La cattedrale di Belcastro
Secondo alcuni storici “Kallipoleos”, una delle primitive diocesi della metropolia di Santa Severina, altro non sarebbe che Belcastro (1).
Da Genitocastro a Belcastro
La città, così detta durante il periodo bizantino, avrebbe poi mutato in Genitocastro, come appare in numerosi documenti di età normanno-sveva (2), quando era feudo dei Falloch.
Nella prima età angioina, poco prima della metà del Trecento, essa assunse l’attuale denominazione (3). Secondo alcune testimonianze la città nel Medioevo era abitata da tre popolazioni: ebrei, greci e latini (4).
Nelle collette per la Santa Sede dell’inizio del Trecento oltre al vescovo compaiono anche le quattro dignità, cioè il decano, l’arcidiacono, il cantore ed il tesoriere (5).
Le ritroviamo ancora alla metà del Cinquecento quando la cura delle anime risiedeva nel capitolo (6). In seguito a causa della diminuzione della popolazione, essa fu assegnata al solo arciprete, che divenne il parroco di tutta la città (7), ed assieme al penitenziere portò a sei le dignità della chiesa di Belcastro (8), e tali erano ancora alla fine del Seicento (9).
La cattedrale intitolata all’arcangelo San Michele, la cui immagine era impressa nel sigillo del capitolo, era l’unica parrocchia della città e conservava tutti i sacramenti.
Secondo una tradizione locale riportata dal Fiore, essa era stata fondata nell’Undicesimo secolo e dotata da un tale Angiolo Carbone, patrizio della città, il quale, non avendo eredi, la istituì e le lasciò in eredità tutto ciò che aveva e cioè “Palaggi, vigne, tenute di terre, e singolarmente il feudo detto Spertuso” (10).
Al tempo del vescovo Giovan Antonio di Paola (1577–1591) il papa Gregorio XIII concesse nel 1583 un privilegio ad un suo altare, come si rileva da iscrizione (11).
Nel 1592, al tempo del vescovo Orazio Schipani (1591-1596), annoverava oltre alle dignità otto canonici e 25 preti (12) ma a causa di una pestilenza il vescovo Alessandro Papatodero nel 1597 vi troverà solo 6 canonici e 15 preti (13).
La diocesi compresa tra i fiumi Crocchio e Tacina giungeva fino alla riva del mare e confinava con le diocesi di Catanzaro, Isola e Santa Severina. Essa nel Seicento comprendeva oltre alla città di Belcastro anche i due villaggi di Andali o Villa Aragona, abitato di Albanesi, e di Sant’Angelo o Cuturelle.
Belcastro, città posta su un colle a circa tre miglia dal mare, nei primi decenni del Cinquecento era ancora fiorente di cittadini e di messi ma in pochi anni arrivò la decadenza. Nel 1542 la cattedrale risultava completamente distrutta (“penitus collapsa”) tanto che il papa Paolo III il 12 settembre di quell’anno concedeva ai visitatori e a coloro che avrebbero contribuito a risollevarla nella festa di S. Michele l’indulgenza per un giorno (14). Ma le condizioni della città peggiorarono ed a causa dell’insalubrità dell’aria molti cittadini la abbandonarono (15). Lo spopolamento e la malaria fecero impoverire la mensa vescovile, lasciata in abbandono; infatti tra il 1595 ed il 1615 ben sette vescovi si susseguirono. La precarietà del potere vescovile favorì l’usurpazione di alcuni terreni della chiesa (16) e la povertà si ripercosse sulla cattedrale. Di mediocre struttura, essa all’inizio del Seicento era cadente e necessitava di grandi restauri (17). Anticamente era situata in mezzo alla città, ma poiché gran parte dell’abitato era stato abbandonato, ora se ne trovava del tutto al di fuori.
Vi si festeggiava solennemente due volte all’anno: l’otto maggio ed il 29 settembre. Aveva fonte battesimale, campanile, con due campane, alcune reliquie di santi e la sacrestia ma, sia per l’incuria dei vescovi che per la diminuzione delle entrate, mancava di paramenti adatti al culto e quelli che c’erano erano modesti (18). Il vescovo Girolamo Ricciulli , rivendicò i beni della chiesa (19) e restaurò dapprima la cattedrale nelle pareti, nel tetto e nel pavimento. Ne riparò le scale di accesso, fece rifare il bastone pastorale, il piviale e due pianete di seta e fornì di suppellettili di legno l’altare (20). In seguito rifece la porta maggiore in maniera artistica, riparò il soffitto ligneo, quasi divelto dalla forza del vento e acquistò e preparò il materiale sia per ricostruire la sacristia in forma più ampia ed in un luogo migliore sia per rifare l’altare maggiore.
