare lo schiavo prescelto da un ecclesiastico, in presenza del regio governatore di Crotone, Don Luis de Villa Reale, che accertò che si trattava di un “vero turco”, il notaio Antonio Varano stila l’atto di vendita. Il 19 ottobre 1692 Assan, schiavo bianco di 6 anni, figlio di Mucho Elavovial di Trebinje, passa in proprietà del marchese per ducati 15 “in tanta moneta d’oro”.[xvi]

Vendita di schiavi (da genovaquotidiana.com).

Tra il Seicento ed il Settecento

Sul finire del Seicento si può stimare che a Crotone ci fossero una settantina di schiavi, su una popolazione di circa tremila e cinquecento abitanti. Altri schiavi erano custoditi dai feudatari e dai nobili dei paesi vicini.[xvii] Gli schiavi di solito, dopo essere acquistati, venivano battezzati ed assumevano il cognome del padrone. Dal 15 agosto 1691 al 15 agosto 1694, a Crotone furono fatti cristiani 3 schiavi, 3 calvinisti e 22 ebrei, ai quali, come da ordine del vescovo Marco Rama, furono dati ad ognuno 5 grana a testa, dal procuratore del capitolo della cattedrale. Sempre nello stesso periodo morirono quattro schiavi: Andrea Caivano, Antonio Presterà, Pietro Manfredi ed Anna Maria Capicchiano.[xviii]

Pur acquisendo attraverso la redenzione un nuovo nome ed una nuova identità, gli schiavi, anche se fatti cristiani, erano ancora considerati al pari delle cose, come dimostrano gli atti di vendita e gli inventari di sequestri e di beni ereditari: “… uno crucifisso di vetro, due pistoli, una cascia piccola di cedro, quattro boffetti, dudici seggi di bacchetta, uno quatro della madonna dell’Arco con cornici indorate, dui secchi, uno schiavo negro, uno tripodo, una gradiglia …”.[xix] Così Pietro Suriano, proprietario di molto bestiame e di vaste terre, morto nell’agosto 1708, lascia agli eredi, oltre ai molti debiti, il palazzo di abitazione, un giardino con sua torre e vigne, terreni per un totale di 180 salmate, una bottega in piazza, numeroso bestiame (vacche, vitelli. vitellacci, scrofe, tori, buoi, pecore, ecc.), ed uno schiavo bianco trentenne di nome Giacchino.[xx]

Pagamento del tributo per la liberazione degli schiavi, post 1800 – ante 1849 (da catalogo.beniculturali.it).

Ultimi atti

Pochi sono gli atti che riguardano le vendite di schiavi a Crotone nel Settecento. Il patrone Donato Cafiero del Piano di Sorrento, compera a Piombino uno schiavo “color olivastro, statura giusta, capello nero e riccio lungo” di circa venti anni di età, battezzato con il nome di Giuseppe. Poiché intende venderlo, lo consegna al fratello Gabriele, il quale, giunto al porto di Crotone con la sua tartana, sparge la voce per piazzare la merce.

Si fa avanti Salvatore Messina del luogo che, prima di acquistarlo, vuole provarlo. Perciò fattosi consegnare lo schiavo ed avutolo in suo dominio, il Messina se lo portò a casa e gli ordinò di eseguire molti servizi. Messo alla prova, lo schiavo si dimostrò lesto e all’altezza di ogni situazione, dando al futuro padrone intera soddisfazione e piacimento. Contrattata e decisa la vendita, l’11 aprile 1717 venne steso presso il notaio Pelio Tirioli il contratto.

Il Messina si obbligò a pagare tutto in una volta al patrone Gabriele il prezzo dello schiavo, valutato in 60 ducati, volle però cautelarsi da possibili truffe. Si impegnò quindi a fare il versamento della somma solo alla fine del mese di agosto. Prima richiese che il venditore, una volta ritornato al suo paese, gli mandasse tutte le scritture e gli atti comprovanti che effettivamente Giuseppe era uno schiavo e che era stato acquistato a Piombino. Poi impegnò il venditore a riportargli lo schiavo, se per qualsiasi motivo quest’ultimo gli fosse fuggito e fosse ritornato al suo vecchio padrone. Non era raro, infatti, il caso che servo e patrone si accordassero ed una volta avvenuta la vendita, il primo alla prima occasione, se ne fuggisse per ritornare dal vecchio padrone, spartendosi gli utili.[xxi]

La schiavitù era ancora presente a Crotone nella prima metà del Settecento. Sul finire del viceregno austriaco, il procuratore del capitolo annotava tra le uscite, il pagamento effettuato a quelli della redenzione degli schiavi di grana 15, il prezzo cioè per tre schiavi battezzati,[xxii] ed alcuni anni dopo, nel catasto onciario di Crotone del 1743, troviamo che il nobile vivente Carlo Manfredi possedeva una schiava di 70 anni di nome Catarina, Lorenzo Soda ne aveva una di nome Innocenza di anni 42, e il nobile patrizio Pietro Zurlo aveva uno schiavo di nome Giuseppe Antonio Zurlo di anni 32.[xxiii]

Note

[i] ASN, Dip. Som. Fs. 196, n.4 a 6.

