Verzino alla metà del Settecento

Paesaggio nei dintorni di Verzino (KR).

La realtà antica di Verzino ci fa intravvedere all’origine, l’esistenza della chiesa arcipretale di Santa Maria Assunta, soggetta al vescovo di Cerenzia, situata sul ciglio di uno sperone roccioso, circondata da dirupi, che domina un abitato formato da coloni sviluppatosi successivamente, e sul quale essa esercita sia il potere religioso che quello terreno. Coloro che andarono a popolare Verzino ebbero il luogo per costruire le case e per coltivare le vigne, pagando un censo annuo. Sacerdoti e monaci col tempo, estesero il loro possesso con i lasciti e col peso di celebrare messe per l’anima del donatore. Avevano concesso parte dei beni con contratti di enfiteusi agli abitanti; avevano anche fatto prestiti, gravando a volte gli stessi beni concessi.

Se il potere religioso si concentrò nell’abitato, quello feudale si sviluppò e dominò le campagne e tutta l’attività economica. Alla metà del Settecento[i] quasi tutti gli abitanti erano gravati da censi enfiteutici annui, cioè perpetui, e bollari, cioè redimibili; essi erano infissi su quasi tutte le vigne, le chiuse, i terreni, i giardini, le case, le grotte, gli orti, ecc. Coloro che esigevano l’annua prestazione erano gli enti ecclesiastici, il feudatario ed i nobili, i quali avevano concesso terreni, case, ecc., col contratto di miglioramento, previo il pagamento di un censo annuo certo e prestabilito, e dato ai braccianti ed ai massari prestiti di capitale a tassi elevati (8-10%).

Si tratta spesso di terreni marginali, dove sovente la rendita è assorbita dal pagamento del censo. Tra i maggiori titolari troviamo la mensa vescovile di Cariati e Cerenzia, che riscuote ben 40 censi enfiteutici, segue il convento di S. Domenico che, tra quelli enfiteutici e bollari, esige 39 censi (di cui 8 bollari), quindi la chiesa di Santa Maria delle Grazie (35), poi la parrocchia di Santa Maria Assunta (27), la cappella del SS.mo Sacramento (25), la cappella di S. Giacomo (12), il Clero (10), la cappella di S. Marco (8), il feudatario, ed alcuni nobili.

002 L’abitato di Verzino (KR) dominato dalla mole della chiesa di Santa Maria Assunta.

L’abbazia di San Pietro

Situata in corrispondenza della viabilità, nelle vicinanze a settentrione dell’abitato di Verzino, l’abbazia ormai in decadenza nel Settecento, apparteneva alla mensa vescovile di Cariati e Cerenzia. Il vescovo faceva amministrare i suoi beni da un economo, che di solito era l’arciprete di Verzino. Furono economi l’arciprete D. Carlo Cesare Cavallo e poi Gio. Francesco Godano.[ii] Anticamente fu abitata da abati e monaci e poi successivamente, come altre piccole abbazie, fu data in commenda ad abati commendatari e vescovi. Questi spopolarono l’abbazia e si appropriarono dei beni, lasciandone solamente una piccolissima parte per il vitto dei pochi eremiti che vi rimasero.

Non abbiamo molte notizie sulla sua storia, se non quelle che ricaviamo dal catasto di Verzino del 1743 e da alcuni atti notarili. Allora l’arciprete Carlo Cesare Cavallo amministrava i beni dell’abbazia, costituiti da “una continenza di terra delli comuni chiamata territorio di San Pietro”, dell’estensione di circa ottocento tomolate fra terre libere e boscose. Su quelle terre il vescovo aveva solo il Jus arandi, e poiché dal loro affitto a semina a causa delle annate scarse e sterili, non ricavava rendite sufficienti e certe, aveva deciso di concederle con contratto di enfiteusi “ad meliorandum” a persone di Verzino. Così gran parte delle terre “che per non essersi da molti anni sementato non percepisce cosa veruna, non inclinandovi a farvi masseria per la di loro sterilità”, fu assegnata ad una cinquantina di abitanti di Verzino, i quali da terre poco produttive ed in parte in abbandono, le trasformarono in vigne, pagando ogni anno all’economo un censo annuo prefissato e certo.

