L’abbazia di San Duca in territorio di Cotronei

Sanduca

“Parte della Regia Sila chiamata Sanduca” (sec. XVIII).

La badia di Calabro Maria, detta anche della Vergine Maria de Calabro o di Altilia, situata in diocesi di Santa Severina, fu una delle più antiche ed importanti abbazie di rito greco esistenti nella vallata del Neto. Abbandonata ed andata in rovina, risorse alla fine dell’Undicesimo secolo soprattutto per opera del vescovo di Cerenzia Polycronio, il quale col consenso del metropolita di Santa Severina Costantino, la riedificò e la ripristinò, reintroducendovi i monaci, e le concesse molti beni tra i quali un tenimento, situato nella regia Sila, denominato Sanduca con la possibilità per i monaci di costruirvi un altro monastero. Tale tenimento selvoso, che faceva parte del demanio regio, fu concesso libero da qualsiasi servitù e con tutti i beni, che vi si trovavano. Su supplica dello stesso vescovo l’abbazia fu riconosciuta e confermata nel possesso e fu arricchita di privilegi da Ruggero Borsa, duca d’Italia, Calabria e Sicilia, il quale in Tropea il 31 maggio 6607 (1099) approvò la concessione del territorio silano di San Duca, con i terreni, le acque e con ogni altra cosa, che potrà avere e ricevere. In seguito l’abbazia fu confermata ed ampliata nel possesso dal conte di Calabria e Sicilia Ruggero (1115) e dal re Ruggero II (1149). Tali atti dimostreranno la natura regia dell’abbazia di Calabro Maria, in quanto dotata ed investita dal potere regio di un feudo detto la baronia di San Duca.
Il territorio di Sanduca, situato nel demanio regio della Sila e nel quale i monaci costruiranno il nuovo monastero, che assumerà il nome di abbazia di Sanduca, in questi primi documenti risulta così confinato: “ incipit à Vallone quod dicitur de Graecis, et vadit ad flumen Ampulini, et ascendit de ipso Vallone Tassiti, et vadit ad locum quod dicitur Arenosa, et deinde vadit ad locum quod dicitur Aqua frigida, et dat ad Vallonem de Miliareto, et deinde descendit à Vallone quod dicitur de Nucelletta, et vadit inde recte per costeram, et esit ad flumen Ampulini, et deinde ascendit de ipso flumine Ampulini, et concludit faciem esitus” (1).
La nuova abbazia di Sanduca avrà soprattutto funzioni di ospizio e sorgerà ad oltre 1200 metri di quota in località Pasquale, su uno degli antichi itinerari, percorso dalle mandrie, che dalle vallate del Neto e del Tacina per Cotronei salivano sull’altopiano.
La labilità dei confini e la natura demaniale del vasto e selvoso possedimento detto “L’Abbadia di San Duca e Pascale” saranno al centro di varie liti, che costringeranno da una parte i monaci ad ottenere di continuo la conferma del possesso e dei privilegi dai regnanti di turno, dall’altra a presentare i documenti comprovanti le loro prerogative nei vari tribunali contro gli usurpatori.
Il territorio, o tenimento, di Sanduca sarà confermato dall’imperatore Federico II nel 1220, dal re Alfonso d’Aragona nel 1445 (2) e successivamente da re Ferdinando, dapprima il 2 ottobre 1459, al tempo della sua discesa in Calabria, presso il ponte del Crocchio all’abate de Moyo (3) e poi nel 1471.

