Produzione e commercio del formaggio a Crotone dal Cinquecento al Settecento

Fin dall’antichità la maggior parte delle terre della città di Crotone e dei luoghi vicini veniva affittata per tre anni a semina e per tre anni a pascolo. Il riposo triennale e la concimazione, che le terre ricevevano dal bestiame, permettevano nel triennio di semina successivo raccolti più abbondanti. Nello stesso tempo l’affitto ad “erbaggio” forniva ai proprietari dei fondi denaro e formaggio.[i] Grano e formaggio furono quindi nel Crotonese, fin dall’antichità, prodotti complementari, in quanto l’abbondanza del primo era legata a quella del secondo.

 

Dal Cinquecento al Seicento

Nella seconda metà del Cinquecento i formaggi commercializzati a Crotone sono soprattutto i “casi cavalli” ed i “raschi”, prodotti nei “vaccarizzi”, ed il “caso pecorino”, proveniente dai “caprarizzi”.

Possiamo farci un’idea dell’importanza di questi generi alimentari da un rendiconto amministrativo dei beni del possidente Lelio Lucifero, compilato dal suo fattore e procuratore Gio. Andrea Pugliese. Pur essendo il documento contabile ristretto al periodo compreso tra il 13 aprile ed il 24 giugno 1586, si nota il valore di questa attività economica. In poco più di due mesi i capi vaccari delle due morre di vacche consegnarono al fattore 350 paia di “casi cavalli” e 545 raschi; mentre dal caprarizzo vennero 278 pezze di caso pecorino.

Una piccola parte dei “casi cavalli” e dei “raschi” fu trasportata con un carro da un garzone della masseria a Pizzo, per essere imbarcata per Napoli “per servitio” del padrone, che si trovava nella capitale. Il rimanente fu venduto a “particolari “in Crotone: i “casi cavalli” a grana 25 il paio, diedero 75 ducati, i raschi a grana 5 l’uno portarono 22 ducati, tari 1 e grana 5, ed il caso pecorino a grana 8 la pezza, rese ducati 22 tari 1 e grana 4.

Oltre alla vendita curata dal fattore, è da aggiungere quella fatta direttamente dai due capi vaccari nei vaccarizzi, che dai casi cavalli e dai raschi ricavarono altri 52 ducati. Il formaggio fruttò quindi oltre 170 ducati, circa il 20 per cento delle entrate del nobile di quel periodo (le altre entrate provennero per il 59 % dalla vendita del grano, venduto a 15- 16 carlini il tomolo, per il 20 % dai crediti ed il restante uno per cento dall’affitto di una barca).

Tra le spese sostenute il fattore annotò l’acquisto di “quagli” e di sale, l’acconcio del caccavo ed il salario ai fratelli Zanfili e Jacono delo Canto di Pietrafitta, i quali avevano lavorato “a fare la robba a detti vaccarizzi delle detti vacche”.[ii]

I prezzi riportati evidentemente si riferiscono ad un particolare periodo dell’anno ed ad una annata che risentiva dell’aridità ed era segnata dal fatto che “molti herbaggi nel territorio di questa città si persero, che non trovarno de affittare per causa che non ci concorsero cosentini, quali soleno pigliare in fitto dicte gabele, stante la disunione di questa provincia di Calabria Ultra dalla provincia di Calabria Citra”.[iii]

Di solito essi variavano a seconda della stagione, dell’annata e dei luoghi. In genere nella primavera di una annata “normale” una “peza di caso” valeva dalle sette alle otto grana, una ricotta un grano ed un paio di casicavalli 12 o 13 grana.[iv] Tuttavia le annate “normali” durante il Seicento divennero sempre più rare ed il prezzo del formaggio subì forti oscillazioni.[v] La produzione, curata particolarmente da personale specializzato proveniente dai casali silani, in parte veniva esportata verso Napoli e parte alimentava il mercato locale, dove il formaggio era consumato soprattutto dal ceto medio – alto, formato da nobili, ecclesiastici,[vi] proprietari terrieri e burocrati, e dai soldati spagnoli di passaggio o di guarnigione nel castello.[vii]

A Crotone e nei paesi vicini, esso veniva venduto nelle botteghe cittadine. Così nelle due “botteghe lorde” di Santa Severina sul finire del Seicento si poteva acquistare assieme al pane, al vino, all’olio, alle sarde salate ed alla tonnina, anche “il caso (che) vale un carlino a pezza, quale è di libre sei nella fiscella, i casi cavalli due carlini il paio e son peso libre nove, li raschi a grana cinque l’uno, le ricotte uno grano l’una ed è di peso oncie otto”.[viii]

Esportazione di pezze di formaggio pecorino e di casicavalli, effettuata per conto di feudatari, aristocratici ed ecclesiastici dal porto di Crotone e da altri approdi del Crotonese per Napoli, sono segnalati alla fine del Cinquecento e nella prima metà del Seicento. L’estrazione di questo prodotto tuttavia non eguagliò, per importanza ed entità, quella del grano; quest’ultimo rappresentò il prodotto essenziale e ricercato dai governi, per sfamare le plebi urbane.