Non furono concesse in enfiteusi le parti migliori, circa diciotto tomolate di terra, che il vescovo e per lui l’economo trattenne e gestì in proprio, affittandole di volta in volta. Con la trasformazione della maggior parte delle terre dell’abbazia da terre aratorie a vigne e chiuse, venne meno su di esse il jus arandi ed allo stesso tempo il jus pascolandi, cioè la possibilità di pascolo per gli abitanti di Verzino. Questa continenza di terre di San Pietro, confinava “col casaleno di S. Giovanne lo Rigano e da ivi scende a basso nel vallone che si chiama lo Canale di Gasparro ferisce al vallone di Manieri, il quale divide le terre della Corte da quelle della Chiesa perché scende alla fiumara e da questa ferisce alla possessione di Cola Francesco Giuranna e ferisce al vallone delli Canalicchi e ferisce alli penduti e seguita la via grande che va in Cosenza e al suddetto casaleno di S. Giovanne lo Rigano”. Dell’antico patrimonio fondiario, tolta la parte passata in amministrazione al vescovo di Cariati e Cerenzia, rimasero per comodo e vitto degli eremiti,[iii] che continuarono ad abitarvi, solamente “tre orticelli siti dove si dice S. Pietro ed una tomolata e mezza di terra in località le Serre.

Resti dell’abbazia di S. Pietro inglobati da costruzioni successive in località San Pietro di Verzino (foto del Comune di Verzino).

Il Casale

Il “Casale” è una Difesa appartenente all’università di Verzino; essa è composta parte da vigne, parte da terre aratorie, e parte da terreni boscosi ed incolti. Ci sono anche alcune piccole chiuse con pochi gelsi ed alberi da frutto. Pur appartenendo all’università, il feudatario vi esige quando è ad uso erbaggio, il tre per cento di assenso e la terza parte di quello che frutta.

Qui anticamente era situato l’abitato di Lucrò, a ricordo del quale rimane ancora il toponimo “Timpone della Motta” (altri toponimi presenti sono Piscilla, L’Aria di Armo, Mondizzaro, S. Basile, Trombaturo, La Cerza di Spatella, La via che si va all’Aja del Casale, L’Immaculata, La Piena dell’Acqua). L’area coltivata a vigneto è suddivisa tra una quarantina di abitanti di Verzino, quasi tutti braccianti. Dodici di questi pagano un censo enfiteutico alla camera ducale di Verzino. Molte di queste vigne, se non tutte, sono state concesse a suo tempo agli abitanti del luogo dal feudatario con contratto di enfiteusi e perciò sono gravate da un censo annuo, l’entità del censo varia da grana 2 a grana 23 per un totale di circa 100 grana, ciò indica che all’origine gli enfiteutici dovevano essere molto più numerosi, ma col tempo molte vigne erano passate di mano, incrementando il patrimonio fondiario del clero e di alcuni abitanti.

Le oltre duecento tomolate di terre aratorie col solo “jus arandi”, dove vige la rotazione di due anni di semina e tre di erbaggio, sono divise tra i nobili, il clero ed il feudatario (o per lui la regia corte). Tra i “nobili viventi” emergono i Giuranna, già presenti in Verzino al tempo degli Aragonesi.[iv] Il mag.co Giuseppe Giuranna vi possiede un casino con due camere e due bassi, una chiusa con pochi alberi di gelso “diruti” e quaranta tomolate di terre aratorie, mentre Antonio Giuranna di Verzino ma abitante a Cirò, ha quattro pezzi di terre, tra i quali una chiusa, per un totale di circa 20 tomolate. Tra i “nobili viventi” ci sono il mag.co Cesare Longo (tom. 40), il mag.co Antonio Scerra (tom. 12) e le vedove Cornelia Figoli (tom. 2) e Lucrezia Baldino (tom.3). Ben presente è il ceto ecclesiastico con l’arciprete (tom. 24), la chiesa di S. Maria delle Grazie (tom. 16), il convento di S. Domenico (tom. 10),[v] il clero (tom. 4) e le cappelle di S. Giacomo (tom. 9), di S. Antonio da Padova (tom. 3) e di S. Caterina (tom 2). Da ultimo anche il feudatario e per esso la Regia Corte possiede 22 tomolate di terra aratoria “comprate da Giglio”.

In evidenza le località “Serra della Motta” e “Casali”, in un particolare del Foglio N. 561 “S. Giovanni in Fiore” della Carta 1:50.000 dell’IGM.

