I mulini della “Canusa” e altri mulini del Crotonese sui fiumi Tacina e Neto

Roccabernarda (KR), località “i cinque Mulini”, ruderi dei mulini della Canusa.

Il Crotonese fu per tutto il Medioevo e l’età Moderna una vasta area geografica quasi esclusivamente coltivata a grano. I grandi proprietari fondiari, vescovi, abati e feudatari, oltre a gestire il proficuo commercio granario, esportando verso l’area napoletana e fuori regno, possedevano anche la maggior parte dei mulini ad acqua, specie quelli che sorgevano sulla pianura collinosa dove scorrono i due grandi fiumi Tacina e Neto.

Solo i “baroni” infatti, potevano disporre del capitale occorrente per far fronte, sia agli alti costi di costruzione, sia alle annuali spese di manutenzione e di gestione di cui abbisognavano i mulini, che sfruttavano l’acqua di fiumi, annualmente soggetti a piene ed a fasi di secca e che, a volte, mutavano il loro alveo (acquisto e trasporto delle “pietre di molini che si portano miglia lontano, ferri et acconsi di ferri, accomodatione di acquedotti, accomodamenti di saette, tavolami, chiodi e mastri”).

In tali situazioni economiche e geografiche, tuttavia, continuarono a funzionare negli abitati di Cutro,[i] Crotone[ii] e negli altri paesi del Marchesato, spesso in maniera clandestina, le vecchie mole e le macine (“centimuli”) azionate a mano, ma più spesso da animali (cavalli, asini). I centimoli, meno potenti dei mulini idraulici, permettevano di macinare pur essendo lontani dai corsi d’acqua.

Gli abitanti ne facevano uso, evadendo a volte le proibizioni e le tasse sulla macina. Anche se meno produttivi e particolarmente esposti, specie durante le lunghe carestie ed epidemie, che causavano il venir meno del lavoro animale, normalmente ed in periodi di emergenza (assedi, periodi lunghi di siccità, ecc.), assicuravano un continuo rifornimento di farina per il pane quotidiano a castelli e città fortificate. È questo il caso di Crotone,[iii] città demaniale e quindi non soggetta all’obbligo di servirsi del mulino del feudatario, all’interno delle cui mura non vi erano mulini ad acqua ma solo centimoli, alcuni per uso privato dei possidenti,[iv] altri utilizzati per rifornire di farina le “panettiere” della città che assicuravano l’annona.[v]

Centimolo (da un video di Roberto Mura su youtube.com).

I mulini ad acqua, tuttavia, rappresentarono un buon investimento soprattutto quando ricorrevano annate con grandi quantità di grano da macinare in mano a pochi speculatori, e quando a questo grano si aggiungeva quello di coloro che, pur possedendone modeste quantità, erano obbligati a macinarlo nei mulini dei “baroni”.

Queste condizioni certamente durarono a lungo nel vecchio “Marchesato feudale”. Gli abati ed i feudatari, proprietari delle terre e dei mulini, accumulavano il grano, affittando i grandi possedimenti e obbligando i coloni al momento della semina con contratti capestro. Essi, inoltre, possedendo a volte il “jus prohibendi”, costringevano i vassalli con minacce e pene, a macinare il grano nei loro mulini e le olive nelle loro “ogliara”, o trappeti.[vi]

Quali fossero gli obblighi degli abitanti del feudo per poter macinare, lo ricaviamo da un documento della seconda metà del Cinquecento. Tra i capitoli concessi dall’abate commendatario di Santa Maria di Altilia, Tiberio Barracco, ai vassalli del vicino casale di Caria, vi è: “che edificando d. abbate molino in suo potere pervenendoli a d.o territorio convicino, essi preditti habitanti sono tenuti andare a macinare in d.o molina e pagare la giusta raggione, et a tempo che si guasta l’acquaro siano tenuti donarci una giornata per ciascheduno, et cossi un’altra giornata al portare delle mole quando accaderà gratis.”[vii] Risulta chiaro dal documento che gli abitanti di una terra, o casale, non solo erano obbligati a servirsi del mulino del barone del luogo, pagando una tassa, pena la confisca della farina, ma dovevano anche prestare la loro opera gratuitamente per i lavori di manutenzione.

Altilia di Santa Severina (KR), palazzo Barracco (foto fornita da Daddo Scarpino)

Col passare del tempo, tuttavia, i “baroni” non gestirono in proprio i mulini ma li affittarono per uno o più anni, assieme al terreno agricolo circostante ed alle abitazioni soprastanti, usate dai mugnai, ricavandovi una rendita annua prestabilita in grano. I mulini ad acqua erano situati vicino ai fiumi e ai torrenti. Le prime notizie della loro esistenza nel Crotonese risalgono al periodo normanno-svevo quando, essi erano soggetti al fisco regio e per la loro costruzione e per utilizzare l’acqua del fiume, bisognava ottenere una concessione regia o imperiale.[viii]

Richieste per l’esenzione dal pagamento delle imposte per la edificazione e possesso dei mulini, sono frequenti nei privilegi che gli abati dei monasteri chiedevano ai sovrani. Ricordiamo tra tutti i privilegi concessi nel 1149 da re Ruggero, all’abbazia Calabro Maria di Altilia, che dava a quell’abate la “licentia et potestate recipere aquam libere a flumine Neti pro facendis molendinis”,[ix] e quello dell’imperatore Federico II nel 1222 all’abate Matteo del monastero di San Giovanni in Fiore, che permetteva ai florensi nei territori di Cerenzia, Cosenza e Santa Severina, di “edificare libere … molendinum et fullas ed edificata sine molestia qualibet libere et in perpetuum possidere”.[x]

I mulini ad acqua divennero così monopolio degli abati, dei vescovi e dei feudatari, e furono sottoposti alla giurisdizione feudale. Già poco dopo la metà del Duecento, nel 1258, i florensi ebbero dall’arcivescovo di Santa Severina, Nicola da San Germano, il permesso di attingere l’acqua del Neto e di convogliarla per alimentare un loro mulino. La concessione, rinnovata dall’arcivescovo Lucifero nel 1301, comprendeva la possibilità da parte dei florensi, di riedificare un altro mulino nelle terre della chiesa, qualora il fiume avesse mutato alveo, fatto che evidentemente si era verificato in quegli anni.[xi] L’arcivescovo di Santa Severina conserverà ancora nel Settecento, il diritto di dare le acque dei torrenti Lucido ed Armo “per animare li molini a famiglie particolari”.[xii]

Il fiume Neto presso Altilia di Santa Severina (KR).