Il territorio dell’abbazia di Sanduca
L’abbazia di Sanduca dipese dagli abbati dell’abbazia di Calabro Maria di Altilia, che fin dal Duecento era passata all’ordine florense. Alla metà del Quattrocento con l’introduzione della commenda fu amministrata dagli abati commendatari, i quali tramite i loro procuratori la davano in fitto. Così avverrà per tutto il Cinquecento, anche dopo che l’abbazia di S. Maria di Altilia sarà passata all’ordine cistercense e per intervento papale alcune terre ritorneranno ai monaci. Rimasero, infatti, al commendatario le vaste tenute collinari e pianeggianti, situate in diocesi di Santa Severina e di Crotone, sulle quali grano e pascolo si alternavano, di Neto, La Menta, Caria, Mugunà, Caledusa, Santa Marinella, Brasimati, Santa Marina, Altiliella e Manca di cane e la vasta baronia silana, adatta soprattutto per il pascolo, di Sanduca (4) . Nel 1601 i Cistercensi introdussero la riforma e l’osservanza della regola nell’abbazia di S. Maria di Altilia ed il commendatario Tiberio Barracco per conservarla e promuoverla aumentò la mensa conventuale, aggiungendo beni e terreni a quelli già dati, tra i quali il vasto territorio, o difesa, dell’abbazia di Sanduca, situato in Sila, “partim aratorium, partim incultum et nemoratum cum omnibus juribus et pertinentiis franchumq. ab omni genere servitutis” (5). L’assegnazione del commendatario sarà confermata con un breve da Clemente VIII due anni dopo (6). Il monastero di S. Maria di Altilia amplierà i suoi possessi in Sila nei pressi dell’abbazia di Sanduca, procedendo all’acquisto di alcune terre già da tempo oggetto di controversia. Nel 1672 acquisterà i territori Colla della Spina, Infagello, Acqua di Pascale, Burga Seccagna e Marinella e nel 1677 la difesa detta L’acqua di Auzino (7).