Il bosco

Le terre boscose ed incolte occupano una gran parte del territorio di Verzino. Alcune di esse sono terre aratorie, non seminate per più annate, sono divenute col tempo infertili, altre sono fosse, valli, valloni, rupi, timpe e timponi scoscesi di difficile coltura, altre ancora erano chiuse, vigne, orti e uliveti, che sono stati dismessi a causa delle gelate e delle cattive annate. Ci sono poi i terreni poco fertili che non sono stati più seminati a causa della mancanza di braccia, altri seminati ma gravati da censi che assorbono la poca o nessuna rendita.

Particolarmente estesa e impenetrabile perché coperta da folti boschi è la Sullaria (Sollaria), una difesa appartenente all’università di Verzino, “che per esser boscosa ed impraticabile non si spiega la quantità delle tomolate”. I luoghi della difesa (San Salvatore, Cavallo Pastino, L’acqua delo Scino, Varco di Gio. Alfonso, San Abracate, Caria, Valle di Votro, Votro, Porta, Pietra Grobata, Timpone dell’Ogliastro, Scalzo, La Pellula, Caglianà, ecc.) pur avendo terreni dove vi è il jus arandi sono stati col tempo abbandonati, altri sterili ed incolti da tempo immemorabile, non sono mai stati toccati dall’aratro e da essi non si è mai percepito alcuna rendita.

Sullaria confinava con il territorio di Cerenzia. Possedevano terre a Sollaria alcuni enti ecclesiastici (le cappelle del SS.mo Sacramento (tom. 8), di San Michele Arcangelo (tom. 25), di San Giacomo (tom. 70), il clero (tom. 24) e la chiesa di Santa Maria delle Grazie), i nobili Cesare Longo (tom. 20 c.a), Nicolò Tebaldi, Antonio Giuranna (tom. 9) e Cornelia Figoli (tom. 15) ed il “bracciante” Domenico Girardi (tom.20). In gran parte boscoso è anche il confinante territorio di Corno, dove il feudatario, o per lui la regia corte, possedeva un comprensorio di terre di circa trenta tomolate parte aratorie e parte boscose, mentre la cappella di San Marco della famiglia Tebaldi ne possiede ben settanta tomolate “boscose e inculte”.

Sterili ed in abbandono sono anche alcune terre situate nelle Serre. Coloro che le posseggono (Domenico Jaquinta, cappella di San Giacomo, Anna Funaro, Cesare Longo, Clero), dichiarano che danno scarsa o nessuna rendita. Folte aree boschive impenetrabili e spesso scoscese sono situate lungo il corso della fiumara del Vitravo nelle località Todaro, Macchia di Vitravo, Pathione, la Manca di Gonia e le rupi di Vitravo. Altre terre boscose ed incolte sono situate qua e là nelle località Valle, Catina, L’Occhito, Mangano, Tambena, Buono, L’Abblunnato, Strangirofaro, Manieri, Bonnato, Pationa, Ponticella, Corvolino, Valla di S. Marco, le Coste delli Canalicchi, La Foresta, S. Aloe, ecc.

Paesaggio nei dintorni di Verzino (KR).

Le chiuse

Le numerose “clausure” con alberi fruttiferi sono possedute quasi tutte dal clero, dai nobili e dal feudatario che possiede una clausura con alberi fruttiferi in località Catina ed un grande giardino dell’estensione di dieci tomolate “arbustato con vigne ed alberi fruttiferi, circondato di communi” poco distante dall’abitato.

Solo qualche piccola chiusa con pochi alberi, quasi sempre trattasi di ulivi, è detenuta da massari. La realtà che traspare è spesso di abbandono e di poca resa, anche perché ciò che è prodotto non è sufficiente a pagare il censo che vi gravita. Spesso la causa è dovuta alle cattive annate, come nel caso dell’uliveto del mag.co Cesare Longo, situato vicino il fiume Vitravo, che “dopo cadute le nevi patì molto danno in dette olive”, e quello della mag.ca Cornelia Figoli, situato in località “l’occhitto” “con olive infruttuose”.

Altre volte è la vicinanza all’abitato come dichiara il mag.co Domenico Giuranna, il quale possiede una clausura “con pera, olive, celzi neri e quercie”, ma “per esser contiguo alla terra de’ frutti non percepisce cosa veruna”. Il luogo impervio e lontano dall’abitato è spesso causa di abbandono, come nel caso del mag.co Antonio Giuranna, il quale possiede una clausura “con poche quercie infruttuose”, situata presso le rupi del fiume Vitravo, e quello della cappella di San Giacomo, che possiede un piccolo terreno “con castagne boscose”.