Nel maggio 1591 la barca di Fabio Cacciotto di Procida imbarca a Crucoli e a Cirò per conto di Cornelia Spinelli, contessa di Martorano, e di Virginia Caracciolo, marchesa di Cirò, vino, olio, formaggio pecorino e casi cavalli, che deve portare a Napoli.[ix]

Nel maggio 1623 Gioseppe Syllano noleggia la feluca di Giovan Battista del Corno, ancorata al porto di Crotone, per portare 5000 pezze di formaggio pecorino paesano, raschi e casi cavalli a Castellamare o Pizzolo o Amalfi. Giunto in uno di questi luoghi, a suo piacere, il Corno dovrà consegnare la merce al mercante che indicherà il Syllano e riceverà ducati 65 per il nolo; con patto però che all’imbarco accetti sulla sua barca una persona di fiducia del Syllano come sopra carico.[x]

L’esportazione di formaggio da Crotone rimase per buona parte del Seicento, un fatto relativamente marginale rispetto a quella del grano. Il saccheggio e le razzie delle marine ioniche da parte dei pirati turchi, le pestilenze e le calamità naturali colpirono sia gli abitanti che le mandrie ed impoverirono la popolazione, rendendo pericolosi e difficoltosi i traffici. Sul finire di quel secolo, venendo meno le condizioni svantaggiose, riprendeva sviluppo l’allevamento del bestiame e, legato ad esso, il commercio dei formaggi, che uno scritto del tempo descrive fiorente: “Inoltre come che la città di Cotrone nutrisce nel suo ampio territorio molti armenti di vacche e pecore il di cui frutto di latticinii è copioso … sono robbe di negotio, che non vengono per grassa della città ma per industria di particolari o padroni, o compratori”.[xi]

Lo sviluppo di questa attività economica farà ben presto conoscere, anche fuori regione, i suoi prodotti. Di un certo scambio commerciale tonnina – formaggio con la vicina Sicilia si ha notizia da alcuni atti notarili della fine del Seicento. Nel settembre 1679 il patrone Domenico Ponzo parte da Siracusa con alcuni barili di tonnina, per venderli per conto del castellano di Siracusa a Crotone e nei paesi vicini. Secondo gli accordi fatti alla partenza egli, dopo avere piazzata la merce, dovrà impiegare il ricavato nell’acquisto di formaggio pecorino del Crotonese da portare a Siracusa.[xii]

Il formaggio pecorino diviene un alimento ricercato, tanto che è spesso utilizzato dai vescovi e dai nobili locali, per omaggiare e ingraziarsi i funzionari e le autorità ecclesiastiche di Napoli. A volte tuttavia non mancano le brutte sorprese, come nel caso del vescovo di Isola Francesco Marino, il quale aveva incaricato il mercante Gio. Bartolo Galasso di Cotrone di inviare del formaggio ai suoi amici napoletani. Per la negligenza del Galasso e per il ritardo nell’imbarco, causato da difficoltà sopravvenute, la merce andrà a male. Il vescovo viene così a sapere, con grande rammarico”, che quella roba si fosse ritrovata in maniera guasta, e da vermini rovinata, che dagli Amici non si è avuta alcuna stima: e pare che io gli havessi poco bene trattati. Come sia ciò accaduto, io non ‘l so; giacché il resto, che mi rimase in dispensa, è di tutta squisitezza: se non fosse però l’aria Crotonese nimica del cacio”.[xiii]

Il “caso pecorino” crotonese si inserisce così a pieno titolo nel circuito commerciale ed assieme al grano è venduto in quantità notevoli soprattutto ai partitari, che riforniscono le truppe regie. Un atto stipulato verso la fine di marzo del 1684 ne dà conferma. Con esso Giuseppe Stazzi di Pietrafitta, curatolo della mandria del nobile crotonese Giuseppe Suriano, si impegna a consegnare entro il due o il tre giugno, a seconda del giorno che lascerà con la sua mandria il territorio crotonese, 1300 pezze di “caso pecorino”, del peso di libbre cinque e mezzo la pezza, al partitario Michel Giovanni; iniziando la consegna a partire dal 22 aprile. A sua volta il partitario le riceverà in città e fino alla quantità di 1600 pezze, pagandole nel giorno di San Giovanni dell’Agli, al prezzo che le pagheranno in Crotone gli altri partitari.[xiv]

 

Espansione del commercio

Durante il Viceregno Austriaco (1707–1734) si assiste ad una massiccia esportazione di formaggio. Al pari del grano, esso è esportato soprattutto verso l’area napoletana dai nobili della città, in special modo dai Barricellis, dagli Sculco, dai Suriano, dai Lucifero e dai loro prestanome.

