La vita al femminile nel Marchesato di Crotone

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Foto Archivio ARSAC.

La guaritrice

Isola 1617. Nella curia vescovile di Isola il procuratore fiscale interroga una donna. Dopo averla ammonita a dire la verità sotto pena di incorrere nelle sanzioni previste per gli spergiuri e nella scomunica, egli le chiede l’arte o professione che esercita e se conosce rimedi per sanare e guarire. Fatta un’indagine sugli ultimi suoi spostamenti e su dove ha abitato ed abita, su chi l’ha ultimamente confessata e comunicata, e se c’è qualcuno che le vuole male, l’inquisitore le domanda dove ha trascorso i mesi di luglio e di agosto 1616.

L’intento è di indagare sui rapporti intercorsi tra la donna ed il nemico della chiesa isolitana, il barone di Isola Antonio Ricca. L’istruttore cerca di individuare chi ha somministrato i medicamenti che la donna confezionò per il barone, quando consultata sulla malattia che affliggeva il feudatario, aveva riconosciuto che senza dubbi egli era stato “ammagato”.

Messa alle strette, dopo aver risposto sui denari avuti e su quante e quali magie avevano colpito ed affliggevano il barone e come esse si manifestavano, l’interrogatorio si sposta per indagare su altri fatti in modo da colpire altri nemici della chiesa. Conosce la donna Marco Carnelivare e Gio. Maria de Florio, della città di Isola, ed è a conoscenza se anche loro sono stati ammagati ? Sappiamo che il Carnelivare è stato a Papanice. Egli era ammalato ed ospite di Minico Protopapa e fu da lei curato. Quale era la sua malattia e quali libretti libretti gli fece leggere e quale era il loro contenuto. Perché lo addentò al collo, dopo che si era accorta che era stato ammagato da due magie: una per togliergli “la robba e l’honore” e l’altra la vita ?

La minacciosa disamina continua sempre più incalzante. Per quante mattine ha somministrato l’infuso di polvere di erbe e come era composto ? Conosce il De Florio ? Ha essa tenuto in custodia cose di costui e quali ? Pietro d’Aprigliano le portò delle “ligaccia”. Esse appartenevano al De Florio. Per quale motivo le furono portate ? Che cosa disse Geronimo Paradiso di Isola ? È vero che lo consigliò dicendogli che se il De Florio avesse potuto stare in mezzo “alle bascione et havesse usato con donne l’haveria sanato” ? Come conobbe dalla “ligaccia” che al De Florio erano state fatte tre magie ?[i]

 

Una unione contrastata

Isola 14 maggio 1642. Beatrice Corraduccio di Isola, moglie di Francesco Delillo, acconsente allo sposalizio della figlia con Tommaso Borrello, andando contro la volontà del signorotto del luogo Antonio Catalano, amministratore e tutore del barone di Isola.

Venuto a conoscenza del fatto, a nozze avvenute, il Catalano manda subito i suoi creati a prendere la madre della sposa che viene buttata in carcere, maltrattata di molte bastonate e più volte malamente offesa. Il vescovo di Isola Antonio Celli, che è ai ferri corti con la corte baronale per motivi di interesse, conosciuta la vicenda la associa a molti altri soprusi, perpetrati dal rappresentante del barone e dai suoi sgherri. Viene così stesa un’istanza, corredata da numerose denunce e testimonianze, che viene inviata al viceré.

È nominato a verificare le gravi accuse, esposte dal vescovo, il funzionario Scipione Salituro. Come si sparge la notizia che il regio consigliere si è insediato a Cutro e sta procedendo ad esaminare i testimoni, il Catalano corre ai ripari e comincia a fare opera di corruzione. Così in presenza del regio capitano di Crotone Didaco Ram de Montoro, Beatrice Corraduccio, accompagnata dal marito, dichiara che è certamente vero che essa fu carcerata, ma il motivo fu che essa ebbe “certe parole ingiuriose” con Geronima Borrello, sorella carnale del futuro sposo della figlia. Durante il tempo che patì il carcere “non fu maltrattata di bastonate ne di altro modo offesa”, né per ordine del Catalano, né di suoi creati né di altre persone.[ii]