Nella chiesa vi erano i cinque canonicati della SS. Annunciazione, di San Pietro, di San Pietro e Sofia, di S. Giacomo e Lucia e di San Marco. Il vescovo curò anche di rinnovare ed indorare il crocifisso di legno (21).
Morto Girolamo Ricciulli seguì Antonio Ricciulli (1626–1629) ed a questo Filippo Crino (1629–1631).
Se la chiesa era stata risanata, mancava ancora di organo e di molti e vari arredi e suppellettili e quelli che vi erano vecchi. Così nel 1632 il sindaco dei nobili della città collocò una nuova sede per il magistrato cittadino (22) ed il papa Urbano VIII l’anno dopo diede la possibilità al nuovo vescovo Bartolomeo Giptio di impiegare i proventi delle pene della sua curia per l’acquisto delle cose sacre necessarie (23). L’edificio tuttavia continuò ad essere trascurato soprattutto per l’assenteismo del presule a causa dell’inospitalità del luogo (24). Infatti esso era esposto d’inverno ai rigidi venti ed all’umido e d’estate all’eccessivo calore e all’aria malsana. Inoltre la cattedrale era in un luogo isolato, circondata da rupi sassose e da case distrutte ed abbandonate (25).
Proseguivano le usurpazioni delle proprietà e delle prerogative della chiesa, facilitate dall’assenza del vescovo, il quale a volte tentava la reintegra della mensa. Al centro delle contese fu il diritto di esigere le decime a ragione di un tomolo di frumento su ogni giogo di buoi, anche di estranei, da pagarsi sia sui terreni feudali che burgensatici della diocesi (26). Le liti si inasprirono tanto che il vescovo ricorse all’arma della scomunica (27).
Scossa dal terremoto del 1638, all’inizio del vescovato del messinese Francesco di Napoli (1639-1651) era così cadente che, per ripristinarla, non sarebbero bastate le entrate della mensa vescovile di più anni (28). Essa aveva l’altare maggiore rivolto ad oriente e la facciata, dove si apriva la porta maggiore, guardava ad occidente. Non era molto capiente ma sufficiente per la popolazione. Divisa in tre navate; la mediana, la più spaziosa, era posta tra le due ali laterali più ristrette, che la completavano per tutto l’ambito. Nella parte superiore della navata centrale il vescovo fece erigere un nuovo altare maggiore, dedicato al patrono San Michele Argangelo, di forma più grande del precedente (lungo e largo palmi 11, alto palmi 4 e ½ con lunghezza del piano palmi 3 ½) e costruito in maniera artistica e dorato. Ai lati vi eresse delle colonne “cementizie” che fece dipingere con varie figure. Nella parte superiore, a destra, c’era la cappella dove era conservato in una custodia dorata lo SS.mo Sacramento dell’Eucarestia, che godeva di grandissima venerazione popolare. In essa le candele erano sempre accese. Sempre nella parte superiore, però a sinistra, c’era la sacristia molto ristretta. Essa era in grandissimo abbandono e fu rifornita di alcune suppellettili sacre, tra le quali tre pianette, mentre quelle che c’erano furono riparate o rifatte. Vi trovò anche quattro calici con patene dorate, mentre i paramenti pontificali dovevano essere rifatti perché completamente consumati. Dietro l’altare maggiore, che era privilegiato per indulto di papa Gregorio XIII vi era il coro molto piccolo e buio nel quale nei giorni festivi prendevano posto le dignità ed i canonici. Vi era lo stallo vescovile, in mezzo a quello dei canonici. All’arrivo del vescovo esso era in più punti cadente e mostrava un aspetto modesto, ma ben presto fu trasformato in una forma più gradevole, aggiungendovi varie opere plastiche di mirabile candore ed ornandolo con statue ed insegne. Per rendere ogni cosa più chiara e bella, vi aveva fatto aprire in alto anche una magnifica ed ampia finestra. Esso era decorato con