I mulini di natura feudale aumentarono[xiii] ma, col passare del tempo, per concessione regia o feudale, accanto ad essi sempre più sorsero altri mulini, edificati da “bonatenenti” e da ecclesiastici. Quest’ultimi dapprima furono soggetti al fisco regio e/o a quello del feudatario, sul cui territorio erano stati costruiti, poi furono tassati dalle università.

Tra i capitoli concessi nel marzo 1525 dal conte Andrea Carafa agli uomini di Santa Severina e dei casali di Cutro e San Giovanni Minagò, vi era oltre alla facoltà di “pigliare le acque, che discurreno et nascono per lo territorio”, e con acquedotti condurle in qualsiasi luogo senza impedimento e pagamento alcuno,[xiv] anche la possibilità da parte dell’università di tassare i mulini presenti sul suo territorio. Mulini che nel passato erano stati soggetti ai pagamenti fiscali e comitali, e che ora dovevano essere iscritti nell’apprezzo della città, eccetto quelli di proprietà feudale, o quelli ai quali il conte avesse concesso la franchigia.[xv] È della seconda metà del Cinquecento una lite tra l’università di Mesoraca ed il feudatario del luogo, che rifiutava di pagare le tasse sui suoi beni burgensatici, tra cui alcuni mulini, inseriti nell’apprezzo di quella terra.[xvi]

Alla fine del Cinquecento lungo le rive del Tacina, del Neto e dei loro affluenti, i mulini di proprietà burgensatica,[xvii] anche se per la maggior parte in mano ai “baroni”, o loro prestanomi, ormai dominavano largamente su quelli di origine feudale e abaziale.[xviii]

Andrea Carrafa conte di Santa Severina. Aldimari B., Historia geneaologica della famiglia Carafa, Napoli 1691, vol. 1, p. 155 (da notes9.senato.it).

Situati in luoghi poco difendibili, cioè fuori le mura e spesso lontano dagli abitati, oltre a subire le rovine causate dalle piene, i mulini furono esposti ai danni bellici, al brigantaggio, ecc., e specie nei momenti di carestia, all’assalto delle popolazioni affamate. Ne abbiamo testimonianza quando nel mese di marzo 1764, gli abitanti di Scandale “armati di scopette, mazze ed altri sorte d’istrumenti”, si impadronirono dei mulini di Corazzo e portarono via la farina ed il grano.[xix]

Nonostante questi inconvenienti furono di continuo riparati e ricostruiti aumentando di numero, in quanto si dimostrarono utili e redditizi. Ce lo testimonia il Principe di Strongoli che fece costruire tre mulini ad acqua sotto il suo casino di Fasana, “acciò con tal erezzione di molini maggiormente s’aumentassero le rendite di d.o stato e principal camera”. I lavori iniziati nel 1743 proseguivano nell’agosto dell’anno dopo, quando il principe per completarli, dovette indebitarsi per 2500 ducati con il cassiere della dogana di Crotone Pietro Asturelli.[xx] La costruzione di mulini ad acqua continuerà ancora nell’Ottocento.[xxi]

Strongoli (KR), casino di Fasana.

La presenza di mulini sul basso corso del Tacina, in territorio di Roccabernarda ed in diocesi di Santa Severina, è segnalata fin dal periodo normanno. In un documento del 1118, riguardante la controversia tra Arnaldo detto de Fontana Coperta ed il monastero della Matina, per le proprietà di un piccolo monastero costruito in località “castellum”, oggi Castellace, presso il Tacina, così sono descritti i confini di un terreno prossimo al fiume: “euntes a molendino quod incepit facere Gottofridus”. Dal documento si ricava che il magnate Gottofridus, figlio di Yvum, abate preposto dal duca Ruggero al monastero, aveva incominciato la costruzione di un mulino ad acqua vicino ad “Armirò”.[xxii]

La costruzione dei primi mulini ad acqua sul Tacina, di cui si ha notizia, sembra quindi opera del monachesimo. Tale attività va inserita nel processo di accumulazione delle terre da parte delle abazie, specie benedettine[xxiii] e cistercensi, e nell’economia curtense. Il disboscamento e l’espansione della cerealicoltura, per consentire una sufficiente autonomia economica ad una folta comunità, dovettero conciliarsi con una minore dipendenza dal lavoro dei servi e degli schiavi, e con l’imperativo di permettere ai monaci di dedicarsi ai doveri spirituali.

Il mulino idraulico diminuì il bisogno di braccia e aumentò il macinato. Lo sfruttamento dell’energia idraulica per la macinazione si espanse.[xxiv] Tra i privilegi dell’arcivescovo di Santa Severina, confermati da papa Lucio III nel 1183, troviamo la “ecclesiam Sanctae Maria … juxta Tachinam cum terris, vineis, et loco molendini”.[xxv] e tra i possessi confermati da Innocenzo III al monastero di Sant’Angelo de Frigillo nel 1205, vi è “locum ipsum in quo prefatum monasterium situm est, cum omnibus pertinentiis suis, scilicet … aquis, molendinis et rivis”.[xxvi]

Roccabernarda (KR), panorama della bassa valle del Tacina. In evidenza i ruderi dei mulini della Canusa.

I mulini de “la Canusa”

La cultura “de Laconusa” confinata “ab una parte ipsius est flumen Tacinae, ab alia vallonus de Mantii, ab alia terra Archiepiscopatus S. Severinae”, risulta tra i beni concessi all’arcivescovo Ruggero di Santa Severina da re Carlo II d’Angiò, in Napoli il 16 novembre 1283, poi confermatigli dallo stesso sovrano l’11 aprile 1293, VI indizione, “apud Meledunum”.[xxvii] Una inchiesta condotta nel 1308, ai tempi di Lucifero de Stefanizzi, fratello e successore del precedente, faceva risalire il possesso arcivescovile della cultura “dela conusa”, appartenente “de tenimentum eiusdem t(er)re s(anc)te severine”, già ai tempi dei re cattolici di Sicilia.[xxviii]

Nel Quattrocento, tra i mulini presenti sul Tacina e i suoi affluenti, i più importanti sono quelli della Canusa del marchese di Crotone. Alla metà del secolo, tra i beni in potere della Corte, perchè confiscati da re Alfonso d’Aragona ad Antonio Centelles per la sua ribellione, troviamo: “Mesuracha, ce so li molini … Rocha Bernarda, li mulini”.[xxix] Il 30 marzo 1445, nel castello di Barletta, il detto sovrano concedeva in feudo al nobile e familiare regio “johanni dela via”, un “molendinum dirutum vocatum dela canosa” al momento nelle mani della regia corte, sito e posito “in tenimento de ombra de manno de pertinenciis t(er)re n(ost)re Rocce bernarde de provincia calabrie ultra confrontatum et terminatum cum tenimento de verde cum tenimento de pantano et aliis eius verioribus confinibus”.[xxx]