 

La baronessa di Carfizzi

Carfizzi 26 agosto 1676. Nel 1674 a causa di molte bastonate il mastrogiurato di Carfizzi, Giuseppe Basta, passò da questa all’altra vita e fu umanamente seppellito. La baronessa del casale, l’aristocratica crotonese Antonia Suriano, ordina subito di fare delle indagini e viene scoperto il colpevole. Carlo Puglano è così catturato e gettato in prigione su ordine della corte baronale di Carfizzi. Dopo più di sette mesi di carcere duro per i tormenti ed i patimenti subiti, muore ed è seppellito nella chiesa matrice di Santa Venere.

La madre del Puglano protesta e fa istanza alla Regia Udienza di Cosenza, accusando della morte del figlio la baronessa ed alcuni suoi vassalli, parenti alcuni del mastrogiurato (Fabrizio e Gio. Maria Basta e Pietro Bisulca).

Per l’insistenza e le dichiarazioni dell’accusatrice si aprì allora un’inchiesta ma la baronessa corse subito ai ripari. Essa fece convocare davanti al capitano di Carfizzi Federico Maria Zaccaro la madre dell’ucciso che, ben presto, fu costretta a ritrattare ed a scagionare sia la baronessa che i suoi aiutanti, affermando che, essendosi informata da persone degne di fede, non solo essi sono innocenti, anzi innocentissimi, ma anche ogni altra persona, perché veramente la morte del figlio era avvenuta a causa di una “infermità e come così a Dio piacque”.[iii]

 

Le vassalle del barone di Verzino

Verzino, 9 giugno 1683. Il sacerdote Michelangelo Delorenzo di Verzino fa presente al viceré che da molti anni è costretto a starsene lontano dal suo paese ed andar ramingo per la tirannia di Nicola Cortese, barone del luogo.

Il Cortese, invaghitosi di sua sorella, la voleva con la forza disonorare. Essendosi opposto a tale “sfacciataggine” fu per ordine del barone carcerato e tenuto in prigione per sei mesi e dopo aver subito vari strapazzi, fu liberato con la condizione che non si allontanasse. Né si saziò per questo il tiranno ma, essendosi la sorella accasata con Marcello Dardano, persona onorata del luogo, cominciò a perseguitare anche costui, tenendolo per lungo tempo carcerato miseramente, finché non riuscì con grandi spese a farsi liberare dalla Regia Udienza Provinciale.

Ma il barbaro non si fermò, anzi un giorno cercò di uccidere lo stesso sacerdote, incaricando due assassini ed un suo sbirro, i quali vi sarebbero riusciti, se non fossero intervenute alcune persone. Non potendo più sopportare tali persecuzioni il Delorenzo fu costretto a fuggire assieme alla sorella con il suo marito, lasciando a Verzino ogni avere.

Venutone a conoscenza, il barone fece per sdegno rovinare tutti i suoi beni, proibendo a tutti di comprarli e operando perché se ne perdesse la memoria. Allora il sacerdote fece presente la malvagità del barone. Costui a modo di sbirro si aggira di notte per Verzino, tentando di violentare l’onore delle sue vassalle senza aver riguardo alla loro condizione sociale, come accadde per Isabella Fittante.

Poiché costei resisteva alle sue voglie, il barone le fece propinare dai suoi sbirri cinquanta bastonate. Lo stesso accadde a Elisabetta Giuranna, che si oppose alla sfacciataggine del barone. Il bruto con i suoi malandrini penetrò di forza in casa della donna e di propria mano le diede molte bastonate. Similmente il barone bastonò la madre di costei, tenendola nelle carceri del suo palazzo per un mese. Un trattamento simile patì anche la vergine Anna Moranello. Poiché essa aveva rifiutato il suo libidinoso appetito, il malvagio si accanì con la madre, facendola condurre dentro il suo palazzo e con minacce le chiese il suo desiderio e poiché anche questa rifiutò, la fece appendere per le braccia dentro una camera, tenendola sospesa per un giorno intero. Appena fu libera, essa con la figlia fuggì da Verzino ma, non riuscendo a trovare i mezzi per vivere altrove, dovette ritornare. Allora il barone riuscì finalmente nel suo intento. Il barbaro ha levato l’onore e la verginità anche a Hippolita Granieri ed a molte altre.[iv]

Foto Archivio ARSAC.