varie sculture ed era adatto perché il vescovo potesse svolgere i divini uffici. Davanti all’altare maggiore c’era il sedile vescovile che ornò. Costruito in legno, lo fece spostare dal corno dell’Epistola e quello dell’Evangelo e costruì vicino ad esso un nuovo pulpito, che fece decorare con cornici ed ornamenti eleganti. Il vecchio infatti era così malmesso che non era decoroso da esso annunciare ai fedeli la parola di Dio. Il soffitto della chiesa e due pareti che per la vecchiaia ed i terremoti minacciavano rovina, furono riparate. Per dare maggiore luce all’edificio, fece aumentare il numero delle finestre, aggiungendone due in alto nei muri laterali. La cappella dello SS.mo Sacramento che era eretta a destra dell’altare maggiore, internamente era trascurata ed la cupola di fabbrica, pur essendo ammirevole, era stata consegnata completamente rustica e mostrava le sue pietre tagliate lucide e semplici. Con le elemosine dei devoti, con le entrate della cappella e col suo denaro il vescovo aveva curato di rivestirla di opere plastiche da cima a fondo. Egli vi aveva messo varie statue, insegne e sculture, così era divenuta più bella ed importante, tale da indurre nel popolo una maggiore devozione e considerazione. Inoltre l’aveva arricchita di due dipinti di grandissima stima, che aveva fatto appendere alle pareti. Dentro la cattedrale vi erano erette quattro cappelle che erano di iuspatronato di particolari, con doti molto esigue, eccetto la cappella del Sangue di Cristo della famiglia dei Ballatore. Nel lato destro presso la porta maggiore vi era la fonte battesimale, fornita di ogni cosa necessaria.
Vi si trovavano inoltre varie sepolture, sia davanti alla cappella dello SS. Mo Sacramento che all’altare maggiore. La sacristia che era in grandissimo abbandono fu rifornita di alcune suppellettili sacre, tra le quali tre pianette, mentre quelle che c’erano furono riparate o rifatte. In essa trovò quattro calici con patene dorate, mentre i paramenti pontificali dovevano essere rifatti perché completamente consumati. La chiesa mancava di organo ma completava la struttura il campanile sul lato sinistro con tre campane, una delle quali, la maggiore, era spezzata. Al suo arrivo il vescovo Napoli aveva trovato due croci di cui una d’argento aveva l’immagine del Crocifisso e l’altra quella dell’Arcangelo San Michele. Il vescovo aggiunse un nuovo sacrestano ai quattro diaconi selvatici in modo da conservare la chiesa sempre pulita e funzionante (29).
Il nuovo vescovo Carlo Sgombrino (1652-1672) entrò subito in lite con il vescovo di Isola Giovan Francesco Ferrari, accusandolo di esercitare il potere temporale sulla città, violando la giurisdizione e l’immunità ecclesiastica (30). Di modica grandezza ma adeguata alla popolazione ha campanile, campane e cimitero. Nella sacrestia conserva un reliquiario di ebano, costruito con grande maestria, con le reliquie degli SS. Aureliano, Venanzio e Pio Martire (31). Se a parere del vescovo Sgombrino l’edificio non aveva bisogno di alcun riparo, la situazione prospettata dal nuovo vescovo Carlo Gargano (1672-1683) non era delle più rosee.
La città, feudo del duca Francesco Sersale, risultava provata dall’epidemia che nell’anno 1672 l’aveva duramente colpita, causando la morte di circa 300 persone e privandola così in pochissimo tempo di quasi un terzo dei suoi abitanti.. Il palazzo vescovile, vicino alla cattedrale, era in completo abbandono in quanto da circa venti anni nessun vescovo l’aveva abitato e la cattedrale era talmente rovinata e così carente di suppellettili che il vescovo aveva dovuto subito mettersi all’opera e per renderla decente aveva dovuto impiegare anche del suo (32).