Reintegrato nei suoi feudi nel giugno 1462 da re Ferdinando, Antonio Centelles concesse a Giovanni de Colle “il feudo Umbro di Manno e li molini della Canusa nelle pertinenze di Rocca Bernarda”. La figlia di costui, Elena de Colle, li portò in dote a Francesco Ferrari. Al centro di una vertenza intentata dalla seconda moglie del Centelles, Costanza Morano, che ne rivendicava il possesso,[xxxi] i mulini furono riconfermati ai de Colle il 27 settembre 1483 da re Ferdinando. Schieratosi Francesco Ferrari con i Francesi, Fernandez de Cordoba, il Gran Capitano, lo spogliò ed i suoi beni nel 1504 furono concessi ad Andrea Carafa, conte di Santa Severina.[xxxii]

Roccabernarda (KR), in evidenza i ruderi dei mulini della Canusa in località “i cinque Mulini”.

Noti come i mulini della Canusa e di Copati, i nove mulini detti della Canusa “di alto e di bascio”, posti sulla riva sinistra del fiume Tacina, si aggiunsero alla contea di Santa Severina, alle terre di Cutro e San Giovanni Minagò, al feudo di Crepacore, e agli altri beni venduti nel 1496 dal re Federico d’Aragona ad Andrea Carafa,[xxxiii] e per tutta la prima metà del Cinquecento rimasero al conte di Santa Severina.

Risalgono al tempo di quest’ultimo i lavori di “reedificatione delle molina nostre della Conosa site nel Territorio della Rocca Bernarda”, che comportarono l’occupazione di alcune delle vicine terre arcivescovile nel luogo detto “le Fosse”, in particolare per la realizzazione dell’acquedotto, come attesta una lettera del conte del 23 giugno 1522 diretta al capitano di Santa Severina:

“Item detto procur.re di d.ta Ecc.a have esposto ch’in la reedificatione delle molina / nostre della Conosa site nel Territorio della Rocca Bernarda, e stata occu / pata parte d’una gabella seu territ.o di detta Chiesa nel luogo detto le Fosse, / e massime nel fare dell’aque dutto di dette Molina, supp.do che per Inden / nità di detta Chiesa vogliamo donare alcuna cosa Equivalente, di maniera / che l’Ecc.a venga ad essere relevata de tal iattura. Noi dunque volendo pro / vedere all’Indennità dell’Ecc.a vi commetemo et ordinamo che debiate conferirvi / personalm.te insieme con Carlo Bonaiuto per loco, et invocato Notario Elefante / Erario di Rocca Bernarda et altri massari e persone fide digne della p.ta Terra, /et havuto informatione della conditione, qualità et quantità della pred.a Terra / dell’Ecc.a et appretiato il danno e detrimento consequito per il formale et / aque dutto del Molino, darete opera chi detta Ecc.a habbia equivante terreno / nelle pertinentie di S.ta Severina sive di Rocca Bernarda in Scambio e, / ricompensa di quello che la comital corte have pigliato per il Formale et Aque / dutto predetto.”[xxxiv]

I mulini “della Canosa” compaiono tra i beni feudali ceduti nel 1551 da Galeotto Carafa, conte di Santa Severina, a Ferrante Carafa, duca di Nocera. Da allora in poi i mulini fecero parte dello “Stato di Cutro” e ne seguirono le sorti.[xxxv] Morto nel 1558 Ferrante, passarono al figlio Alfonso. Da un atto notarile veniamo a conoscenza che l’otto giugno 1578, sotto la torre della terra di Cutro, gli erari del duca misero all’asta l’affitto per un anno dei mulini della Canosa, e li aggiudicarono al notaio Ferrante Colicchia per mille e duecento tomoli di grano “la grossa”, da pagarsi entro il mese di maggio, con l’impegno però per la corte ducale, di aggiustare “li canaletti dele molina”, “di acconsar la prisa” e di compiere altri lavori.[xxxvi]

Roccabernarda (KR), ruderi dei mulini della Canusa in località “i cinque Mulini”.

Alla morte di Alfonso, nel 1581 subentrò il figlio Ferrante. Fu durante il periodo in cui Cutro fu feudo del duca Ferrante, che i mulini della Canosa e di Copati furono venduti e poi ricomprati dal feudatario. Risale a questi anni la stesura di alcune norme che regoleranno i rapporti tra il feudatario e l’affittatore dei mulini. Tra i capitoli stipulati nel 1592, tra la corte ducale e l’affittatore dei mulini Gio. Ferrante Mendolara, vi era l’obbligo per la corte di riparare i mulini e/o la presa, qualora il Tacina li avesse rovinati, e di comperare e fare condurre le “saitte” e gli “stramoni” mancanti.

Sempre la corte: a settembre doveva consegnare ducati 30 all’affittatore per le pietre ed i ferri, ad aprile fare le pulizie degli acquedotti, ed a maggio anticipare all’affittatore 50 tomoli di grano, che questi avrebbe restituito in agosto. L’erario, o il conservatore del duca, inoltre, mese per mese a sue spese, doveva andare ai mulini a prendersi il grano dell’affitto. Il feudatario concedeva all’affittatore di tenere due paia di buoi senza pagare fida, disfida e pascolo, pascolo gratuito per gli animali usati per andare al mulino, ed ai mugnai che si fossero recati ad abitare a Cutro, un anno di esenzione dalle tasse di alloggiamento, soggiorno e fida, senza alcuna soggezione a servizi personali verso la corte. Chiunque, inoltre, avesse danneggiato gli acquedotti per innaffiare “cipolle, cauli e virzi”, sarebbe incorso in una multa di ducati 10 da spartirsi tra la corte e l’affittatore.[xxxvii]

Roccabernarda (KR), ruderi dei mulini della Canusa in località “i cinque Mulini”.

Nel 1593 i mulini pervennero al figlio di Ferrante, Francesco Maria Carafa.[xxxviii] È di questi anni la testimonianza di una via pubblica che collegava Cutro “ad Molendina Canusae” per la gabella “delle Chianette”.[xxxix] Fu durante il periodo feudale di Francesco Maria Carafa e precisamente, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, che i mulini furono in gran parte rifatti, avendo subito gravi danni da una piena del fiume. I lavori durarono alcuni anni come risulta da un contratto rogato a Cutro il 12 Gennaio 1600.