Alcune grotte sono descritte all’interno delle clausure: tre in località “Vodile”, alcune a “Manieri” e due a “Tambena”. Qualche volta la clausura è attorniata, o si trova accanto a terre aratorie (Cucillo, Gonia, Trombaturo, Vignita). La natura del territorio di Verzino che, dalle colline si estende verso la Sila, permette la coltivazione oltre a estesi vigneti, a castagneti (Le Serre, Canale Grande, Pathione, Comuni di S. Pietro, L’Aria della Pretta, S. Vito, Calamia, Campezio, Carpineto, lo Pozzo, S. Silvestro, li Canalicchi ), gelseti (Comuni di S. Pietro, Manieri, Vignita, Fego, Vodile, Fellia, Covalicchio, giardino del convento di S. Domenico), querceti (Fellia, Gonia, Manca di Gonia, Tambena, Pathione, S. Vito, Vignita, Fego, Varco, li Canalicchi), e uliveti (Cucillo, Occhitto, San Biagio, San Basile, Fego, giardino del convento di S. Domenico). Ben presenti sono anche alberi di noce (Pathione, Canale grande, Corvolino), di “cerasa” (Corvolino), di pero (Fego, Pathione), e di fico (Fellia, Pathione, convento di S. Domenico).

Paesaggio nei dintorni di Verzino (KR).

Le vigne

Le vigne coprono un’ampia parte del territorio di Verzino. Se le terre aratorie e le chiuse sono detenute esclusivamente dai nobili e dal clero, le vigne rappresentano una degli elementi essenziali per la sopravvivenza dei bracciali. Il catasto censisce circa 250 vigne; esse sono situate nelle località “Trimigliano” (67), Le Serre (41); Lo Casale (36); Rapanà (20); Lo Saracino (18); Pititto (16); S. Pietro (13); L’Acqua del Milo (6); Corvolino (5); L’Acero (5); S. Panziano (4); Catina (2); Strangirofalo (2); S. Senatore (2); La Macchia (2); Arancirò (1), Tre Aje (1).

Tra coloro che vi esigono dei censi enfiteutici spicca il feudatario con 19 censi enfiteutici del valore ciascuno di circa 7 grana, e la mensa vescovile di Cariati con 5 censi enfiteutici del valore di circa 8 grana. All’interno ed attorno alle vigne, nove proprietari hanno terre aratorie per un totale di circa 40 tomolate (In due ne posseggono la metà: la chiesa arcipretale tt.13; il nobile Giuseppe Parise tt.e 7).

007 Verzino in un particolare della carta austriaca del Regno di Napoli Sez. 11 – Col. IX (1822-1825).

Gli animali

Il ciclo delle terre aratorie era di due anni a semina e tre a pascolo. Il pascolo degli ovini “ingrassava” le terre e ripristinandone la fertilità, le rendeva adatte alla semina. Il feudatario da solo possedeva 500 pecore, cioè la metà di tutte le pecore esistenti a Verzino, mentre il capraro Tomaso Pauletta ed il nobile Giovanni Antonio Scerra, da soli avevano i due terzi delle circa 600 capre. Gli ovini oltre a concimare le terre fornivano lana e latte, per fare formaggio e tessuti.

Il feudatario possedeva nel Senapite “un molino d’acqua, dentro il quale vi è ancora il battendiero per varcare panni di lana”. Il grano era il prodotto principale e il più ricercato. Le terre aratorie costituivano la parte migliore del territorio, esse erano quasi tutte di proprietà del clero, dei nobili e del feudatario. Piccoli pezzi appartenevano anche a massari. La coltivazione dei cereali scandiva il tempo con le varie fasi: dai contratti di affitto dei terreni, dei bovini da aratro e dei semi, stipulati dai nobili con i coltivatori, alla preparazione del terreno, all’aratura, alla semina, alla mietitura, alla raccolta, al trasporto e all’immagazzinamento.