Dopo i brevi vescovati di Benedetto Bartolo (1684-1686) e di Alfonso Petrucci (1686-1687), i quali all’atto della consacrazione si erano impegnati a riparare la cattedrale ed il palazzo vescovile, a costituire la prebenda teologale e la penitenzieria ed ad erigere il Monte di Pietà (33), seguì Giovanni Emblaviti il quale dovette in primo luogo trovare rimedio alla cattedrale quasi completamente distrutta dal terremoto del 1689 ed a rifare il palazzo vescovile rimasto in abbandono ed inabitato per quasi quaranta anni. Egli fece aprire una nuova via piana, in modo da avvicinare la città alla cattedrale, facendo scavare il sassoso monte che le separava. Poiché la cattedrale era circondata da solide rupi, le fece togliere in parte per erigervi una sacrestia più ampia. La spesa era grande e le sue entrate non bastavano, perciò vi impegnò parte del denaro concesso da papa Innocenzo XI (1676-1689) alla città e che doveva servire a riparare i danni del terremoto (34). Fu perciò accusato da molti di non avere distribuito il denaro ai terremotati ma di averselo trattenuto ed usato a suo pro (35).
Poiché la città pativa per la vicinanza di stagni, la risanò facendo svuotare un lago profondo 16 palmi e più di cento lungo.
Alla fine del Seicento la cattedrale era stata restaurata . Costruita presso l’antica rocca, aveva sette altari : altare maggiore dedicato a San Michele Arcangelo, S. Giuseppe e l’antica icona di S. Maria delle Grazie detta delli Greci, altare SS. Sacramento privilegiato, S. Antonio da Paola di iuspatronato della famiglia Gargano, SS. Sangue di Cristo di iuspatronato della famiglia Ballatore, il Gloriosissimo Crocifisso di iuspatronato vescovile nel quale c’era l’onere di una messa settimanale fondato dal vescovo Napoli. C’era poi l’altare dei Santi martiri Vito e Modesto e quindi l’altare di iuspatronato della famiglia Raimondo che conservava diverse reliquie di martiri (36).
Il vescovo Emblaviti afferma di continuo nelle sue ultime relazioni di aver portato a compimento il palazzo vescovile e la cattedrale, dal pavimento al tetto, rendendo il primo abitabile e la seconda completa, con nuove cappelle e fornita di sacre suppellettili (37). Egli inoltre aveva costruito una conveniente sacrestia, rifatto il grande campanile che stava cadendo, munendolo di campane, aveva avvicinato la chiesa alla città, rompendo il monte ed aprendo una via piana e breve, in modo che i cittadini facilmente potessero frequentare la chiesa (38).
Dopo quasi 35 anni di vescovato gli succedette Michele Gentile (1722-1729 ?), il quale descrive una situazione che non lascia dubbi sull’operato del vescovo Emblaviti.
La cattedrale che ci descrive è sia formalmente che materialmente “quassata”, senza trono, senza coro, senza sacre suppellettili, con i confessionali a pezzi e mancante di qualsiasi oggetto necessario al culto. Il palazzo vescovile è “diruto“ ed inabitabile. Il predecessore non vi ha speso un soldo ed per tanti anni indecorosamente ha abitato in una piccola parte. La cattedrale è “diruta” ed in abbandono, è mancante di suppellettili e con il campanile pericolante (39).
Il vescovo tentò subito di ottenere il permesso per trasferirsi altrove “al fine di potersi curare” e “perché i Calabresi devono essere governati da Calabresi” (40). Poi entrò in conflitto con il barone del luogo, Alfonso Poerio, che scomunicò (41), con il capitolo della cattedrale e con i regolari. La situazione precipitò tanto che la chiesa di Belcastro fu oggetto di una lunga visita da parte dell’inviato papale Giuseppe Perrimezzi, vescovo di Oppido (42), che tentò di conciliare gli animi ed indagò sulla reale entità delle rendite della mensa vescovile (43). Specialmente la sacrestia aveva bisogno di grandi restauri. Il Gentile con lo spoglio del suo predecessore, completò il restauro del campanile che minacciava rovina, riparò i muri di tutta la chiesa, costruì un nuovo coro, l’altare maggiore e la sede pontificale. Fornì inoltre un nuovo bacolo d’argento con due calici e patene ugualmente d’argento, preziose dalmatiche e suppellettili, messali e libri. Rimanevano ancora circa 440 ducati e questa somma fu impiegata nella riparazione della chiesa. Intervenne infatti il visitatore apostolico, il quale curò stipulare un contratto con mastri muratori ed altri artefici, i quali si obbligarono al restauro integrale dell’edificio per la somma di 550 ducati (44). Il vescovo se ne morì “non senza sospetto di veleno”, lasciando appena 460 ducati (45). I lavori dopo poco si fermarono, anche se il capitolo della cattedrale curò prima dell’arrivo del nuovo vescovo, Giovan Battista Capuano (1729-1748 ?), di procedere nella costruzione utilizzando i soldi dello spoglio. Il nuovo presule “poco o nulla oprò”. Se ne stette quasi sempre lontano dalla diocesi, entrò in contrasto con i laici, tanto che fu minacciato con la pistola e fu accusato di molti abusi (46). Lasciò la diocesi in mano ai suoi ministri, ed ufficiali che “commisero molti delitti ed eccessi” , tanto che il papa Benedetto XIV, accogliendo le proteste dei diocesani, dovette inviare il visitatore apostolico (47) . Finiti i soldi dello spoglio. La cattedrale ed il palazzo vescovile, avendo questi bisogno di restauro fin dalle fondamenta, rimasero imperfetti, occorrendo altri sussidi, perché le rendite della chiesa di Belcastro sono tenui (48).