Il documento ci informa che il mastro Ascanio Faylla di Bisignano, architetto e ingegnere pubblico, assieme a Laurentio Foresta di Cutro, avevano ricevuto da Gio. Battista Oliverio, percettore del Duca di Nocera, ducati 132 come parte del pagamento “della fattura e portatura con loro bovi di 66 pezzi di stramoni et sessanta sei catene di legname che hanno bisognato per lo forte che s’è fatto in reparatione delli molini dela Canosa d’abascio, delli quali stramoni et catene parte sono coperti sotto terra et parte appareno di sopra”.[xl] Testimoniano ancora oggi questi grandi lavori di ricostruzione e ristrutturazione, la data 1604 ed alcuni nomi di lavoranti graffiti in una parte della vecchia struttura.

Tuttavia, da una ricognizione fatta pochi anni dopo nel settembre 1615, risultavano così malridotti che dei cinque mulini di basso, quattro potevano a malapena macinare a causa “che tutti li stramoni che teneno le pietre sono di tal modo infraciditi che ne li molinari passati ne presenti ci hanno potuto ne possono mettere pietre nove di sopra per non poterli sostenere”, tanto che ad uno dei quattro erano state levate le pietre ed era inattivo. Le cinque tramogge poi non potevano contenere il grano, perché vecchie e fracassate, e quindi bisognava rifarle “et la coverta di detti molina e tutta sconcia et guasta et vi mancano da circa sessanta tiylli e quattrocento ciaramidi”.

Perciò erano inabitabili e non vi si poteva macinare, specie “di inverno, che l’acque si leveriano il grano et la farina”. Il muro “dove si staglia l’acqua delli detti cinque molina e tutto aperto di modo che l’acqua se ne va a bascio et non può arrivare a bastanza a tutte le saytti quali rottura e mancamento e stato causato per non essersi riparato prima et a l’acquaro della presa fra li molina non ci può entrare acqua per tutti cinque molina per non esser stato annettato et spurgato”. Acquaro menzionato tra i confini del vignale di “Serra Rossa” appartenente al priorato di S. Pietro di Niffi (1625).[xli] Se questa era la condizione in cui versavano i mulini di basso, “nell’altri tre molina di capo sono più peggio et di più mala conditione et hanno bisogno di più riparo”.[xlii]

Roccabernarda (KR), ruderi dei mulini della Canusa in località “i cinque Mulini”.

Anche se malridotti, la domanda crescente di farina ed il rialzo del prezzo del grano, richiamavano più concorrenti e più alte erano le offerte nell’asta pubblica per l’affitto dei mulini. Si passa infatti, dai circa 1500 tomoli all’anno della fine del Cinquecento, ai 2000 nel periodo tra il 1614 ed il 1630. Successivamente, l’affitto ridiscenderà per il succedersi di cattivi raccolti, lo spopolamento e la recessione economica.[xliii]

Frattanto, i mulini con lo Stato di Cutro erano passati nel 1620 a Giovanna Ruffo di Scilla, marchesa di Licodia. Un atto notarile risalente a quell’anno, rogato il 19 luglio, documenta che il percettore della marchesa, rendeva manifesto che erano stati fatti i soliti bandi nei luoghi pubblici per l’affitto dei mulini, e che la prima domenica di agosto, sulla piazza pubblica di Cutro, “nelli setti della venerabile chiesa di Santa Caterina”, si sarebbe accesa la candela e tenuta l’asta per “l’affitto delli molini della Canosa di alto e di bascio” di proprietà della marchesa.

Da questo documento ricaviamo che i mulini potevano essere affittati assieme o separatamente, e per uno, due o più anni, a partire dal primo di settembre. Fatta l’asta pubblica, l’ultimo incantatore, dopo essere stato accettato dal feudatario ed aver dato entro 20 giorni “idonea pleggeria” di persona facoltosa di Cutro, San Giovanni Minagò, o di Roccabernarda, si impegnava a pagare le rate dell’affitto in grano mese per mese e, terminato l’affitto, a riconsegnare i mulini macinanti con le “pietre, saytte et acquedotti” in ordine, e con tutti gli attrezzi che gli erano stati consegnati.[xliv]

L’asta sarà aggiudicata al mercante Alfonso di Rose, con un contratto di fitto per cinque anni a partire dal primo di settembre seguente, ed il pagamento di 2060 tomoli di grano all’anno, “con i capitoli, patti, conventioni, promissioni et dichiarationi (…) visti, riconosciuti et letti nell’atto del presente incanto”.[xlv]

Roccabernarda (KR), ruderi dei mulini della Canusa in località “i cinque Mulini”.

I mulini continuarono a funzionare, come risulta da un documento di fitto del 1651.[xlvi] Nel 1658 succedeva alla marchesa Giovanna Ruffo il figlio Francesco Maria, che nel 1659 vendeva i beni feudali con i mulini a Francesco Filomarino, principe di Rocca D’Aspide. I mulini rimasero ai Filomarino che, tramite gli erari dello Stato di Cutro, li affittavano.[xlvii] Alla fine del Seicento essi erano ancora stimati del valore di circa 5000 ducati.[xlviii]

Sempre di proprietà dei Filomarino, poco dopo la metà del Settecento subirono gravi danni dalle piene del Tacina. Il fiume, infatti, ormai ogni anno in tempo d’inverno inondava i terreni lungo il suo corso, con gravi danni alle colture, agli animali e alle cose.[xlix] Il mutamento di regime dei fiumi discendenti dalla Sila, causato dal massiccio disboscamento dell’altopiano, con piene rovinose invernali e lunghi periodi di secca estivi, rese inutili alcuni mulini che furono perciò abbandonati,[l] mentre altri dovettero essere ristrutturati per adeguarsi alla nuova situazione.

I mulini della Canosa furono perciò rifatti e rinforzati, assumendo l’aspetto mastodontico di cui anche attualmente rimane traccia evidente. I lavori finirono nel 1776, come risulta dai numerosi graffiti, lasciati dai lavoranti. Osservando ciò che rimane, specie dell’acquedotto, si possono distinguere le diverse fasi di costruzione: quella del Cinquecento, riconoscibile in basso davanti verso valle, quella dell’inizio del Seicento, nei due muri traversali, ed i grandi lavori della seconda metà del Settecento, nella parte finale dell’acquedotto.