All’inizio del gennaio 1712 a Napoli il reverendo Giacinto Tassone di Cutro, a nome di Silvestro Cirrelli di Crotone, vende al mercante napoletano Aniello Montagna 200 cantara di formaggi di Cotrone della presente stagione del corrente anno, non gonfio, ne tarlato, ne sbocconato, ne serchiato”.[xv]

Annibale Suriano sul finire del 1713, si impegna col mercante napoletano Giuseppe di Lieto a fornirgli entro l’agosto dell’anno successivo ben 300 cantara di formaggio pecorino, “posto alla vela a tutte sue spese a ragione di ducati 8 e grana 70 il cantaro”. Morto il Suriano, l’amministrazione dei suoi beni, essendo l’erede in minore età, fu affidata a Domenico Suriano, il quale annotava tra le entrate del 1715 il formaggio, che gli era pervenuto dalle mandrie della casa, che assommava a ben 13930 pezze.[xvi]

Nel luglio 1717 Domenico Sculco fa imbarcare 36 cantara di formaggio sulla tartana del patrone Leonardo di Monte, che deve portarlo a Napoli. Un documento contabile elenca, dalla fine di febbraio all’inizio di settembre del 1718, 14 estrazioni di formaggio da Crotone, alcune anche via terra, la maggior parte dirette a Giulianova ed a Napoli, per un totale di 3300 pezze di formaggio pecorino e 300 “recotelle”.[xvii]

Da luglio a dicembre 1728 Domenico Suriano effettua cinque imbarchi nel porto di Crotone per conto dei mercanti napoletani Nicola di Leo e Biase Panza, spedendo 12500 pezze in piccolo per quasi 200 cantari di caso pecorino, “della corrente stagione non rotto, non crepato, ne abboffato, ma sano intiero, netto di scarto, e di tutta bontà, e perfezzione mercantile e recettibile”.[xviii]

 

Frodi commerciali

Con l’incrementarsi del commercio, soprattutto del formaggio pecorino, aumentano le frodi. Il credenziere del regio fondaco e dogana di Crotone, Silvestro Cirrelli, “pubblico negoziante di grani e cascio”, spedisce nel 1714 due partite di formaggio, imbarcandole sotto il nome del “casoliere” Gio. Battista Mesoraca, “cioè un caricamento sopra patron Pietro Rocco di Napoli di cantara settant’uno e rotula sessanta di cascio seguito li sette del corr.e mese di agosto per consegnare detto cascio in Napoli al mag.co Gio. di Lieto per conto di detto credenziero Cirrelli e l’altro caricamento sopra patrone Cristofaro Cimino di Napoli di cantara settanta tre e mezzo di cascio, seguito sotto li quattordici di detto mese di agosto, anco per consegnarsi a detto mag.co Giovanni di Lieto, quantunque detto secondo carico apparisca per conto del mag.co Antonio La Face appaldatore del cascio e carne salata per servitio delle reggie galere di Napoli”.

La condotta del Cirrelli è denunciata da un esposto del regio vicesecreto del fondaco e dogana di Crotone. Infatti, per non pagare le tasse, il formaggio è stato imbarcato, dichiarando falsamente che serviva per le regie galere. Inoltre il Cirrelli ha contravvenuto agli ordini della Regia Camera, che proibiscono a tutti gli ufficiali, addetti alla dogana e al fondaco, di poter negoziare, vendere e comprare.[xix]