Scossa e lesionata dal terremoto del dicembre 1744 che aveva danneggiato i luoghi sacri “ita ut in pluribus locis ecclesiae aedificia appellari possunt maceriae”. Il vescovo pochi mesi dopo affermava di aver tutto restaurato e che la cattedrale era decentemente ornata e provvista di ogni cosa e così tutte le chiese della città e della diocesi, soggette alla sua giurisdizione (49).
Dopo il breve vescovato di Giacomo Guacci (1748-1754), salì sul trono vescovile di Belcastro Tommaso Fabiani (1755-1778).
A metà Settecento la diocesi si estendeva per 50 mila passi in latitudine ed in longitudine, comprendeva oltre alla città di Belcastro, in continuo degrado, i tre villaggi di Castrum de Aragonia, detto anche Andali, abitato da 550 Albanesi, S. Angelo in Cuturella con 206 e La Cerva con 340 abitanti. Il vescovo dovette subito risanare la sede vescovile che minacciava rovina, sia per il soffitto ligneo, che era marcio, sia per le pareti che rovinavano. A sue spese, poiché dallo spoglio del suo predecessore niente ricavò, cominciò a ricostruire il coro dalle fondamenta più ampiamente, più degno, e più alto, comprendente tre ordine di sedili.
Nel 1761 esso era completato e gli stalli erano già stati ornati. Eresse inoltre tre nuove edicole dedicate all’Immacolata, a S. Tommaso D’Aquino ed a San Francesco D’Assisi. Così è descritta la cattedrale nella sua relazione del 1758. La cattedrale ha la porta maggiore rivolta ad occidente, mentre la minore è sul lato settentrionale. Un breve spazio la separa dal palazzo vescovile. Il vescovo la congiunse all’episcopio ed al seminario. Essa è divisa in tre navi, la maggiore centrale e due laterali, tutte ben costruite, ornate e coperte con soffitti lignei a cassettoni.
La navata maggiore è illuminata da finestre che sono situate, tre per ogni lato, il resto è rischiarato da un’altra finestra di maggiore ampiezza, che si apre sulla parete del coro.
Le navate laterali ricevono inoltre luce anche da due altre finestre. L’altare maggiore dedicato a San Michele Arcangelo è situato davanti al coro, il quale è sotto un’arcata troppo opprimente. Perciò affinché i canonici non patissero disagi e la casa di Dio rispecchiasse la sua potenza, mi sembrò opportuno allargare il coro ed innalzare la volta. Così ogni parte dell’edificio avrebbe assunto una forma più conveniente e razionale. Tale opera con passo celere sta ora per essere conclusa. Nel corno dell’Evangelo davanti al detto altare maggiore, si eleva il trono vescovile, al quale si accede per tre gradini di legno. Esso è dotato di ombrella di seta ed il sedile è coperto con un panno di seta dai colori banco e rosso.
Più in basso è situato uno scanno per gli eletti del governo cittadino di Belcastro e ci sono pure altri scanni necessari per ascoltare la predica.