Un continuo e faticoso impegno vedeva unita la forza degli animali da lavoro e da trasporto, soprattutto quella fornita dai bovini, e quella dei bracciali. Se i buoi e le vacche da aratro costituivano l’elemento fondamentale per condurre a buon esito tutto il processo produttivo, dall’altra i bracciali indebitati con il loro lavoro permettevano ai nobili ed al clero di accumulare e vendere. La parte maggiore del grano prendeva la via per Crotone e per Napoli, mentre una parte era macinata nel mulino del feudatario, per fare il pane per gli abitanti.

Come per le terre aratorie anche per quanto riguarda la proprietà dei bovini, essa apparteneva ai nobili e al clero (l’arciprete esigeva anche la decima sui buoi e sugli abitanti). In Verzino sono censiti 51 buoi, ma nove nobili da soli ne possedevano più della metà (33); il resto era suddiviso tra i dieci massari, che in tutto ne detenevano 14. Anche per le vacche valeva lo stesso discorso; delle sessanta vacche il solo sacerdote Saverio Cavallo ne aveva un terzo. Accanto ai bovini la cui forza era essenziale per la coltivazione dei cereali, anche gli equini occupavano un posto importante nell’economia di Verzino. I sette cavalli di sella e i numerosi puledri appartenevano quasi tutti ai nobili, che ne facevano uso per evidenziare il loro prestigio, per viaggiare e andare a caccia. Il duca Domenico Cortese, figlio del duca Leonardo, aveva due “polledri grossi” e numerosi “polledri piccoli”, e riceveva ogni quattro anni dal fratello, il duca Nicolò, “un polledro lasciatoli dal padre”. Al cavallo, simbolo di potere e ricchezza, si associava la folta presenza dell’asino. Un animale docile e da lavoro adatto al trasporto di uomini e di merci, specie nei sentieri stretti ed impervi. Il somaro assieme alla casa, alla vigna ed al maiale, permette alla famiglia del bracciale di spostarsi, di alimentarsi e di sopravvivere. Dei quaranta somari ben 17 appartengono a bracciali e 8 a massari.

La presenza di ampie zone dove predominava l’incolto ed il bosco, che a volte si insinuavano anche nelle terre aratorie e nelle chiuse, favoriva l’allevamento suino. I maiali costituivano per eccellenza la fonte principale di carne. L’esistenza di un paesaggio dove il bosco, ed in particolare i querceti, occupano una vasta parte, favoriva il loro allevamento e il loro pascolo libero. L’importanza del maiale nell’economia verzinese è data dalla presenza di ben 44 “scruffe”, 10 frisinghe, 4 verri, 16 porcastri e numerosissimi maialini. Come per le terre, così per gli animali, nobili e clero si spartivano la proprietà: Il nobile Domenico Antonio Scerra da solo possedeva 4 bovi, 1 bove d’aratro, 2 giovenchi selvaggi, 1 vacca d’aratro, 2 vacche d’armento, 2 vacche figliate d’armento, 2 vitellazzi, 1 mula d’imbasto, 1 somara, 2 giumente d’armento, 20 scruffe seu troie, 10 frisinghe, 4 verri, 16 porcastri, numerosi porci grossi, 60 pecore, 10 allevi, e 190 capre grosse, mentre il sacerdote Saverio Cavallo aveva 9 vacche d’armento, 12 vacche stirpe, numerosi vitelli, 4 bovi d’aratro, 130 pecore, 64 capre, 1 mula e 1 giumenta. La carne del maiale, il pane ed il vino, costituivano gli elementi principali del vitto delle famiglie dei bracciali. È da segnalare anche la presenza di una discreta produzione di miele: L’ortolano Giuseppe Greco possedeva trenta alveari.

Verzino (KR), esemplare di quercia ai margini del coltivato.

Gli abitanti

Il catasto onciario del 1743 documenta una realtà sociale, dove l’antica economia silvo-pastorale si intreccia con quella granaria. Il lavoro degli abitanti evidenzia un paese diviso in strati sociali. Una parte è costituita da persone addette alla custodia e all’allevamento di animali: i bovari (4), i giumentari (2), i caprari (6), i porcari (6), i pecorari (2) ed i mulattieri (6); un’altra più numerosa si dedica alla coltivazione dei cereali (99 Bracciali, 16 massari), vi è poi una piccola parte che svolge attività cittadine (3 sartori, 4 calzolari, 1 forgiaro, 2 barbieri, 1 pignataro, 1 polveraro, 1 macellaro, 3 cuochi, 4 servitori, 1 famiglio, 2 ortolani, 1 sacristano, 1 barrigello). Su tutti vi è la classe dominante costituita da chi “vive civilmente /nobili vivente” (10), e dai sacerdoti e frati (22 + 4 frati). Un gruppo a sé è costituito dai marginali a causa della malattia o per l’età, costituito da 18 Invalidi alla fatica/invalidi/decrepiti. Vi sono poi dieci scolari, dodici garzoni e sei serve: Francesca e Antonia Scalise di Savelli, Antonia Funaro, Diana D’Angelo, Anna Figoli, Giovanna Cristiana. Questi ultimi sono al servizio o fanno parte delle famiglie dei nobili: Antonio Cavallo, Cesare Longo, Domenico Cortese, Domenico Antonio Scerra, Michel’Angelo Magno, Giuseppe Parise, ecc.