 

Furto su commissione

Cotrone 26 settembre 1692. Dalla bottega del mastro sartore Giuseppe Capicchiano spariscono alcuni abiti. Il mastro comincia ad indagare e descrive i capi mancanti agli altri mastri.

I sarti Omobono Sacco e Giuseppe d’Amico si ricordano di averli scorti in casa del parroco di Santa Maria de Prothospatariis, Giovanni Millucci, quando tempo addietro erano stati chiamati dal sacerdote per rammendare e cucire alcuni indumenti. Trovata la refurtiva, ben presto viene scoperta anche la ladra: la creata del Capicchiano, Beatrice Russo da Cirò.

La giovane, che da tempo presta servizio in casa del sarto, messa alle strette, confessa. Essendo stata pregata con insistenza dal parroco a procurargli alcuni abiti dietro ricompensa, cedette alle lusinghe e fu spinta a pigliarli di notte nascostamente. Essa fu persuasa a commettere il furto soprattutto dalle parole del sacerdote, il quale le disse che “poiché il suo padrone non le dava salario, le stava bene farlo per buscarsi qualche cosa”. Scoperto il mandante il mastro voleva denunciarlo al vescovo, ma fu dissuaso con un biglietto da ducati 38.[v]

 

La ritrattazione

Cotrone 6 maggio 1696. Il diacono Andrea Magliaro stupra la vergine Berardina Rizzuto. La fanciulla su pressioni della madre sporge querela criminale nella corte vescovile, ed il diacono per non finire in carcere se ne fugge dalla città e va ramingo. Passa un po’ di tempo e riesce a convincere la ragazza a ritrattare. Essa infatti con una dichiarazione pubblica afferma che non ha mai conosciuto ed avuto a che fare con il diacono ma lo ha accusato per paura di sua madre e dei suoi parenti, affinché “non si sapessi la persona che le tolse l’honore”. Interrogata se ritrattava per paura, ovvero fosse stata pagata, minacciata o pregata, disse che tutto ciò lo faceva per discarico di sua coscienza, volendo al presente vivere cristianamente.[vi]

 

Il sequestro

Cotrone 18 febbraio 1710. Su ordine della Regia Udienza di Catanzaro e del commissario della città, il serviente ordinario Gio. Francesco Macrì con due soldati “venturieri”, Domenico Basile e Filippo di Mauro, si reca nella abitazione di Antonio Costantino, detto “Nunziato”, per eseguire un ordine di sequestro, essendo stato quest’ultimo inquisito e condannato per una frode al regio fisco.

Entrati nell’abitazione, i due soldati si impossessano di due “sprovieri”, uno bianco ed uno nero, e se li portano. Sulla porta li attende Marianna Bertuccia, la quale li affronta e tenta di riprenderseli, urlando che sono suoi. Gli sbirri non mollano la presa e con urtoni e percosse tengono a bada la donna che non desiste, anzi chiede aiuto ad alta voce. Alle grida corsero a darle man forte due chierici selvaggi, lo zio Gaetano Ferraro e Gio. Paulo Coroneo, i quali, visto i maltrattamenti subiti dalla donna, cominciarono a bastonare i soldati e, strappati dalle loro mani gli sprovieri e “quietata la baglia, se ne andarono”.[vii]

 

Il rapimento di Rosa

Cotrone 1712. Giovanni Nicoletta va con la moglie a Cutro per la devozione del Crocifisso. Venuto il momento del ritorno, con un pretesto ritarda ancora un po’ nella chiesa dove c’è la statua, mentre si libera della moglie, mandandola con i carri che prendono la via delle Lenze. Secondo la sua testimonianza egli invece, decisosi al ritorno, se ne andò per la strada che passa per la chiesa della Madonna della Consolazione, nei cui pressi incontrò la moglie di Diego de Monte, la quale lo pregò di portare con sé a Crotone una giovane di nome Rosa, nativa di Belcastro, e di metterla a padrone.