Presso la porta maggiore da una parte c’è la fonte battesimale, costruita in pietra verde. Essa è rinchiusa in una cappelletta di modesto graticcio ligneo.
Nella parte superiore della navata laterale destra è situata la cappella dello SS.mo Sacramento, di aspetto elegante e decorata con un tabernacolo ligneo dorato. Vi ardono sempre due lumi e nei giorni più solenni si accende il fuoco in un altro lume d’argento, che io assieme ad una sfera feci ripristinare da un bravo artigiano napoletano, spendendoci 150 ducati.
I ricchi censi di questa cappella sono amministrati da un idoneo procuratore ecclesiastico. Dapprima nella parete laterale troviamo l’altare dedicato a Sant’Antonio da Padova, al quale è annesso il beneficio di iuspatronato della famiglia dei Gargano; il frutto di questo beneficio assomma a 90 ducati annui con l’onere di 200 messe.
Più sotto nella stessa navata si trova l’altare dello SS.mo Sangue di Cristo di iuspatronato della famiglia dei Bellatori, al quale è congiunto e fondato un beneficio di 30 ducati di rendita.
Quarto ed ultimo altare di questa navata è quello dedicato all’Immacolata, la cui sacra icone è venerata e curata dal popolo. Questo altare fu trasferito dalla chiesa di San Francesco, che fu soppressa al tempo della sua visita da Nicola Abbate, vescovo di Squillace. In seguito vi fu fondato sotto tale titolo il beneficio laicale della famiglia dei Sillano, che gode di un piccolo censo.
Nella parte superiore della navata sinistra, che è di forma non dissimile, c’è la cappella dello SS.mo Crocifisso, che si sostiene con le elemosine. Subito dopo segue nella parete laterale, l’altare di San Tommaso d’Aquino, nostro protettore, col beneficio di iuspatronato della famiglia dei De Laudari. Tale beneficio gode 24 ducati di rendita. Nello stesso altare c’è la statua del santo “Dottore” che è tenuta in grande devozione e pietà non solo dai suoi concittadini Belcastresi, ma anche dalle innumerevoli genti che da luoghi vicini e lontani, qui vengono in pellegrinaggio nel giorno della sua festa per assolvere i voti.
In tale giorno e quando le calamità colpiscono questo popolo c’è l’usanza di portarla solennemente in processione per la città.
Infine c’è l’altare consacrato a San Francesco d’Assisi, altare che fu traslato qui dalla sua chiesa sempre dal vescovo di Squillace.
Resta da dire solo di un altro luogo che c’è in questa navata. In esso per devozione di Sant’Anna, patrona della mia famiglia, istituii e dedicai alla Madre della Vergine un altro altare e vi curai far costruire un santo simulacro, perché sia tenuto in maggiore devozione.
All’ingresso della chiesa cattedrale, sopra la porta maggiore, si trovano gli organi pneumatici, i quali secondo l’antichissimo rito, nei giorni prescritti dal nuovissimo cerimoniale di Benedetto XIV, pulsano per opera di un valente organista.
Da una delle navate laterali si accede alla sacrestia, che ha una elegante volta, due finestre con vetri ed armadi le ornano le pareti.
Vi erano appena le suppellettili necessari di seta e di quei colori, che le rubriche prescrivono. Vi trovai solo due paramenti pontificali preziosi, confezionati in seta dorata, che curarono far fare due miei predecessori. Prima di giungere a questa chiesa, comprai con mio denaro tutte le suppellettili pontificali di tutti i colori e tutti i libri pontificali; cioè paramenti solenni tessuti con seta dorata e feriali, confezionati con seta d’argento e violacea. Comprai inoltre una pianeta, una mitra, ecc.
All’esterno della chiesa si innalza il campanile, nel quale ci sono tre campane : la maggiore, la mediana e la minima. Esse producono un ottimo concerto (50).
Nel 1761 esso era completato e gli stalli erano già stati ornati. Eresse inoltre tre nuove edicole dedicate all’Immacolata, a S. Tommaso D’Aquino ed a San Francesco D’Assisi (51).