Clero e nobili gestiscono un’economia basata sull’accaparramento dei cereali e sulla esportazione verso il mercato crotonese e napoletano. Un posto importante occupa l’arciprete curato sotto il titolo di santa Maria Assunta che, oltre alle entrate provenienti dall’affitto dei fondi e dai censi, gode diritti che da sempre la chiesa arcipretale di Verzino possiede. Infatti egli “esigge per ogni paio di bovi tumolo uno di grano e mezo tomolo d’orzo che numeratoli paja de Bovi vi sogliono ascendere in ogn’anno a circa tumolate quaranta quattro di grano e ventidue d’orzo tutta volta sanno benissimo che di d(ett)a decima in genere ne restano de partite inesigibili in ogn’anno da circa tumola dieci di grano ed altritanti in orzo; onde detta decima può dare di rendita secondo prudenzialmente hanno considerato tumola trentaquattro grano bianco rasi e tumola dodeci orzo; si che valutato il detto grano in tumula cento cinquanta ed ottavi cinque in una  tra li dette tande decime alla ragione di carlini otto il tomolo prezzo comune sono ducati cento venti e grana cinquanta annui e li suddetti tumole dodeci orzo valutati a ragione di carlini quattro il tumolo sono ducati quattro e grana ottanta=Più esigge dalle decime personali delle persone che non tengono bovi annui circa ducati dieci = (…) Percepisce dall’incerti cioe diritti matrimoniali e jussi de defonti annui circa ducati otto.”

Non è da meno il feudatario, il quale possiede difese di natura feudale (parte di Frea, Il Prato, La Fratta), e numerose “clausure alborate” di natura burgensatica (Castranea, S. Vito, Campezia, Catina, Mangano); tutti estesi fondi chiusi al godimento degli abitanti. Egli inoltre ha la mastrodattia delle cause civili e criminali, la bagliva che comprende anche la possibilità di esigere il terratico sulle terre all’interno delle difese universali, il diritto di dogana sulle merci che si vendono e si acquistano, tanto dagli abitanti che dai forestieri, il diritto di peso e misura, la catapania, il ius delle licenze delle armi, ecc. Esige dall’università sopra le difese universali quando sono ad uso erbaggio il tre per cento di assenso e la terza parte di quello che producono, quando si seminano. Possiede due mulini, censi enfiteutici e bollari, terreni aratori, giardini, orti, palazzi, case, animali, ecc.

Verzinesi durante l’occupazione delle terre della “Cona” negli anni Cinquanta (foto del Comune di Verzino).

I segni del tempo

Ciò che l’uomo costruisce e quello che abbandona danno il senso della attività umana. Il progresso ed il regresso si associano nel cambiamento e concorrono alla trasformazione economica e sociale di un territorio. Il catasto onciario e l’apprezzo del Pollio della metà del Settecento, evidenziano una realtà economica e sociale che, con il trascorrere del tempo, lentamente ma continuamente si è impoverita.

I segni di una economia rurale in crisi sono evidenziati dalla presenza dei numerosi edifici diruti e abbandonati, che mostrano il declino economico di Verzino. Essi sono situati all’interno e vicino all’abitato nelle località San Nicola (1), presso Porta Lauteri (1), in Piazza (3), presso la Porta della Marina (1), e altri otto in luoghi non specificati dell’abitato, ma anche all’esterno, come il “luogo di molino di acqua diruto” del nobile Antonio Scerra. I casalini abbandonati ci dicono il lungo perdurare di una situazione economica sfavorevole che, per lungo tempo, tranne brevi periodi, ha investito l’intera società verzinese. Il palazzo baronale come “oggi è ridotto, apporta ad ognuno, che lo guarda della tristizia”, il seminario da tempo dismesso è “tutto diruto” ed il suo piccolo orto vicino è “dismesso”.