Sempre il Cirrelli alcuni anni dopo è oggetto di un’altra protesta, che vede da una parte Leonardo di Cola, che si dichiara procuratore del barone Di Lieto, e dall’altra il vicesecreto del regio fondaco e dogana di Crotone, Salvatore Messina. Il Di Cola vuole caricare 200 cantari di formaggio, asserendo che il De Lieto possiede nei magazzini della città di Crotone, sulla tartana del patrone Andrea Gargiulio, che è ancorata al porto, per condurli a Napoli. Il vicesecreto esige il mandato del portolano ed il pagamento dello ius del peso a cantaro, ed inoltre afferma che il Di Cola froda, in quanto il vero negoziante ed esportatore del formaggio è il notaio Silvestro Cirrelli. Quest’ultimo è anche sostituto credenziere del regio fondaco e dogana di Crotone e come tale non può fare tale negozio. A dimostrazione che il Di Cola è solo un prestanome, c’è la protesta del patrone Andrea Gargiulo contro il Cirrelli, motivata dal fatto che quest’ultimo tarda ad imbarcare il formaggio.[xx]

Altre volte i nobili, speculando su privilegi, che li esentano dai pagamenti fiscali, commercializzano ingenti quantitativi di formaggio, spesso proveniente da mandrie di altri proprietari, imbarcandoli per Napoli ed utilizzando a tale scopo false dichiarazioni, sia sulla provenienza del prodotto che sulla sua destinazione. È il caso del nobile Domenico Suriano di Domenico. Il Suriano, in virtù di una provvigione della Regia Camera della Sommaria e del mandato del regio secreto e mastro portolano di Crotone, fa caricare sopra la tartana del patrone Mattia di Lauro, cantara 41 e rotola 80 di formaggio, dichiarando che lo fa per conto proprio, per condurlo a Napoli. Il formaggio è imbarcato “franco di tutti i diritti, come privilegiato crotonese”, ma la merce deve partire senza la firma ed il sigillo del sostituto cassiere, nonostante le proteste del nobile, che dichiara che il caricamento avviene “per conto suo proprio e come sua robba propria”, come risulta dalle polizze di carico e dagli atti di vendita, fatti in Napoli, di questa e di altre quantità di formaggio.[xxi]

Spesso le frodi sono commesse dai patroni delle navi, i quali noleggiati approfittano del viaggio per trasportare merci per proprio conto. Il 20 maggio 1757 a Napoli il patrone Pasquale di Costanzo noleggia la sua marticana al pubblico negoziante Francesco Maria Boraggine. Con essa egli si recherà nella marina di Cirò dove imbarcherà i 1000 tomoli di grano, che gli consegnerà Tommaso Russo, fattore generale del Principe di Tarsia, per portarli direttamente a Napoli.

Il 24 giugno il Costanzo arriva a Cirò, dove cerca di imbarcare 50 tomoli di grano in meno della quantità contrattata, ma messo alle strette è costretto a prendere tutto il carico. Il giorno dopo fa vela ma, invece di andare direttamente a Napoli, si dirige su Crotone. Prima di attraccare a questo porto, con la scusa che nel bastimento entra dell’acqua, butta a mare parte del grano. Arrivato a Crotone, fa sbarcare un passeggero, che aveva imbarcato a Cirò, ma poiché costui scende a terra prima che il patrone avesse ricevuto la “prattica” dai deputati di salute, il patrone è imprigionato nel castello. L’imprevisto mette in luce la frode. Il patrone, infatti, voleva imbarcare per suo conto formaggio e grano, che doveva consegnargli il nobile crotonese Raffaele Suriano, per portarli al mercante napoletano Michele Pesce.[xxii]

 

Furti e liti

I vescovi godevano fin dal Medioevo del diritto di decima sul formaggio e sugli agnelli, prodotti per tutto il tempo che le mandrie pascolavano sui terreni facenti parte della diocesi.[xxiii] Prestazioni in formaggio fin dall’antichità erano dovute dai fidatori delle mandrie ai castellani, per la sorveglianza che esercitavano nelle campagne, ai feudatari del luogo per il diritto di finaita, cioè per la fida sugli animali forestieri, ed ai baiuli.[xxiv] Tali servitù furono causa di innumerevoli liti, che si prolungavano ancora nel Settecento.

Ricordiamo tra tutte quella che vide di fronte il feudatario ed il vescovo di Strongoli. Il feudatario di Strongoli non riconosceva al vescovo della città, Domenico Morelli, il diritto di esigere le decime sui corsi feudali Virga Aurea, Santo Mauro, Serpito e Zuccaleo.