Il Nicoletta prese in consegna la ragazza e dopo averne abusato se la tenne per una notte nella sua casa ed alla mattina dopo con il nome di Rosa Nicoletta la mise a servizio presso il nobile Annibale Albani, il quale a sua volta ne approfittò e se la tenne presso di sé. Nel frattempo i genitori della ragazza denunciarono la scomparsa ed il nobile, venutone a conoscenza, per paura di conseguenze, fece sparire per otto giorni la minore, che fu poi ritrovata presso il mastro Isidoro Messina.

Il Nicoletta a sua discolpa affermò che era stato indotto ad abusare della giovane dalle parole della moglie di Diego de Monte la quale all’atto dell’affido, in presenza della stessa aveva sì affermato che essa era “schetta”, ma poi chiamatolo in disparte aveva aggiunto che la giovane era stata “deflorata seu svirginata e se té né vuoi servire servitinni”.

A sua volta l’Albani fece fare delle dichiarazioni in suo favore da alcuni lavoranti, i quali misero in pessima luce la povera ragazza ed esaltarono l’operato virtuoso del nobile. Il suo ortolano, Giuseppe Stricagnolo, affermò che aveva intrattenuto per lungo tempo con la giovane una intima relazione, in ciò facilitato anche dal fatto che essa veniva mandata dai suoi padroni a lavare i panni presso l’orto Piscitello. A riprova di ciò egli affermò che la ragazza non solo più volte gli aveva pettinato i capelli ma gli aveva anche donato una tovagliola d’orletta ed una collana di pizzillo, che aveva rubato ai suoi padroni. Per tale motivo, secondo l’ortolano, essendo stata scoperta, essa fu dagli stessi coniugi Albani sgridata e perciò se ne fuggì dalla casa del nobile e fu poi ritrovata, dopo ben otto giorni, presso il mastro Isidoro Messina, che per compassione le aveva dato ospitalità.

Il mulattiere Francesco di Perri, a sua volta, affermò di avere incontrato un uomo, di cui non si ricordava più il nome. Costui era venuto da Cutro a Crotone per incontrare la ragazza. Questi gli raccontò che la giovane era fuggita da casa di sua spontanea volontà perché era stata deflorata ed aveva perciò paura che i suoi congiunti la uccidessero. Per il grande affetto che nutriva per lei, egli la aveva per un po’ nascosta in casa sua. Secondo questa testimonianza, l’uomo tentò di rivedere la ragazza ma l’Albani, presso cui era a servizio, aveva dato ordini rigorosi, impedendo a chiunque di avvicinarla in modo che essa non “praticasse” con uomini. Secondo il mulattiere il nobile non solo vigilava sulla integrità morale della ragazza ma anche su quella fisica, tanto che per metterla al sicuro dalle possibili minacce dei suoi congiunti, dopo un po’ non la mandò più a lavare lontano all’Esaro ma presso l’orto Piscitello, che è vicino alla porta della città.[viii]

Foto Archivio ARSAC.

 

La perdita della dote

Papanice 25 aprile 1721. Nella festività di San Marco la promessa sposa, la povera ed orfana Anastasia Sculco, di circa 13 anni, assieme alla madre Caterina Caleo, entra nell’abitato di Papanice su un carretto. Le donne sono accompagnate dal promesso sposo Ignazio La Vigna di Scandale e dal cugino della ragazza Nicola Arcuri, che in groppa ad una giumenta le seguono appresso. La piccola comitiva allegramente si dirige verso la chiesa, dove si dovrà celebrare lo sposalizio.