Ancora oggi risalendo il Tacina, sulla riva sinistra del fiume in territorio di Roccabernarda, troviamo i ruderi dei seguenti mulini: Mulini della Canosa in località detta “Cinque Mulini”, mulini del Frasso detti volgarmente “Molinazzo” in località Frasso, e mulini di Serra Rossa in località Serra Rossa, all’interno della masseria degli Albani. I primi due dovettero essere similari. L’acquedotto del primo è meglio conservato, è più grande e complesso ma manca il mulino. Il secondo, pur essendo quasi completo, esistendo ancora nelle vicinanze anche la casa del mugnaio, è mal conservato, specie l’acquedotto, anche se risulta che ha funzionato fino ad epoca recente. Il terzo diverso per struttura e di costruzione più recente,[li] è stato dismesso da non molti decenni.

Roccabernarda (KR), località “i cinque Mulini”, particolare delle iscrizione graffite sui ruderi dei mulini della Canusa.

Altri mulini del Crotonese

La presenza di mulini d’acqua in territorio di Crotone è documentata fin dalla metà del Duecento. Infatti, in un atto di donazione fatta nel 1159 da Curbulino, al monastero eremitano di San Stefano Protomartire, compare il toponimo “fossam Molendini”. Esso fa parte della confinazione di un fondo in territorio di Crotone presso il torrente Armira[lii] (Armeri), nelle vicinanze dell’odierna località Cipolla.

Anche sul fiume Neto sono segnalati mulini già nel Duecento; infatti, nel 1149 re Ruggero, confermando i privilegi dell’abbazia di Calabro Maria di Altilia, dava “licentia et potestate recipere aquam libere a flumine Neti pro facendis molendinis”.[liii] È nota la controversia sorta nella prima metà del Trecento tra i florensi ed il monastero del Patire di Rossano, per il passaggio dell’acquedotto che doveva alimentare il mulino posto nella grangia di Sant’Elena, vicino a San Petro de Cremasto nella bassa valle. I florensi ostacolavano il passaggio sulle loro proprietà dell’acquedotto, che doveva alimentare il mulino di proprietà del monastero del Patire.[liv]

Sempre i florensi ebbero nel 1258 dall’arcivescovo di Santa Severina, Nicola da San Germano, il permesso di attingere l’acqua del Neto e di convogliarla per alimentare un loro mulino. La concessione rinnovata dall’arcivescovo Lucifero nel 1301, comprendeva la possibilità da parte dei florensi di riedificare un altro mulino nelle terre dell’arcivescovo, qualora il fiume avesse mutato corso.[lv]

Piene rovinose del Neto con danni ai mulini sono segnalate fin dalla seconda metà del Cinquecento.[lvi] Alla fine del secolo, sotto l’abbazia di Altilia, vi erano i mulini di Giovanni Barracco detti di Ardavuri, ed il mulino di Alessandro Infosino. A questi si aggiungerà quello costruito dall’abbate commendatario dell’abbazia di Altilia, Tiberio Barracco,[lvii] che nel 1601 concederà ai monaci dell’abbazia di potervi macinare gratuitamente il loro grano.[lviii]

A tale periodo risalgono alcune notizie riguardanti dei mulini situati in territorio di Belvedere Malapezza. Il barone del luogo, Marcantonio Lucifero, possedeva tre mulini sul fiume Neto vicino alla località “lo giardino”. I mulini stavano “tutti e tre in una casa”, e nell’anno 1588/89 erano affittati per 200 tomoli di grano.[lix] Nella carta di G. A. Rizzi Zannoni alla fine Settecento, sul Neto presso Belvedere ed Altilia, sono indicati il “mulino di S. Tomaso” e quello di località Barretta.[lx]

Il “Mol.no di S. Tomaso” e quello di Barretta, con i rispettivi acquari, evidenziati in un particolare della tavola N° 29 (1789) della carta di G. A. Rizzi Zannoni.

Sempre alla fine del Cinquecento un altro mulino era in funzione in territorio di Rocca di Neto ed il feudatario, il conte di Martorano, lo dava in fitto ogni anno.[lxi] Alcuni decenni dopo nel 1631, sempre di proprietà feudale, in territorio di Rocca di Neto troviamo quattro mulini. In quell’anno questi furono venduti assieme ad altre proprietà feudali, da Francesco Campitello a Mario Protospatario. Quattro mulini, tutti in una casa, furono edificati nella seconda metà del Seicento, dal nuovo feudatario di Rocca di Neto, i certosini di San Stefano del Bosco, i quali presero a censo per la loro costruzione, un piccolo terreno dall’abbazia di S. Giovanni in Fiore.[lxii] Questi mulini sorgevano in località Scillopio Sottano, ed erano affittati in grano dal feudatario, assieme ad un piccolo terreno agricolo vicino e alle stanze situate sopra, che erano utilizzate dai mugnai come abitazione.[lxiii] Essi erano ancora attivi all’inizio del Novecento.[lxiv]

Nella bassa valle del Neto, sempre sulla sponda sinistra del fiume, i coniugi Ferdinando e Lucrezia Pignatelli, principi di Strongoli, fecero costruire nel 1743/1744, vicino al loro casino di Fasana, tre mulini.[lxv] Importanti mulini di cui abbiamo notizia, erano anche quelli di Corazzo,[lxvi] sulla sponda destra presso il guado del Neto. I proprietari dei mulini nel Seicento pagavano un annuo censo all’abbazia di Santa Maria di Corazzo.[lxvii] I mulini funzionavano ancora alla fine dell’Ottocento. Altri mulini erano situati lungo gli affluenti del Neto, specie il Lese e il suo affluente Lepre.[lxviii]

Scandale (KR), località Corazzo. Il luogo in cui erano i mulini.

Troviamo alcuni mulini alla fine dell’Ottocento in territorio di Crotone in località Caramanli, e sotto Apriglianello presso il vallone Mezzaricotta. Altri erano tra Isola e Le Castella lungo il torrente Vorga ed i suoi valloni, e nelle vicinanze di alcune sorgenti nei pressi dei casali di Massanova e San Pietro in Tripani. In documenti del Duecento sono segnalati “lo molino de lo episcopato de Asila”, situato nel vallone tra le colline di S. Stefano e S. Costantino,[lxix] il mulino costruito da “Monachus” sul torrente Ceramida, di proprietà del monastero del Patire,[lxx] ed un mulino nel casale di Massanova presso la chiesa di Sant’Anna.[lxxi]

All’inizio del Cinquecento ci sono: il mulino di Paolo Marrella, poco lontano dalla foce del Vorga, quello di Simone Scazurlo, poi del diacono Vincenzo Scazzurlo,[lxxii] più a monte, sotto San Fantino, nel vallone di Pilacca a Porcarito, e quelli di Scipione de Sancto Croce e di Melchiore Barbamayore, situati presso il casale di S. Pietro di Tripani.[lxxiii]

Alla metà del Settecento la principessa di Isola, Ippolita Caracciolo, possedeva i mulini “d’acqua” di Ilice (già esistente nel 1696), di Porcariti e di Zagora;[lxxiv] altri mulini si trovavano nel luogo detto il Ponte, sempre sul Pilacca (proprietari erano Giacomo e Giuseppe Puglise e Marco Pedace), sotto San Pietro (proprietari il primiceriato ed il canonicato di S. Giuseppe), e nel luogo detto Petrantino (Paolo Colucci).[lxxv]

Isola di Capo Rizzuto (KR), ruderi di un mulino in località Caprarizzo.