La rendita religiosa sui fondi, tagliata dal fisco e dal diminuire del tasso di interesse sui capitali, ha messo in crisi le chiese e le cappelle. Anche all’interno dell’abitato sono abbandonate per mancanza di rendite sufficienti: la chiesa di San Basile che è “diruta e profanata”, la cappella di Santa Catarina è “diruta”, la cappella della SS.ma Trinità “che sta incontro il palazzo baronale”, è anch’essa diruta, San Rocco “è pur diruta”; solo la cappella di San Biase, poiché era rovinata, si sta riedificando.

La stessa fontana, che è situata nel mezzo del Campo, è anch’essa inservibile. L’incolto propagatosi dalle terre marginali verso le terre aratorie, ha portato all’abbandono delle cappelle di San Silvestro, di S. Sebastiano e di San Vito, che sono dirute e profanate. Il perdurare delle annate scarse e aride, che tranne previ periodi aveva caratterizzato le campagne, aveva dapprima fatto fallire i coloni e successivamente i nobili.

Di questa situazione ne aveva approfittato il feudatario (Nicolò Cortese juniore ribelle contro Carlo III, si rese fellone subendo nel 1746 la confisca del feudo) per allargare i suoi beni burgensatici. Approfittando dell’indebitamento dell’università verso il fisco regio, egli aveva concesso un prestito di ducati cinquecento, poiché non era stato saldato, aveva ottenuto “loco pignoris” la difesa universale “le Pastinelle”; sempre dalla università esige ducati centoquarantotto per “partite fiscalari”, che furono comprate da Giuseppe Cortese, zio del duca Nicolò. Egli acquistò da Gigli un comprensorio di terre aratorie di tomolate ventidue in località Il Casale, dal sacerdote Tomaso Rotondo circa tomolate dodici di terre, parte aratorie e parte boscose in località Camastrea, e dai Gallucci di Crotone ottanta tomolate di terre aratorie col jus pascolandi ed arandi dentro il corpo feudale di Frea.

Foto esposta in una mostra fotografica a Verzino nell’estate del 2022.

Il mercante Domenico de Laurentis di Verzino

Domenico Laurentis di Verzino si accasò a Crotone. Egli abitò assieme al fratello sacerdote Michelangelo nel palazzo in parrocchia di Santa Veneranda e Anastasia. Già alla fine del Seicento egli risulta proprietario di alcune terre a Maccuditi e di una vigna dotale. Pubblico mercante di grano e proprietario di magazzini, la regia corte di Crotone nell’aprile 1701 gli sequestra ad istanza di creditori alcune quantità di grano e majorche, che successivamente gli sono dissequestrate.

Corrispondente a Crotone del barone e mercante napoletano Ignazio Barretta, è incaricato di ammassare grandi quantità di grano che poi imbarca per Napoli, per rifornire l’esercito. Il 24 febbraio 1718 Domenico de Laurentis di Verzino, pubblico negoziante e sostituto provveditore delle truppe Cesaree in Crotone, ritira un memoriale, che aveva fatto contro il castellano di Crotone. Forte dell’appoggio del potente partitario della regia corte Ignazio Barretta, egli è addetto in questi anni ad assicurare il vettovagliamento militare e ad alimentare la grande speculazione. Boicotta i compratori locali. Prima alla semina e poi alla mietitura, obbliga i coloni ed i massari del Marchesato a consegnar tutto il raccolto “alla voce di questa città, nel dì della Maddalena 22 di luglio”.

Cosmo Mayne di Saragozza, proprietario della mastrodattia di Crotone, nel maggio 1717 è assalito davanti al monastero di S. Chiara e ferito da due pugnalate da Giuseppe Spanò, creato di Domenico de Laurentis, che è anche il mandante del delitto, in seguito la denuncia del mastrodatti contro di lui è ritirata. Alcuni bordonari dichiarano di essere andati negli anni 1716 e 1717 per conto del Laurentis a Cutro, dove Domenico Oliverio ha fatto caricare nelle loro condotte grano, proveniente da una fossa, costituito da “due parti di veccia nera et una di grano”. Nei magazzini di Crotone è stato poi mescolato con altro migliore.