Arrivati in piazza uscirono incontro per onorarli molti paesani “col sparo di molte scopettate” ma all’improvviso sbucò fuori il chierico Gio. Giacomo De Bona che col suo “pistone”, caricato con palle, fece fuoco uccidendo sia il promesso sposo che il cugino della sposa. La povera Anastasia “piangente e afflitta” va con la madre dal vicario generale di Crotone per avere giustizia e per essere risarcita. Infatti l’uccisione, oltre alla perdita del marito, le aveva causato un danno di ben 300 ducati, a tanto infatti ammontava la dote promessale dal cugino.[ix]

 

Impedita e costretta al ripudio

Cotrone 26 dicembre 1722. L’orfana Caterina Berlingieri, rinchiusa nel monastero di Santa Chiara fin dall’età di sette anni, vuole sposarsi con Pietro Senatore di Catanzaro, ma ne è impedita dal fratello Francesco Cesare.

Eludendo la sorveglianza, riesce ad inviare un memoriale al viceré. La reazione è immediata. La ragazza è portata alle grate di ferro del parlatorio ed in presenza del vicario del vescovo, del cappellano, della badessa e del regio giudice è costretta a dichiarare che quanto è stato esposto non solo non corrisponde alla verità ma è completamente falso e le reca grande onta: da donzella onesta della primaria nobiltà quale è, “per l’ideate e vane chimere”, forse dello stesso Senatore, viene fatta passare come leggera.

Essa infatti non va cercando da sé matrimoni senza ottenere il consenso della sua parentela e tanto meno desidera il signor Senatore. Con costui anzi non si unirebbe nemmeno se fosse vivo il padre e la obbligasse a farlo, in quanto il Senatore è di gran lunga inferiore alla sua condizione sociale. Inoltre, da quanto detto, risulta chiaramente che ella non può aver fatto il memoriale anzi sospetta che l’estensore delle falsità sia proprio lo stesso Pietro Senatore.[x]

 

Le meretrici

Cotrone 12 ottobre 1728. Alcuni marinai delle barche pescherecce dei patroni Paolo Li Conti, Fortunato Greco e Vincenzo Ferola protestano perché le loro imbarcazioni non prendono il mare. Il motivo è il comportamento riprovevole del patrone Fortunato Greco il quale se ne sta in città, tranquillamente mangiando ed indugiando in casa di una donna pubblica.

Tale evenienza accade spesso in quanto il patrone preferisce starsene in Crotone con le meretrici piuttosto che andare a pesca. Anzi quelle poche volte che la sua barca lascia gli ormeggi e piglia qualche pesce “la meglio parte è stata sempre delle puttane”. Egli a volte dissuade anche gli altri due patroni di barche ad andare a pescare, convincendoli a rimanere assieme a lui dalle meretrici. Tutto questo reca danno ai marinai “per il lucro cessante che haverebbero potuto buscare e l’hanno perso per causa di detto patrone”.[xi]

 

Tra padre e padrona

Cotrone 22 gennaio 1734. La nobile Giuseppa Suriano cerca di mettere fine ai “gracchiamenti” di Fabrizio Cimino, il quale sparge voce che sua figlia è stata “rubbata, staffiliata, bastoniata e maltrattata” ed è costretta con la violenza a prestare servizio nella casa della nobile.

Anna Cimino, figlia di Fabrizio, è portata perciò dal notaio a fare una dichiarazione davanti a testimoni compiacenti in favore della sua padrona. La Suriano è “affabile colli genti di servizio, amorosa e zelante”, perciò essa alcuni giorni or sono se ne andò a servirla, a ciò anche spinta per “sfuggire la calamità di sua casa e la severità del padre per causa del quale si ritrova anche priva di suo marito”, che se ne è scappato. Presso la sua padrona essa ora si sente di stare come nel seno di Abramo: è amata, stimata, ben voluta e compassionata, perciò ha deciso di starci a servizio per un anno intero.