Da ricordare ancora quelli esistenti alla fine del Seicento nei pressi della città di Santa Severina. Vicino al convento dell’Osservanza vi era una copiosa sorgente e poco sotto, 7 mulini di proprietà privata servivano sia i cittadini di Santa Severina che di Scandale.[lxxvi] Altri mulini di cui si hanno notizia all’inizio del Seicento, in territorio di Casabona e appartenenti al feudatario Scipione Pisciotta, si trovavano in località San Sosto, Acqua Dolce, Santo Biase e due in località Carvanello.[lxxvii]

Sempre negli stessi anni in territorio di Melissa in località la Punta, in uno dei valloni che sfociano nel torrente Lipuda, vi erano due mulini di proprietà del feudatario Francesco Campitelli. Egli li affittava per tomola 212 di grano all’anno.[lxxviii] Mulini sorgevano inoltre lungo il Lipuda, che “anima i molini sotto Umbriatico, e più giù quelli di Carfizzi, e poi di Melissa”.[lxxix]

Note

[i] L’università di Cutro possedeva la gabella, o dazio, della farina che nel 1594 era a ragione di grana 12 e mezzo per tomolo di grano, che si mandava a macinare. In quell’anno l’asta fu vinta da Gio. Vittorio Arabbia che offrì ducati 1220. All’inizio del Seicento era salita a grana 15 per tomolo. ASCZ, Busta 12, anno 1594, ff. 146-147; Busta 59, anno 1610, ff. 112, 117-118.

[ii] L’università di Crotone possedeva da tempo antico il dazio, o gabella, della macina della farina, alla ragione di un carlino per tomolo, che le fruttava ogni anno circa ducati 900. Alla fine del Cinquecento la tassa fu elevata ad un tari per tomolo di macinatura di grano. La gabella, previo assenso regio, veniva affittata “con li capitoli soliti et centimoli dentro la citta”. Per combattere le frodi che si commettevano, nel 1632 l’università ottenne dal re che si levassero i mulini dalle case dei padroni e si concentrassero, come nel passato, in un unico luogo, obbligandosi a costruire a sue spese le case per i mulini. ASCZ, Busta 49, anno 1591, ff. 65-70. ASN, Prov. Caut. Vol. 17, f. 18 (1589); Vol. 26, f. 81 (1598); Vol. 146, f. 394 (1632).

[iii] Ancora all’inizio del Seicento, nel castello di Crotone vi era “uno molino di pietra che non macina più per non esserci mula”. ASCZ, Busta 118, anno 1630, ff. 42-46.

[iv] Nel 1570 in un catoyo del palazzo vescovile vi era un centimulo per uso del vescovo. ASN, Dip. Som. 315/9, Conto del m.co Giulio Cesare de Leone sopra l’entrate del vescovato di Cutrone, 1570 et 1571. S. Duarte possiede “un molino macinante cioè pietre e legname tantum”. ASCZ, Busta, 612, anno 1716, f. 91.

[v] Nel marzo 1764, mancando la farina, poiché “li centimoli di questa città (Crotone) non macinavano e pochissimi erano quelli che facevano tal mestiere per uso di casa”, per poter fornire il pane per l’annona si porta il grano per essere macinato dalle “panettiere” ai mulini ad acqua di Corazzo, che si trovano sul Neto in territorio di Scandale. ASCZ, Busta 1324, anno 1764, f. 106.

[vi] L’università di Cotronei si rivolge al re perché, dovendo riparare un’ogliara che possedeva da più secoli, ne era impedita dal feudatario il quale, non solo minacciava di demolirla, ma facendosi forte dello “jus prohibendi”, impediva ai cittadini di andare a macinare le olive anche nelle proprie ogliare, ed in quelle appartenenti alle cappelle del SS.mo Rosario e di S.to Antonio. ASN, Prov. Caut. Vol. 294, f. 156 (1698).

[vii] ASCZ, Miscellanea monastero di S. Maria di Altilia, 529, 659, B. 8, f. 3.

[viii] Nel 1219 Federico II concede che il monastero florense possa “molendinum aedificare in tenimento Acherentiae”. Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 219.

[ix] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 478.

[x] De Leo P., “Reliquiae” florensi, in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, San Giovanni In Fiore 1980, p. 409.

[xi] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 212.

[xii] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 534.

[xiii] Nel 1472 re Ferrante vendeva a Diego Canaviglia la terra di Casabona coi feudi di Cocumazzo e S. Nicola dell’Alto, “et cum molendinis arrendatis per Mateum de Aragona”. Maone P., Casabona feudale, Historica n. 3/4, 1964, p. 144.

[xiv] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 292.

[xv] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 311.

[xvi] Nell’apprezzo di Mesoraca del 1574, tra i beni burgensatici del feudatario vengono ricordati due mulini macinanti in località “l’orangi”, sei mulini presso l’abitato e due mulini ormai “ruinati” in località “Piraynetto”. Caridi G., Decime ecclesiastiche e diritti signorili sui pascoli nel territorio di Mesoraca nei secoli XVI e XVII, in ASCL 1984, p. 70 sgg.

[xvii] Alla fine del Cinquecento, il monastero di S. Francesco di Paola di Roccabernarda acquisisce dall’ecclesiastico F. Cosentino, un mulino in località Brancati che poi rivende. Mazzoleni J., Fonti per la storia della Calabria nel Viceregno, Edisud 1968, p. 13.

[xviii] L’abazia di S. Angelo in Frigillo “Proximum habet flumen quod paulo inferius labitur, prope muros dicti oppidi (Mesoraca) ad commodum molendinorum tam abatiae quam oppidi”. De Leo P., Certosini e Cisterciensi nel Regno di Sicilia, Rubbettino 1993, p. 198.

[xix] ASCZ, Busta 1324, anno 1764, ff. 106-107.