Usurpazioni e liti
L’abbazia di Santa Maria di Altilia sostenne numerose liti per salvaguardare i suoi privilegi sul territorio di Sanduca. A seconda della giurisdizione sul territorio, che col passare degli anni mutò, dapprima si oppose al baglivo dei casali di Cosenza, poi a quello di Policastro ed infine all’erario di Cotronei. Già nel Cinquecento erano sorte alcune questioni riguardanti la giurisdizione sul territorio di Sanduca. Il 23 dicembre 1574 veniva emanava una sentenza per la spettanza della difesa S. Duca nei riguardi di Pompeo di Maria, Scipione Benincasa ed altri. Sentenza che era riassunta in forma pubblica il 26 giugno 1581. Seguiva nel 1592 una convenzione tra il monastero e Matteo de Chiara ed altri; essa riguardava i territori di Capito, Burga Seccagna ed Acqua di Pascale (8). Durante il Seicento ed il Settecento l’abbazia dovette sostenere molti processi, per contrastare le sempre più frequenti occupazioni di terre ed usurpazioni. E’ dei primi anni del Seicento una protesta del cellerario del monastero, il quale fa presente al priore che Gio. Tomaso di Chiara ha preso in affitto la difesa di San Duca e vi ha fatto fidare le vacche di alcuni mandriani. Marco di Arangi di Aprigliano, che ha in affitto la bagliva dei casali di Cosenza, le ha fatte imprigionate e “l’ha rilasciati in plegeria, et pretende farci pagare dalli padroni di tutte le vacche una somma di denari per ragioni di disfida, et fida, imponendo per questo una nuova impositione et gabella”. Il baglivo è accusato di non riconoscere i privilegi dell’abbazia e di perturbare la pacifica possessione, impedendo a coloro che prendono in fitto le terre dell’abbazia e ai fidati di quelli, di pascolare liberamente. Se all’inizio del Seicento era stato il baglivo dei casali di Cosenza ad infrangere i privilegi dell’abbazia, nel 1651 è il baglivo di Policastro. Allora il priore Gregorio Ricciuto chiese l’intervento papale contro il baglivo di Policastro, il quale “perturbava” la giurisdizione del monastero sul territorio di San Duca. Il baglivo tra l’altro aveva imprigionato 14 vacche di Andrea Scanello vicino alla torre dei Di Chiara in territorio di Trepidò, appartenente all’abbazia, ed aveva estorto denaro per liberarle (9). Nel giugno 1693 il vicario generale dell’arcivescovo di Santa Severina, sollecitato dai monaci, interveniva contro coloro che attentavano ai diritti sul territorio o difesa di San Duca. La curia arcivescovile di Santa Severina riconosceva al monastero il diritto di fida e disfida degli animali di qualsiasi genere e numero, che vi pascolavano, e di esigere sia l’estaglio, o l’affitto, dai forni della pece, che vi si fabbricavano, che il terraggio dai seminati, che si raccoglievano (10). Con l’attivarsi del commercio cominciavano ad espandersi le terre a pascolo ed a semina ed aumentavano i disboscamenti e le sottrazioni di terre con lo spostamento dei confini. Nel 1708 si celebrava un processo contro Filippo Quattromani ed altri, i quali avevano occupato delle terre dell’abbazia in Sila (11). L’anno dopo, nel 1709, si processano coloro che avevano incendiato i pini e Giuseppe Secreto ed altri piciari, i quali avevano sottratto legname nel territorio della “Caprarella” per fabbricare pece nera (12). Per porre un freno ai continui danni e sottrazioni di terre nel 1716 il fiscale D. Raffaele Tauro fu delegato dalla Regia Camera a definire i confini dell’abbadia di San Duca e Pascale (13). Essi risultarono in parte modificati rispetto ai termini originari: “incipit a vallone Tassiti quod vocatur de Graecis et vadit ad flumen Ampulini et ascendit per ipsum vallonem Tassiti et vadit ad Arenosam, et deinde vadit ad Aquam frigidam et ferit ad vallonem de Migliaretis et descendit inde ad Sanctum Nicolaum Vetranum et agreditur ad vallonem de Nucilletta et vadit inde recte de costera et exit ad flumen Ampulini et concluditur”. Nonostante gli interventi dei funzionari regi e le scomuniche papali le usurpazioni non cessavano. Pochi anni dopo, nel 1727, fu celebrato il processo contro Francesco Mazzei, che attentava ai beni della abbazia di Sanduca (14). In questo periodo molte terre andarono perse. Da una protesta presentata dal procuratore dell’abbazia nella corte principale di Cotronei risultò che Nicolò Cervino di Cotronei, non solo si era impossessato delle due terre dette Macchia di Tacina, seu S. Nicola di Vitrano, e Macchia della Castagna ma, approfittando del fatto che esercitava l’ufficio di erario, “con una quantità di persone armate si conferì in detta Abbadia di S. Duca e Pascale e volendo dilatare li confini delli luoghi, che occupati avea, impose a quelli che avessero confusi alcuni fini e proprio nel luogo, che si dice il Pino Intronato Timpone della Selona ed altri fini”. A nulla valsero né la scomunica, né le sentenze dei tribunali. Un’altra usurpazione era denunciata dall’abbate Tommaso Gervasio: l’arcidiacono della città di Cerenzia Francesco Mascaro aveva occupato una terra detta “Colla della Spina”, che apparteneva alla difesa di Pascale, nel tenimento dell’abbazia di Sanduca e propriamente nella difesa di Trepidò. Il Mascaro nel 1726 vi aveva fatto seminare frumento, che l’anno seguente aveva raccolto, senza versare niente. Per tale motivo l’abbate ottenne nel 1727 l’intervento di papa Benedetto XIII; ma la lite ebbe termine solo nel 1734 quando si addivenne ad una convenzione che di fatto premiava l’usurpatore, il quale rimaneva nel possesso delle terre usurpate in cambio del pagamento al monastero di un lieve censo annuo (15). Invano i monaci tentarono di opporsi al disboscamento, che stava investendo l’intera Sila e che produrrà effetti disastrosi sulla pianura sottostante. Nel 1751 denunciarono danni ai pini in località Trepidò Soprano (16) e fecero istanza alla corte di S. Giovanni in Fiore, che intervenne contro i “cesinari” del Principe della Rocca (17). Una lite, che aveva per oggetto le terre della “Marinella”, fu agitata nel Sacro Regio Consilio. Alla metà del Settecento buona parte dell’antica baronia di Sanduca dell’estensione di 3000 tomolate, di cui 1750 fertili, se ne era già andata. I monaci infatti non la amministravano più direttamente, in quanto la avevano concessa in enfiteusi e si accontentavano del censo perpetuo di circa 20 ducati, che versavano annualmente gli enfiteuti. Ai monaci era rimasto sulle difese di Tassito, Caprara, Caprarella e Trepidò Sottano solo il ius picis ed il ius granetterie (18).