Il nobile crotonese Raffaele Suriano affittò per uso pascolo dai principi di Strongoli Ferdinando e Lucrezia Pignatelli i due corsi di Serpito e Santo Mauro per le sue greggi. I capimandra delle pecore del Suriano, Francesco Tancredi e Francesco Gatto, entrambi di Pietrafitta, rifiutarono perciò di pagare le decime all’economo del vescovo, il canonico Giovanni Capozza. Quest’ultimo si rivolse allora al governatore di Strongoli, Pascale Vetere, il quale inviò il mastrogiurato con dieci armati che, giunti a Serpito, si presero con la forza 68 agnelli e 36 forme di formaggio per il diritto di decima ed altri 2 agnelli, 4 forme di formaggio e 24 ricotte per la loro giornata. Pochi giorni dopo gli armati ritornarono nello stesso luogo e sempre per il diritto di decima e si presero altre 51 forme di formaggio. Andarono poi a Santo Mauro e si presero 42 pezze di formaggio e 20 ricotte, alle quali aggiunsero 2 agnelli, 4 pezze di formaggio, 24 ricotte e carlini cinque per le loro giornate.[xxv]

Il formaggio in attesa di essere imbarcato veniva conservato nei magazzini. Essi, per la maggior parte, erano situati fuori la porta della città. Nonostante la vigilanza di magazzinieri e guardiani a volte, per trascuratezza o complicità, erano visitati dai ladri. Nel gennaio 1721 i marinai della tartana del patrone Carlo Cafiero sono avvisati dagli ufficiali della dogana, che dal magazzino di Leonardo Rizzuto sono state rubate 69 pezze di formaggio. Se il ladro li avesse contattati, essi dovevano pattuire la compra e nello stesso tempo avvisarli. La cosa avvenne. Il ladro, un forestiero di Reggio, ed i marinai si accordarono e si diressero per mare con una barca verso la marina detta del “Pozzo di Don Cesare”, luogo dove era nascosta la refurtiva. Contemporaneamente i “famegli” della Regia Dogana si nascondevano nelle vicinanze, per tendere l’agguato. Accortosi della trappola, il ladro si gettò in mare per fuggire ma i marinai, con l’aiuto dell’equipaggio di un’altra tartana, lo catturarono e lo consegnarono agli ufficiali della dogana. Questi prima si fecero dare il formaggio e poi lo consegnarono ai “famegli” della Regia Corte.[xxvi]

 

Tipo, qualità, commercio

Nel Settecento i tipi di formaggio presenti a Crotone sono: provole grasse e grosse, cascio pecorino di due pezze l’una e d’una pezza l’una, ricotte fresche, ricotte salate, raschi e casi cavalli.

All’inizio di febbraio del 1759 Gio. Battista Campagna, incaricato da Bruno Piterà, agente generale del principe della Rocca, stipula in Crotone un contratto di vendita con il mercante Gregorio Cimino. Egli si impegna a nome del Piterà a vendergli il formaggio, che verrà prodotto dalle tre mandrie di pecore del principe, che pascolano nel territorio di Cutro e nelle vicinanze.

Tra i patti e le condizioni concordate vi è in primo luogo che il formaggio dovrà essere “d’ogni bontà, e qualità, non rotto, non buffato, non crepato, ma sano, et intiero, e che il latte sia rotto tenerello, e di mescolo, e quaglio, e colla solita vampata, e di peso di libre cinque, e meza a pezza”. Inoltre tutto il formaggio prodotto dalle tre mandrie dal giorno della stipula fino al 21 giugno, giorno in cui si spianterà il caccavo per salire in Sila, dovrà essere consegnato in Crotone al Cimino, il quale darà anche ordine ai curatoli delle mandrie di confezionare il formaggio “di quella grandezza, et fiscelle”, come meglio gradirà. Il compratore pagherà il formaggio a grana dodici la pezza, consegnando subito come caparra cinquecento ducati e poi trecento ducati, il primo di marzo, il primo di aprile ed il primo di maggio, saldando ciò che resta il primo di giugno.[xxvii]

Per quanto riguarda la preparazione del formaggio pecorino Giovanni Battista Mesuraca di Aprigliano, da più anni residente a Crotone, e Giovanni Domenico Cimino di Crotone, “pubblici salatori e conservatori di formaggi”, dichiararono davanti al notaio Pelio Tirioli di Crotone che per ciascuna forma di formaggio del peso di libre cinque e mezo a pezza, ci voleva la spesa di quattro cavalli di sale di monte per uscire di sale e che questa cura durava circa quattro mesi”.[xxviii]

Poiché il prodotto con il passare del tempo era soggetto a diminuire di peso ed a guastarsi, spesso coloro che lo avevano in deposito, cercavano di tutelarsi. Nei primi giorni di settembre del 1720 davanti al notaio di Crotone Pelio Tirioli, Mirtillo Barricellis, come corrispondente dell’amico Domenico Viva, orefice e mercante di Napoli, protesta contro Marco Codispoti di Crotone, corrispondente del mercante Nicola Cavasino di Napoli.