[xx] ASCZ, Busta 1063, anno 1744, ff. 38-51; Busta 666, anno 1744, ff. 55-56.

[xxi] Nel 1846 un decreto autorizzava il comune di Roccabernarda a concedere in enfiteusi, un suolo comunale a Leonardo le Rose per costruirvi un mulino. Valente G., La Calabria nella legislazione borbonica, Effe Emme 1977, pp. 473-474.

[xxii] Il magnate Gottofridus figlio di Yvum, subentrò ad Alioctus nell’amministrazione del monastero di San Nicola presso il fiume Tacina. Il monastero era stato fondato e dotato da Nicola Grimaldo visconte e signore di Santa Severina. Pratesi A., Carte latine di abbazie calabresi, Città del Vaticano 1958, pp. 28-29.

[xxiii] Già nell’anno Mille tra le proprietà dell’abazia benedettina di Montecassino, troviamo un “molendinum aquarium”. Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1865, pp. 11-12.

[xxiv] Nel 1132 la contessa di Crotone Mabilia conferma all’abate Luca del monastero del Patire, il monastero di S. Costantino in territorio di Isola, “cum molendino existente in rivo Ceramide quae Monachus fecit”. Ughelli F., Italia Sacra, IX, 481-482.

[xxv] Lucio III e l’arcidiocesi di Santa Severina, in Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 10.

[xxvi] Pratesi A., Carte latine di abbazie calabresi, Città del Vaticano 1958, p. 200.

[xxvii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 84A, ff. 39-39v.

[xxviii] AASS, Fondo Pergamenaceo, n. 3, 1308.

[xxix] Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, Fiorentino Napoli 1963, pp. 278-279.

[xxx] ACA, Cancillería, Reg. 2907, ff. 81v-82.

[xxxi] “Magnifico Joannocto Morano per certe molina nominata dela Canusa in tenimento delo fiume de Tacina pertinentie di Calabria” (1470). ASN, Regia Camera della Sommaria, Segreteria, Inventario.

[xxxii] Fiore G., Della Calabria Illustrata, Chiaravalle Centrale 1977, III, pp. 326-327.

[xxxiii] ASN, Ref. Quint. 207, ff. 78-122.

[xxxiv] AASS, Fondo Arcivescovile, Volume 1A, f. 182.

[xxxv] Il feudatario possedeva “nella terra di Cutri; la mastro d’Attia la quale va unita con quella delle Castelle e di S.to Giovanne Minagò, la Bagliva coli suoi corpi annessi li cenzi minuti, così feudali come burgensatici, Adoha del subfeudo di Paparone, Ancoragio della marina di Cotrone, Taverna nella piazza, Poteca nel medesimo luoco, jus della fiera di S.to Vittorio, le molina della Canosa, il corso di S.to Vittorio in sù e in giù seu la chianetta et con diversi altri territori”. ASN, Ref. Quint. Vol. 207, f. 83.

[xxxvi] ASCZ, Busta 12, anno 1578, f. 181.

[xxxvii] ASCZ, Busta 60, anno 1595, ff. 218-219.

[xxxviii] ASN, Ref. Quint. 207, ff. 78-122.

[xxxix] 16 dicembre 1597. “Censuarij habentes Census veteres, et Censuarij novi promittentes solvere sunt infr.s V.t / Cutro, In Gabella delle Chianette / Die 16 mensis xbris xi Indict.s 1597 (…) Jo: Vincentius, et Jo: Franciscus de Maida dictae Terrae dixerunt habere petium Terrae / cum Vineis, et terreno vacuo in d.a Gabella delle Chianette iuxtam Terras Joannis Ferdi / nandi Mendolara, viam publicam qua itur ad Molendina Conusae, et alios fines, pro / miserunt solvere insolidum anno quolibet tumulos sex Cum dimidio Grani in medie / tate Augusti Cum pactis Emphiteuticis, ut supra in perpetuum.” AASS, Fondo Arcivescovile, Cartella 124B, f. 2v. Archivio Piterà, s.c.

[xl] ASCZ, Busta 58, anno 1600, f. 6v.

[xli] “Item un altro pezzo di terra di d.o Priorato, similm.te sito, e posto nel territ.o di S. Mauro nel Curzo di Verde di capacità di tum.e cinque inc.a aratorie, confina dalla parte di sopra verso Tramontana, la via publica, e dalla parte verso occidente confina col termine di Serra Rossa confine S. Sodaro, e l’acquaro che và alli Molina della Conusa, e dalla parte verso levante, e mezo giorno confina con un vignalicchio dell’heredi di Dom.co Tersigna e lo Vallone che viene di Serra Rossa, ed alla destra di S. Sodaro, e le pred.e terre di Serra Rossa sonno della Corte della Rocca Bernarda (…) Item un altro vignale sito, e posto in d.o luogo, e Curzo di capacità di tum.e 3 inc.a limitato e terminato tutto à torno della Cabella pred.a di Serra Rossa della Corte pred.a della Rocca Bernarda e per m(ezzo di) d.o Vignale passa l’Acquaro, che và alli Molina della Conusa per direttura sotto l’Arie di Serra Rossa pred.a.” AASS, Fondo Arcivescovile, Volume 41A, f. 64.

[xlii] ASCZ, Busta 69, anno 1615, ff. 54v-55.

[xliii] Nel 1595 i mulini furono affittati per 3 anni a 1580 tomoli di grano all’anno; nel 1610 a Sigismondo de Bona per 4 anni per 1560 tomoli; nel 1614 a Gio. Ferrante Mendolara per 5 anni per 1930 tomoli; nel 1620 ad Alfonso de Rose per 5 anni per 2060 tomoli; nel 1625 a Renzo de Martino per 5 anni per 1903 tomoli; nel 1635 a Michele Milioti per 5 anni per 1600 tomoli. ASCZ, Busta 60, anno 1595, f. 214; Busta 69, anno 1610, ff. 68-69; Busta 69, anno 1615, ff. 42-43; Busta 70, anno 1620, ff. 49-52; Busta 71, anno 1625, f. 59; Busta 71, anno 1635, f. 80.

[xliv] ASCZ, Busta 69, anno 1610, ff. 68-69.

[xlv] In precedenza, per 5 anni lo aveva affittato nel 1610, Gio Ferrante Mendolara. ASCZ, Busta 70, anno 1620, ff. 49-52.