Domenico de Laurentis, corrispondente di Ignazio Berretta, deve consegnare grandi quantità di grano per rifornire le truppe. D’inverno obbliga i massari con una caparra a consegnargli al raccolto stabilite quantità di grano, da saldare secondo la voce il 22 luglio nel dì della Maddalena. Per la carestia i massari “fanno li sordi” e non consegnano il grano. Le numerose tartane sono ferme al porto mentre ci sono due vascelli inglesi pronti per la scorta. A fine giugno il Laurentis anticipa il denaro, per pagare i mietitori e per altre spese della masseria, ai coloni che poi gli consegneranno tutto il grano. Domenico de Laurentis manda i suoi uomini alla torre di Crocchia dove viene ammassato il grano, che i soldati tedeschi con la forza portano via dalle campagne vicine.

Ai primi di ottobre del 1719 quattro tartane sono ferme al porto di Crotone. Domenico de Laurentis non consegna le 4000 tomoli di grano, che Ignazio Barretta ha venduto al barone di Lieto per rifornire l’armata che si trova a Reggio. A Cirò alla fine di marzo (1720) si recano alcuni bordonari di Crotone per estrarre grano per conto del Laurentis. Il governatore ed il sindaco, con “strepiti e fracassi”, impediscono la consegna perché il grano serve ai cittadini. Dopo molte insistenze ottengono poco grano di pessima qualità. Il Laurentis compera e fa scaricare 1700 tomoli di grano, imbarcato a Termoli e diretto alle truppe di Reggio, da Domenico de Lorenzo presente con la sua tartana al porto. Al sindaco di Crotone per il pane della città ne dà 500 tomoli, mentre con il rimanente approvvigiona le milizie presenti in zona nei mesi di maggio, giugno e luglio. Carica grano per le milizie che sono a Reggio senza pagare il jus del tornese. Interviene il sindaco “con li suoi famigli armata mano”, e sequestra 25 carri di grano che sono 250 tomoli, facendoli portare nei suoi magazzini.

Paesaggio nei dintorni di Verzino (KR).

Note


[i] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio, Catasti onciari, Busta 7011.

[ii] Nel 1759 Gio. Francesco Godano, arciprete e vicario foraneo della terra di Verzino, ed economo della badia di S. Pietro della terra di Verzino. Giuseppe e Francesco Jannino dichiarano che i loro antenati presero dagli abbati ed economi pro tempore della Badia di S. Pietro in prestito ducati 22, impegnando carlini 22 (cioè al tasso del 10%) sui primi frutti della loro vigna sita in località Trimigliano. Il loro padre il fu Gio. Paolo, nel 1744 non pagò più motivando che non esisteva alcun documento. I figli chiedono al vescovo di Cerenzia e Cariati Carlo Ronchi, di diminuire l’interesse alla ragione del 7% e di stipulare un nuovo contratto. ASCS, Not. Juzzolino Alessio, Busta 447, anno 1759, ff. 22-23.

[iii] Nel 1743 era eremita di San Pietro Fra Francesco Cavallo di anni 65, il quale possedeva una vigna luogo S. Pietro gravata da un censo enfiteutico di annui grana cinque.

[iv]Il 18 maggio 1444 re Alfonso comanda che siano osservate le concessioni fatte nel 1439 a Iacobo e Thomasio de Czuranno (Chiuranna), cioè che in cambio della concessione fatta della tonnara di Vibona, erano stati dati annui ducati 90 oltre ad altri ducati 100 dal denaro dei fuochi delle città e luoghi della Duchessa di Suessa, Principessa di Rossano, e principalmente sui diritti del focatico delle terre di Caccuri e Cerenzia. Fonti Aragonesi, I, p. 38.

[v] Il convento di S. Domenico di Verzino possiede luogo d.o il Casale due pezzi di terre, uno di tt. tre e l’altro di tt.e quattro con due piedi di fichi e due troppe di celzi, giusta i beni del fu D. Paulo Giuranna e la via che si va all’aja del casale, più altro pezzo di terre di tt.e tre, luogo d.o Trombaturo, giusta i beni di S. Maria delle Grazie, stimata la rendita di tutti e tre i pezzi di terra annui grana novanta, col peso di messe basse per lo q.m Scipione Giuranna. ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio, Catasti onciari, Busta 7011, f. 68r.


Creato il 24 Agosto 2022. Ultima modifica: 24 Agosto 2022.

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