Vicende demaniali
Dopo il terremoto del 1783 il monastero di S. Maria di Altilia fu soppresso ed i suoi beni amministrati dalla Cassa Sacra.
Nell’elenco dei beni dell’abbazia, formato a quel tempo, così è descritto il fondo Pasquale e l’edificio dell’antica abbazia: “Feudo, o sia difesa nella Regia Sila, dell’estenzione di tum(ola)te cinquecento settanta di terre nobili, delle quali tum.te centosettanta sono boscose, e scoscese, e tum.te quattrocento atte a semina di grano germano, e ad ogni uso. Confina da tramontana colla Fiumara di Ampulino, da occid.te colla Difesa Trepidò della mensa vescovile di Cerenzia, da mezzogiorno colla Fiumara di Migliariti, e da oriente colla Difesa Mauro di questo Monastero istesso. Vi esiste un Casino, seu un ospizio, composto di otto camere superiori delle quali ne sono cadute tre, di cinque magazeni, una stalla, ed un altro basso per uso di Chiesa; attaccato a quale ospizio vi esiste un orto con due piedi di cireggi”. La difesa di Mauri e casella, che era contigua alla difesa di Pasquale, allora si trovava in demanio. Essa era “dell’estensione di tumolate settanta, delle quali tumolate trenta sono sterili, e tumolate quaranta atte a semina di grano germano e questa difesa non può affittarsi ne in semina ne ad uso di erba, perche soggetta al commune, giacche è permesso a ciascheduno di seminarne quella parte, che più li piace, pagandone solo il terraggio, che suole fissarsi a mezza covertura con equità, facendosene l’apprezzo in ogni mese di luglio da periti, che si devono sciegliere dall’Amm.re. Non si può stabilire la quantità di d.i terraggi, dipendendo l’istessi dalla minore, o maggiore quantità della semina, ed oltre a ciò vi è la controversia con i soldati della Reg.a Sila”. Il monastero nella difesa del feudo di Pasquale esercitava la giurisdizione bajulare che consisteva nell’esigere le pene dei danni dati alla difesa ed “in far la fida degl’animali de forastieri nella difesa medesima” (19).
Essendo il monastero di Santa Maria di Altilia, possessore fin dal 1099 della baronia di Sanduca, cioè di un feudo, fu riconosciuta di regio patronato. Per tale motivo i beni, sia feudali che allodiali, una volta soppresso il monastero, ritornarono e furono reintegrati nel regio demanio, al quale anticamente appartenevano. In regio demanio rimasero finché nel 1811, al tempo della ripartizione dei demani, un terzo della difesa Pascale con il membro annesso di Mauri fu assegnato al comune di Cotronei.