[xlvi] Il 22.10.1651 sulla piazza di Cutro, l’erario dello stato di Cutro, Marco Antonio di Bona, per ordine e mandato del capitano Luca Antonio Oliverio, generale governatore, mette all’asta l’affitto dei beni feudali, tra i quali i “molina della Canosa”. ASCZ, Reg. Ud. Cart. 383-47, fasc. VII-172, f. 90.

[xlvii] Il 4.9.1664 l’erario dello Stato di Cutro metteva all’asta l’affitto dei mulini della Canosa di alto e di basso, che furono aggiudicati a Francesco Affittante di Cotronei, che già li aveva in fitto da anni, per 1500 tomola di grano all’anno, iniziando dal primo di settembre. ASCZ, Busta 231, anno 1664, f. 62.

[xlviii] Nella asta del 1686 i mulini della Canosa vennero stimati ducati 5008. ASN, Ref. Quint. 207, ff. 78-122.

[xlix] Nel 1762 il Tacina inonda le terre di Terrata e Camerlingo in territorio di Roccabernarda, causando l’affogamento di 16 capi di bestiame. ASCZ, Busta 696, anno 1764, ff. 21v, 37v.

[l] Il monastero di Altilia possedeva un mulino sul Neto in località Radicchia, “ma per mancanza dell’acqua sufficiente si rese inutile, e diruto, e consisteva in una sola casetta terrana con pochi attrezzi, e ceramidi e senza porta”. ASCZ, Cassa Sacra, Lista di carico, Altilia, Monastero de PP. Cisterciensi, f. 33.

[li] Le terre di Serra Rossa ora di proprietà degli Albani, alla metà del Seicento facevano parte del feudo di Papalione di Bernardino Oliverio di Cutro. ASCZ, Reg. Ud. Cart. 383-47, fasc. VII-172.

[lii] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1865, pp. 208-209.

[liii] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 478.

[liv] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 517-519.

[lv] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 212.

[lvi] Nel 1578 Antonella Trombatore vendeva a metà, perché danneggiati dalle piene del Neto, 3 dei 5 mulini acquistati 8 anni prima. Sono ricordati in territorio di Santa Severina, anche due mulini in località Yroleo ed uno vicino al vallone di Monastria. Caridi G., Uno “stato” feudale nel Mezzogiorno spagnolo, Gangemi 1988, pp. 85-86.

[lvii] ASCZ, Miscellanea monastero di S. Maria di Altilia, 529, 659, B. 8, f. 3.

[lviii] ASV, Congr. Statu Regul. 1650, 16, B, Relazioni dei Cistercensi an. 1650, ff. 68-74.

[lix] ASN, Somm. Relevi Vol. 352, inc. 4. Sempre il feudatario di Belvedere Malapezza, nel 1743 possedeva tre mulini dentro la difesa Barretta. Maone P., Notizie storiche su Belvedere Spinello, in ASCL n.1/2, 1962, p. 48.

[lx] Gius. Guerra inc. Nap. 1789.

[lxi] ASN, Somm. Relevi Vol. 352, inc. 4.

[lxii] Esistenti già nel 1639, in seguito fecero parte delle rendite feudali della grancia di Rocca di Neto dei certosini di San Stefano del Bosco. Placanica A., Il patrimonio ecclesiastico calabrese nell’età moderna, Frama’s 1972, p. 298.

[lxiii] Caridi G., Il latifondo calabrese nel Settecento, Roma 1990, p. 133.

[lxiv] Nel 1809 il comune di Rocca di Neto ne rivendicò il possesso, trovandosi i mulini in un terreno di proprietà comunale. Gallo Cristiani A., Piccola cronistoria di Rocca di Neto, Roma 1929, pp. 71, 75.

[lxv] ASCZ, Busta 1063, anno 1744, ff. 38-51, 56-63.

[lxvi] ASCZ, Busta 1324, anno 1764, ff. 105-106.

[lxvii] Nel 1633 i mulini, situati alla “Coltura di Corazzo”, erano posseduti da Gio. Domenico de Franco, prima erano stati di Carlo Susanna, che pagava un censo annuo di ducati due e grana cinquanta all’abbazia di Corazzo. Borretti M., L’abbazia cistercense di S. Maria di Corazzo, in Calabria nobilissima, n. 44, 1962, p. 135.

[lxviii] Nel 1576 lungo il fiume Lepre, vicino alla grancia di Bordò, vi era il mulino di Francesco Salvino. Maone P., Caccuri monastica e feudale, Portici 1969, p. 29.

[lxix] Nell’aprile 6680 (a. m.) Guglielmo, re di Sicilia, conferma al monastero della Santa Trinità de Magliola, la grancia di S. Stefano posta in territorio di Isola. I confini della grancia passavano per “Catoriaci o vero mal vallone et passa lo mal vallone per sotto lo molina delo episcopato de Asila”. AVC, Processo Grosso AVC, Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato, ff. 67-68.

[lxx] Nel 1128 la contessa di Crotone Mabilia conferma all’abate del monastero del Patire Luca, la chiesa di S. Costantio ed il mulino in territorio di Isola già donati da Giovanni, vescovo di Isola. Ughelli F., Italia Sacra, IX, 481-482.

[lxxi] AVC, Privilegio dello Sacro Episcopato della citta dell’Isula, in Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato.

[lxxii] “Instrumento di concessione a Gio. Matteo e Ottavio Scazzurlo per Mons. Caracciolo in carlini 15 per lo censo del Pantano nel territorio detto Porcarito confine lo molino del Diacono Vincenza Scazzurlo nell’anno 1575.” AVC, s.c.

[lxxiii] I due mulini sono nominati in un atto del 1538 riguardante la concessione in enfiteusi del casale da parte del vescovo Lambertini in favore del feudatario di Isola. AVC, Carte antiche del vescovato di Isola.

[lxxiv] ASCZ, Busta 1063, anno 1749, ff. 1-10.

[lxxv] AVC, Catasto Onciario di Isola, 1768/69, ff. 49v, 59v, 87, 90.

[lxxvi] Un apprezzo della città di Santa Severina, in Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 122.

[lxxvii] Maone P., Casabona feudale, in Historica n. 5/6, 1964, pp. 195-196.

[lxxviii] ASN, Somm. Relevi vol. 383, Fs. 29. Ancora nel 1831 risultavano affittati i due mulini del feudatario detti di Passeri e Celsi. ASN, Arch. Pignatelli Ferrara di Strongoli, Fs.lo. 75, inc. 83.

[lxxix] Pugliese G. F., Descrizione ed istorica narrazione dell’origine, e vicende politico-economiche di Cirò, Napoli 1849, p. 38.


Creato il 23 Febbraio 2015. Ultima modifica: 6 Maggio 2024.

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