Rifece poi il capellone dell’altare maggiore, l’organo e l’orchestra (52). Nonostante i buoni propositi, giorno dopo giorno, come tutti gli edifici della città, la situazione va peggiorando, come se una pestilenza col tempo tutto pervada e corroda (53). Il vescovo interviene di nuovo e rifà la cappella dello SS. Corpo di Cristo che era completamente deturpata.La restaura e la riduce in forma più elegante, costruendovi una nuova volta in gesso. Vi erige in essa un nuovo altare con tabernacolo ed ostensorio e la decora magnificamente con marmi, arricchendola di croce, fiori, candelabri ed altri ornamenti, spendendovi oltre 800 ducati (54). Alla sua morte la sede vescovile rimase vacante per 14 anni (55). Essa fu amministrata da Giuseppe Fragale di Andali, un semplice canonico che era stato elevato dal Fabiani ad arcidiacono (56).
Alla fine del Settecento la diocesi di Belcastro si arricchisce del nuovo villaggio agricolo di Botricello. Il vescovo Vincenzo Greco di Crotone (1792-1807) descrive la cattedrale come un edificio abbastanza elegante e sufficientemente ampio e adatto per la popolazione. Egli nel 1794 fa rifondere due delle tre campane e restaura il campanile. Fornisce inoltre la chiesa di molte sacre suppellettili (57). Dopo la sua improvvisa morte, avvenuta in Crotone, si avvicendarono nell’amministrazione della diocesi Luigi Maiorana, Luigi Gimigliano, Giovan Francesco d’Alessandro e da ultimo il vicario apostolico Carmine de Grazia, il quale resse l’ufficio fino al 1818, quando la diocesi passò sotto l’amministrazione dell’arcivescovo di Santa Severina (58). Infatti dopo il Concordato del 16 febbraio 1818 tra Pio VII e Ferdinando IV, una bolla pontificia del 27 giugno di quello stesso anno stabiliva la nuova organizzazione ecclesiastica della Calabria. Il titolo vescovile della chiesa di Belcastro fu soppresso e la città e la diocesi furono aggiunte ed aggregate alla chiesa arcivescovile di Santa Severina. Soppresso il titolo di cattedrale, la chiesa di San Michele Arcangelo fu ridotta ad insigne collegiata.
Note
1. Russo F., Storia della chiesa cit., I, pp.200 sgg.
2. Siberene, p.16.
3. La città avrebbe mutato nome al tempo di re Roberto d’Angiò, quando nel 1330 fu infeudata come contea ai d’Aquino, Russo F., Regesto, I, pp.87 sgg. ; Rel Lim. Bellicastren., 1699, 1703.
4. Della presenza degli Ebrei ancora nel Settecento rimanevano rilevanti tracce del loro insediamento nella città, Rel. Lim. Bellicastren., 1703.
5. Russo F., Regesto, I, 173, sgg.
6. Tracce di questa organizzazione la ritroviamo ancora nel Settecento. Allora l’arcidiacono aveva unita la cura della chiesa di Santa Maria delle Grazie, il cantorato quella di S. Maria Maddalena, l’arciprete quella di S. Nicola, il canonico degli SS. Jacobo e Lucia la chiesa dedicata ai santi, i canonici della SS. Annunciazione, di S. Maria de Sanitate e di S. Paolo avevano solo il titolo senza più le chiese e così il canonico di S. Pietro che aveva la cappella dentro la chiesa di S. Maria della Pietà, Rel . Lim. Bellicastren. 1707, 1758.
7. L’arciprete era stato istituito nel 1578 e poi confermato nel 1597, Rel. Lim. Bellicastren., 1634.
8. Rel. Lim. Bellicastren., 1597.
9. Fiore G., Della Calabria Illustrata, II, 334.
10. Fiore G., Della Calabria Illustrata, II, 334.
11. Epigrafe : “S. D. GREGORII XIII/ PRIVILEGIO QUOT/ MISSAE DEFUNCTOR./ IN HOC ALTARE OFFE=/ RUNTUR TOTANIMAE PUR=/ GATORII PENIS LIBERAN/ TUR IO. AN. D.P. EPUS/ BELLICASTREN. 1583”
12. Rel. Lim. Bellicastren., 1592.
13. Rel. Lim. Bellicastren., 1597.
14. Russo F., Regesto, IV, (18618)
15. Rel. Lim. Bellicastren., 1603 ; Dai 593 fuochi del 1545 nel 1561 era scesa a 221 e nel 1595 veniva tassata per 246.
16. Rel. Lim. Bellicastren., 1612.
17. Rel. Lim. Bellicastren., 1620.
18. Rel. Lim. Bellicastren., 1603.
19. Il vescovo trovò alcune terre della chiesa occupate ed lo “jus vendendi spicas” usurpato, Rel. Lim. Bellicastren., 1620.