Il Barricellis afferma che il Viva ha venduto al Cavasino 8000 forme di formaggio, cioè “caso grosso di due pezze l’una numero mille e quattrocento, che ridotte in pezze ordinarie sommano pezze numero due mila ottocento et altre pezze cinque mila e duecento di caso piccolo d’una pezza l’una”. La consegna deve essere fatta a Crotone dal Barricellis al Codispoti ma, arrivato il giorno fissato, il Codispoti rifiuta di ricevere la merce. Per tutelarsi del peso minore che il formaggio potrà avere con il passare del tempo e per la possibilità che il formaggio si guasti, il Barricellis fa fare da Domenico Giardino, Titta Misuraca e Giuseppe Pagano, esperti del mestiere, uno scandaglio dove essi certificano che “del caso grosso di due pezze l’una per ogni venticinque pezze sono riusciti rotola settanta otto franche di tara per una sola volta di soli pezze venti cinque detto scandaglio, e così ancora per altre mille pezze di caso piccolo sono riusciti rotola cento quaranta per una pesata di pezze cento, e per l’altre pezze piccole numero quattro mila per una sola pisata di pezze cento, sono riusciti cantara uno e mezza, che calcolati alla detta raggione come sopra ascendono al numero di cantara cento e venti, e rotola sessanta otto”.[xxix]

 

Proprietari, lavoratori e mercanti

Un indicatore dell’importanza assunta da questo prodotto nella città di Crotone a metà Settecento è dato dai numerosi “casolieri” e “salatori di cascio” residenti in città. Tra i primi ricordiamo Francesco Nicoletta, Felice Mesoraca, Nicola Varano e Diego Mirielli, tra i secondi Giuseppe Morello, Domenico Ubriaco, Giuseppe Mesuraca, Ippolito Mesuraca, Ignazio Costantino ed il figlio Francesco Antonio.

La produzione e il commercio è saldamente nelle mani dei nobili, che oltre a godere di privilegi, che facilitano l’esportazione, controllano il porto, i magazzini, i capitali ed i terreni. Essi hanno quasi l’esclusivo possesso degli armenti. Bernardino Suriano, Francesco Cesare Berlingieri, Francesco Sculco, Francesco Lucifero, Giuseppe Antonio Oliverio, Pietro Zurlo, Fabrizio Suriano, Francesco Gallucci, Gregorio Montalcini e Mirtillo Barricellis, da soli possiedono circa 20.000 pecore e 1000 vacche, cioè tutte le pecore e più della metà delle vacche possedute da tutti gli abitanti di Crotone.[xxx]

Personale specializzato nella preparazione e nella conservazione del prodotto, proveniente dai casali silani (Aprigliano, Pietrafitta, ecc.) e commercianti dell’area napoletana si insediano in città.

Domenico Aniello Farina, originario di Nocera dei Pagani, costruisce il suo palazzo a Crotone, dove “esercita la mercatura, comprando grani e formaggi per conto dei mercadanti della città di Napoli”.

Francesco Guarracino di Sorrento apre la sua bottega di merci a Crotone. Egli il 14 luglio 1757 stipula una convenzione con il patrone Carmine Ruggiero di Vico Equense, impegnandosi a vendergli, al prezzo di ducati undici e grana venti il cantaro, 2700 forme di formaggio pecorino “d’una, tre, e due per ciascuna forma di detto genere, col vocabbulo volgarmente detto, una conta tutto, d’una partita”. Il formaggio che è conservato in un magazzino della città sarà consegnato al Ruggiero, o chi per lui, entro settembre nel lido del porto di Napoli. Il venditore si accollerà le spese di imbarco e di spedizione, il compratore i diritti di dogana di Napoli e le spese per portare la merce dal lido alla detta dogana.[xxxi]

 

Variazioni di prezzo

Il formaggio veniva prodotto durante il periodo che le mandrie, lasciata la Sila, si stabilivano sui pascoli al piano. Esse scendevano sul tardo autunno e risalivano a fine primavera. Il prezzo del formaggio era quindi legato alla permanenza delle mandrie, alle condizioni climatiche ed alla quantità dell’erba. Di solito diminuiva man mano che avanzava la primavera, per poi aumentare dal momento della partenza delle mandrie verso i pascoli della Sila fino al loro nuovo arrivo al piano. All’inizio del Settecento il prezzo di una pezza di formaggio pecorino poteva variare dai 10 ai 16 grana, un paio di casi cavalli dai 20 ai 33 grana ed un rasco da 8 a 12 grana.[xxxii]

Il prezzo del formaggio poteva essere a pezza o a cantaro. La produzione del formaggio risentiva delle annate. Alla fine di maggio del 1761 Ippolito Mesuraca di Crotone, magazzeniero seu casoliero, ricevitore, guidatore e conservatore dei formaggi del possidente Pietro Zurlo, affermava che le greggi di Bonaventura Barbiero e quelle di Teresa de Bonis, entrambi di Pietrafitta, avevano prodotto meno della metà del formaggio dell’anno precedente, nonostante che esse avessero pascolato sullo stesso luogo e per lo stesso tempo, cioè “da che piantò il caccavo sino che spiantò quello per andarsine nella Sila”. Ciò era dovuto alla abbondante neve caduta in gennaio ed al freddo.