Note

1. Ughelli F. Italia Sacra cit, t. IX, 476 –478.
2. Copia autentica del processo formato nell’anno 1716 dal fiscale D. Rafaele Tauro delegato della Regia Camera per li confini di S. Duca della Badia di S. Maria di Altilia, Notamento di tutt’i Libri e Carte relativi alla Badia di S.ta Maria di Altilia, Cassa Sacra- Segreteria Ecclesiastica, Cart. 60, fasc. 1333 AS.CZ.
3. “In nostris felicibus castris prope Pontem Crochi” il 2 ottobre 1459 re Ferdinando conferma all’abate Enrico de Modio i privilegi della badia di Altilia tra i quali il possesso del tenimento di Sanduca, Privilegi della abbadia di S.ta Maria de Altilia dello Eminenti.o et Reverend.o cardinal Spada abate di detta Abbatia in Calabria, Archivio Ruffo di Scilla, inc. 697, f. 14, Arch. Stat. Nap.
4. Istrumento scritto in carta comune relativamente all’assegnazione di alcuni corsi alla mensa monacale o sia conventuale de 17 maggio dell’anno 1571 ; Copia di Platea antica con i pesi de’ vassalli di d.a abazia scritta a foliate n.29, in Notamento cit.
5. Istrumento scritto in carta comune de 16 dicembre dell’anno 1601 per la donazione di una difesa alla mensa conventuale, In Notamento cit.
6. Secr. Brev. 334, ff. 122 – 124, Arch. Segr.Vat.
7. Notamento cit.
8. Notamento cit.
9. Processo contro Carlo Scandale ed altri di Policastro per Sanduca fatto nel 1651; Processo contro alcuni di Policastro, che pretendevano poter carcerare dentro il territorio di Sanduca, In Notamento cit.
10. Il 12 agosto 1744, su richiesta dell’abbate Filippo Cuda, il massaro Pietro Paolo Laratta si reca nella difesa di Pascale per apprezzare i seminati fatti in alcuni luoghi e precisamente a Marinella, casella delli Mauri, Pietre del Tilono, Macchia di S. Nicola, Macchia di Tacina, Serra delli Bruna e Cuntataro. L’apprezzo fatto dei seminati dei dodici coloni risultò di circa 54 tomoli Miscellanea. Monastero di S. Maria di Altilia (1579-1782), 529, 659, B8, Arch. Stat. Cz.
11. Processus contra Philippum et alios Quattromani pro occupatione Terrarum in Sila, 1708, in Notamento cit.
12. Processo contro alcuni che aveano brugiati pini nella Caprarella fatta nel 1709, In Notamento cit.
13. Nella prima metà del Settecento Nicolò Corvino di Cotronei non solo aveva occupato i territori di Macchia di Tacina, seu S,Nicola Virrano, e di Macchia di Castagna, che facevano parte del comprensorio detto L’abbadia di S. Duca e Pascale, ma con altre persone armate cercò di allargare i confini delle terre che aveva occupato, Miscellanea cit.
14. Processus contra D. Franciscum Mazzei per la Badia di Sanduca fatto nel 1727, in Notamento cit.
15. L’arcidiacono Mascaro ottiene dai monaci la difesa di Trepidò Sottano di tomolate 600, di cui 500 fertili, impegnandosi a pagare un censo perpetuo di ducati sei all’anno, Istrumento della convenzione tra il monistero e l’arcidiacono Mascari, fatto a 29 aprile dell’anno 1734 per ducati sei l’anno, in Notamento cit.
16. Fede di danno delli pini in Trepidò Soprano, 1751, In Notamento cit.
17. L’erario del Principe della Rocca faceva presente che alcuni cesinari di S. Giovanni in Fiore, fidatori della bagliva del Principe, erano impediti di “far cesine nelle Manche di Infagello”, in quanto il procuratore della badia di Altilia, che ne rivendicava il possesso, aveva fatto istanza nella Corte di S. Giovanni in Fiore. L’erario faceva presente che, pur essendo i cesinari di S. Giovanni in Fiore, le terre contese si trovavano in territorio di Cotronei e pertanto spettava alla Corte di Cotronei esaminare la causa, Miscellanea cit.
18. Gli enfiteuti erano: Pietro Paolo d’Elia di Scigliano (difesa del Tassito di 550 tomolate), Gaetano Parise di S. Stefano ( difesa Caprara, tom. 900), Antonio Ciambrone di Motta di Scigliano (difesa Trepidò Sottano, tom. 850), Anna Mascaro e Domenico Greco di Cerenzia (difesa Trepidò, tom.600), Catasto Onciario di Cotronei, 1753.
19. La difesa con l’ospizio e l’orto fu affittata a Saverio Aloisio di S. Giovanni in Fiore per tutto agosto 1792 per l’estaglio di ducati 159 e grana 50 ed un giornale di latticinio in ogni mese di luglio, consistente in otto forme di cascio pecorino, che suole vendersi a grana 20 la pezza. In seguito dal 1793 al 1798 fu affittata assieme alle terre della difesa Mauri e Casella a Saverio d’Urso e Paolo Oliverio per l’annuo estaglio di ducati 240, Altilia. Monastero de’ PP cisterciensi, Lista di carico, Cassa Sacra ff. 2-3, 15, 25.


Creato il 20 Febbraio 2015. Ultima modifica: 3 Maggio 2015.

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