20. Rel. Lim. Bellicastren., 1620.
21. Rel. Lim. Bellicastren. 1625.
22. Epigrafe: “ QUAM./ NICOLAUS. ANTONIUS./ SCARRILLO./ NOBILIUM. SINDICUS. HIC./ ANNO (I) (I CXXXII./ MAGISTRATUS. SEDEM. LOCAVIT./ VETUSTATE. COLLAPSAM./ D. NICOLAUS GIMIGLIANO CIVITATEM GERENS./ PERILLUSTREM./ SPLENDIDIOREM. HANC. IN. FORMAM./ CURUS. PLAUDENTIBUS. INSTAURAVIT./ NONIS. MARTII (I)(ICCLXXIX”
23. Russo F., Regesto, VI, 315.
24. Il vescovo Bartolomeo Gizio chiede al papa di potersi assentare dal 15 luglio al primo ottobre e dal 15 dicembre al 15 febbraio di ogni anno, Rel. Lim. Bellicastren., 1634.
25. La città era abitata da circa 900 abitanti dei quali 28 preti, 3 suddiaconi e 43 chierici, Rel. Lim. Bellicastren., 1634.
26. Il vescovo Giptio mosse lite ad alcuni cittadini di Catanzaro e di Belcastro i quali fin dal 1633 pagavano le decime non al vescovo ma ai parroci dei luoghi in cui i beni si trovavano, Rel. Lim. Bellicastren., 1637.
27. Il vescovo Giptio poiché alcuni cittadini, protetti dal feudatario di Magliacane, Cesare Maricola di Catanzaro, non volevano pagare le decime , li scomunica, Rel. Lim. Bellicastren., 1637.
28. Rel. Lim. Bellicastren., 1641.
29. Rel. Lim. Bellicastren. 1645.
30. Russo F., Regesto, VII, 316.
31. Rel. Lim. Bellicastren., 1665.
32. Rel. Lim. Bellicastren., 1673.
33. Russo F., Regesto, IX, (45182), (45483).
34. Rel. Lim. Bellicastren., 1692.
35. La comunità di Belcastro aveva avuto dal papa per riparare le rovine duc.600 che dovevano essere applicate con il consenso del vescovo e dei sindaci ed il parere dei cappuccini di Cropani. La somma consegnata dal nunzio al vescovo dopo quattro anni non era stata ancora spesa, Nunz. Nap. 112, f.297.
36. Rel. Lim. Bellicastren., 1699.
37. Rel. Lim. Bellicastren., 1703.
38. Rel. Lim. Bellicastren., 1707, 1718.
39. Rel. Lim. Bellicastren., 1726.
40. Russo F., Regesto, X, 286,350.
41. Russo F., Regesto, X, 328.
42. Russo F., Regesto, X, 364.
43. Russo F., Regesto, 368, 369.
44. Rel. Lim. Bellicastren., 1727.
45. Capialbi V., La continuazione dell’Italia Sacra dell’Ughelli per i vescovadi di Calabria, Arch. Stor. Della Calabria, II, 1914, p.196.
46. Il vescovo fu minacciato con la pistola da due laici, ed è accusato di starsene a Napoli e di abusi sulle ordinazioni, Russo F., Regesto, XI, 36, 238, 339, 355.
47. Capialbi V., cit., p.197.
48. Russo F., Regesto, X, 404.
49. Rel. Lim. Bellicastren. 1745.
50. Rel. Lim. Bellicastren., 1758.
51. Rel. Lim. Bellicastren., 1761.
52. Capialbi V., cit., p.198.
53. Rel. Lim. Bellicastren., 1771.
54. Rel. Lim. Bellicastren, 1775.
55. Capialbi V., cit., p. 198.
56. Rel. Lim. Bellicastren., 1768.
57. Rel. Lim. Bellicastren., 1795.
58. Capialbi V., cit., p.199.
Creato il 9 Febbraio 2015. Ultima modifica: 17 Marzo 2015.