Lo stesso affermava Domenico Rodrigues, negoziante di Crotone, che testimoniò che il gregge di Giuseppe Le Pera d’Aprigliano aveva prodotto meno della metà del prodotto dell’anno precedente. Infatti a causa della nevicata del gennaio 1761 il Le Pera aveva perso 250 pecore grosse, 28 figliate e stirpe e 440 agnelli, e le pecore sopravvissute rimasero così “patite in forma che nella staggione della primavera non ebbero luogo a dare il loro latte”,[xxxiii] anche per la siccità che rese scarsa l’erba. Il prezzo del formaggio lievitò così a 24 grana la forma.[xxxiv]

Prezzi elevati sono segnalati anche negli anni successivi. Il 20 ottobre 1772 Domenico Sibilia, originario di Napoli, ma da più anni residente a Crotone, stipula un contratto di acquisto di formaggio dal primicerio Diego Zurlo. Egli si obbliga a pagare allo Zurlo ducati 186, grana 66 e cavalli 8 ad iniziare dal giorno della stipula fino a Pasqua 1773. Il versamento riguarda il prezzo convenuto di 800 pezze di formaggio pecorino in piccolo, “curato intieramente di tutta bontà, qualità, perfezzione e senza scarto della prossima passata staggione di questo corrente anno 1772, venduto a credenza oggi sud.o giorno dal sud.o primicerio D. Diego la ragione di grana 23 e cavalli 4 la pezza a detto compratore”.[xxxv]

 

Gioco con il formaggio

In un processo istruito dalla curia vescovile di Isola nell’anno 1786, avente per oggetto il comportamento del sacerdote Marinelli, vi è una testimonianza che ci fa conoscere la popolarità che aveva ad Isola il gioco con il formaggio. Così depone un testimone: “… abbiamo conchiuso di fare un tal giuoco, una partita a sei, ed avendo di comune comprato due forme di d.o cacio, ci siamo portati di unita con il sacerdote Marinelli nel luogo solito dove si gioca, e proprio avanti la casa dove abita Giuseppe Aspro, e così abbiamo per due volte pubblicamente giocato … Ho veduto menare i colpi ed alla fine dopo aver fatto il salvo restò perditore”.[xxxvi]

 

N.b. Le foto dell’autore documentano la lavorazione tradizione del pecorino e della ricotta, secondo la tecnica usata nel Crotonese durante gli anni Settanta.

 

Misure di capacità. Cantaro = Kg. 89 = 100 rotoli; Libbra = gr. 320,75

Monete. 1 ducato = 5 tari = 100 grana = 10 carlini

 

Note

[i] Il monastero di Santa Chiara di Crotone affitta a pascolo a Gio. Battista Barricellis la gabella di Santa Chiara delle Ficazzane, ottenendo in pagamento 500 pezze di formaggio. AVC, Platea del monastero di S. Chiara, 1703/1704, s.c.

[ii] ASCZ, Busta 108, anno 1614, ff. 193-211.

[iii] ASN, Dip. Som. 315/10, f. 33.

[iv] Prezzi di alcuni generi alimentari: 1 rotulo di carne di vitella 8 grana, di pesce 5 grana, di mele 20 grana, di salsicce 14 grana, 1 gallina o un porcellino 20 grana, una nenzanella di vino bianco 15 grana, 1 cannata d’olio 10 grana ecc. ASN, Conti comunali di Melissa, 1561/1562, fasc. 199/5, ff. 5 sgg.

[v] Nel giugno 1600 una “pecza di caso” vale 15 grana. ASCZ, Spese per metire la masaria, 1600, Carte di S. Chiara di Cotrone, Cart. 26, n. 1784/96.

[vi] Dal giugno 1703 a quello successivo, le clarisse di Crotone acquistarono 45 paia di casicavalli, 40 raschi e 300 pezze di pecorino. AVC, Platea del monastero di S. Chiara, 1703/1704, s.c.