[ii] Il 4 ottobre 1637 veniva battezzato il turco Acmet, era padrino il capitano spagnolo Giuliano Rizon de la Cerda. Valente G., Calabria Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria 1400-1800, Chiaravalle Centrale, 1973, p. 548.

[iii] Nel 1680 fu fatto schiavo dai Turchi il crotonese Dionisio Pelusio, il quale rimase in schiavitù per tre anni finché i suoi fratelli lo riscattarono pagando 400 ducati. ASCZ, Busta 497, anno 1706, f. 43.

[iv] Fabrizio Lucifero, figlio di Jo. Francesco e di Berardina Maiorana, fu fatto schiavo dai Turchi. Rimasto in schiavitù per 16 anni continui, fu liberato nell’isola di Santa Maura, grazie ad una incursione fatta dalla serenissima Repubblica di Venezia. ASCZ, Busta 336, anno 1690, f. 99.

[v] Il ministro plenipotenziario del re delle Due Sicilie, Giacinto Voschi, partendo nel 1742 da Tripoli, ottiene in regalo da quel pascià, come atto di cordialità, due prigionieri cristiani. Uno di questi si chiama Rocco Varano, marito di Caterina Pullis, dimorante a Crotone. ASCZ, Busta 668, anno 1750, ff. 121-123.

[vi] “Adi 30 de giugno 1612 Io D. Gio. Simone Brittone economo nella Rocca di Netho ho battizzato ad Homi Turcha comprata dal R.do Arcip.te D. Gio. Pietro Pignanello e lasciata libera se si battezzira e si chiamò Anna, il padrino fu il Sign.r Gio. Giacomo Pignanello et era d’anni come per suo aspetto apparea d’anni 20 incirca.” Battezzati della T.ra della Rocca de Neto, f. 44.

[vii] Valente G., Calabria Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria 1400-1800, Chiaravalle Centrale, 1973, p. 536.

[viii] Nell’elenco dei fuochi di Melissa del 1658 troviamo: “Pietro Paulo schiavo nigro dell’Ecc.mo Signor Principe patrone d’anni 80”, e Laura “figlia medesima negra vergine d’anni 26”. ASN, Fondo Pignatelli Ferrara, Fasc. 51, inc. 19, f. 31r.

[ix] ASCZ, Busta 108, anno 1613, ff. 75-76.

[x] ASCZ, Busta 118, anno 1629, ff. 66v, 70-71.

[xi] ASCZ, Busta 310, anno 1664, f. 29.

[xii] ASCZ, Busta 335, anno 1682, f. 45.

[xiii] ASCZ, Busta 335, 1682, ff. 40-43.

[xiv] ASCZ, Busta 335, anno 1687, f. 17.

[xv] ASCZ, Busta 335, anno 1687, f. 19.

[xvi] Nota degli schiavi bianchi di Trebinje comprati ed imbarcati a Castelnuovo dal maltese Claudio de Rosi sulla sua feluca chiamata Gesù Maria e San Giuseppe: Assan figlio di Mucho Elavovial, le sorelle Credira e Fattune figlie di Abil Auziol, i fratelli Mustafà e Mucho figli di Soliman Provial, Aissa figlia di Michemet, Mustafà figlio di Stelan Bechierovil ed Emiria moglie di Alziani Caramugio. ASCZ, Busta 336, anno 1692, ff. 162-164.

[xvii] All’inizio del Settecento, nel camerino della scrivania del castello di Strongoli del principe Pignatelli, vi era “un bacucco per lo schiavo ed una catena di ferro”. ASN, Archivio Pignatelli Ferrara, Fasc. 46, inc, 69, ff. 1-12v, Inventario del Castello di Strongoli, 1703.

[xviii] AVC, Platee del R.mo Capitolo 1691/1692, 1692/1693 e 1693/1694.

[xix] ASCZ, Busta 335, anno 1683, f. 46v.

[xx] ASCZ, Busta 497, anno 1708, ff. 46-52.

[xxi] ASCZ, Busta 659, anno 1717, ff. 55v-56.

[xxii] “Adi 30 luglio (1731) dato per ordine di Monsignor Vicario a quelli della redenzione de schiavi grana 15”. AVC, Platea Capitolo 1730 e 1731.

[xxiii] ASN, Cam. Som., Catasto Onciario Cotrone, 1743, vol. 6955, ff. 41, 42, 180.


Creato il 14 Marzo 2015. Ultima modifica: 25 Novembre 2022.

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