[vii] Nel novembre 1651 le riserve del castello consistevano: Grano forte bianco tt.a 820; Fave tt.a 102; Sarde salate barili 8; Sale di pietra cantara 6 e rotola 29; Carne salata di porco cantara 14 e rotola 27; olio lampante militra 297; caso pecorino paesano pezze n. 1066, mosto salme 120; vino vecchio salme 30; aceto salme 20. ASCZ, Busta 229, anno 1651, ff. 101-102.

[viii] Un apprezzo della città di Santa Severina, in Siberene, Cronaca del Passato per la Diocesi di Santa Severina, p. 142.

[ix] ASCZ, Busta 49, anno 1591, ff. 72-76.

[x] ASCZ, Busta 117, anno 1623, ff. 51–52.

[xi] AVC, Lettera del Capitolo contro il lavoro festivo, 1691, s.c.

[xii] ASCZ, Busta 334, anno 1679, ff. 309-310.

[xiii] Marino F., Lettere familiari, 1989, p. 110.

[xiv] ASCZ, Busta 337, anno 1696, f. 88.

[xv] ASCZ, Busta 611, anno 1712, f. 11.

[xvi] Dal conto di amministrazione di Domenico Suriano per la tutela di Anna Suriano, figlia del fu Annibale. Entrate del 1715: “Dalla mandra del Sig. Dom.co Andriotta con le tare pezze 700, dalla mandra di Stefano La Vigna pezze n. 3200, dalla mandra propria di Timpirosso pezze n. 5100, dalla mandra di Tangari pezze n. 280, dalla mandra di Nao pezze 200, dalla mandra propria di Domenico Stezza n. 4450, In tutto pezze n. 13930”. ASCZ, Busta 659, anno 1716, f. 39/3.

[xvii] ASCZ, Busta 661, anno 1721, ff. 257–258.

[xviii] Il nolo che si paga dai mercanti napoletani è di carlini 3 e mezzo il cantaro. ASCZ, Busta 663, anno 1730, ff. 90-92.

[xix] ASCZ, Busta 672, anno 1714, ff. 2-4.

[xx] ASCZ, Busta 707, anno 1718, ff. 25–28.

[xxi] ASCZ, Busta 612, anno 1716, ff. 137–138.

[xxii] ASCZ, Busta 859, anno 1757, ff. 229-231.

[xxiii] Di vari privilegi, in Siberene, Cronaca del Passato per la Diocesi di Santa Severina, p. 238.

[xxiv] Diritti feudali a Santaseverina, in Siberene, Cronaca del Passato per la Diocesi di Santa Severina, p. 562.

[xxv] ASCZ, Busta 855, anno 1751, ff. 132-134; Busta 1124, anno 1753, ff. 59-61; ASV, Rel. Lim. Strongulen., 1753, 1759.

[xxvi] ASCZ, Busta 661, anno 1721, ff. 12v-13r.

[xxvii] ASCZ, Busta 1267, anno 1759, ff. 45–48.

[xxviii] ASCZ, Busta 663, anno 1729, f. 54v

[xxix] ASCZ, Busta 660, anno 1720, ff. 244-245.

[xxx] ASN, Catasto Onciario Cotrone, 1743.

[xxxi] ASCZ, Busta 1126, anno 1757, ff. 154-155.

[xxxii] AVC, Platee del monastero di Santa Chiara, 1703/1704, 1707/1708, s.c.

[xxxiii] Per tutto il tempo che stette alla marina, il gregge di Bonaventura Barbiero produsse nel 1760 4000 forme di formaggio, l’anno dopo ne produsse la metà. Il gregge di Teresa de Bonis nel 1760 produsse 2100 forme di formaggio, l’anno dopo 435, quello di Giuseppe Le Pera dalle 3000 scese a 1450 (ASCZ, Busta 1268, anno 1761, ff. 71-76). Annate con alta mortalità di bestiame furono quelle del 1722 e del 1748. Nel 1748 in un gregge di 2100 pecore, che pascolavano sul territorio di Torrotio, ne morirono 700. ASCZ, Busta 661, anno 1721, f. 162v; Busta 1124, anno 1752, f. 36v.

[xxxiv] Moio G. B. – Susanna G., Diario di quanto successe in Catanzaro dal 1710 al 1769, Effe Emme Chiaravalle C. 1977, p. 184.

[xxxv] ASCZ, Busta 1665, anno 1772, f. 1.

[xxxvi] AVC, Cart. 142.


Creato il 13 Marzo 2015. Ultima modifica: 12 Novembre 2021.

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  1. Isabella Biafora

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