Col patto però che se per caso ritornasse il marito, essa deve essere sciolta da questo obbligo. Inoltre poiché “il sesso di donne è fiacco, e volubile, in caso di mancanza di detto servimento per un anno da oggi volse esser costretta a servire detta signora e sua famiglia, anco con essere astretta” con la forza.[xii]

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La reclusa

Cotrone 29 agosto 1734. La giovane Rosa Barricellis, per la pingue dote a cui ha diritto, è al centro di liti e contese tra il parentado. I suoi genitori, Francesco Barricellis e Flaminia Amalfitano, vogliono imporle di sposare l’aristocratico crotonese Carlo Berlingieri, figlio di Francesco Cesare e di Violante Suriano, mentre l’avo e lo zio paterno hanno già trattato il matrimonio con un nobile di Catanzaro, più gradito a loro e alla ragazza.

Quest’ultimi anzi si apprestano a condurla in quella città per maritarla “a loro piacimento”. Per evitare questo evento e mettere la ragazza al sicuro da un possibile rapimento, i genitori chiedono aiuto al vescovo Gaetano Costa. Obbligando la ragazza a dichiarare che è in reale pericolo di vita e che il matrimonio, che è sul punto di contrarre, avviene contro la sua volontà, anzi violentando la sua coscienza, ottengono i debiti permessi per poterla rinchiudere nel monastero di Santa Chiara, appellandosi al rifugio d’asilo.

Il tempo passa e nonostante le proteste della ragazza, alla quale viene tolta ogni possibilità di far conoscere la sua volontà, essa rimane chiusa. Secondo le intenzioni dei suoi genitori, essa dovrà rimanere nel monastero finché non sarà giunto il momento di convolare a nozze con lo sposo prescelto, col quale essi hanno già steso un contratto matrimoniale “per verba de futuro”.

Così col pretesto che nel monastero essa è al sicuro nella vita, nella reputazione e nell’onore e riceve una educazione con dame a lei pari, apprendendo giorno dopo giorno buon costume, virtù e buon esempio, nonostante le perplessità del vescovo che cerca di chiudere al più presto la faccenda, la ragazza uscirà solo quando si sottometterà alle decisioni dei genitori, cioè sposerà il futuro marchese di Valle perrotta Carlo Berlingieri.

Essi infatti riescono a tacitare gli scrupoli vescovili palesando falsamente che continuano i tentativi dei parenti e degli amici dell’avo, i quali tentano in tutte le maniere di fare trasferire a Catanzaro o in altro luogo la ragazza, per maritarla a loro capriccio e forza in modo da spogliarla di quello che le spetta o di ucciderla o di farla morire, motivi per i quali lo stesso vescovo aveva concesso a suo tempo l’internamento della ragazza.[xiii]

 

Le carcerate

Cutro 17 aprile 1743. Dalla “fossa” di Antonio Arturi di Cutro sparisce del grano. La Corte di Cutro, su denuncia del derubato, comincia ad indagare e riesce a trovare degli indizi. Viene così a sapere che in casa di Giulia Mesuraca, sposata con Antonio Suppa, originario di Santa Caterina, sono stati nascosti due tomoli di grano rubato.

Con l’accusa di furto Giulia Mesuraca è imprigionata su ordine della Corte assieme ad una presunta complice, la nubile Anna Migale. Le due donne sono così “carcerate, ferrate et maltrattate”. Dopo cinque giorni di sevizie si decisero a confessare. In presenza del notaio Francesco Greco, coadiutore della Corte di Cutro, esse affermarono che il grano era stato mandato in regalo a Giulia Mesuraca da Domenico Parteno per la continua e strettissima amicizia che intratteneva con la donna e l’assidua frequenza della sua casa; anzi proprio per questo intimo rapporto che lo legava alla donna quest’ultimo le aveva raccontato “minutamente come era seguito il fatto”.[xiv]

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Le mammane

Cotrone 6 settembre 1752. Alcuni cittadini accusano il priore dell’ospedale di San Giovanni di Dio di avere deflorato una bambina di dieci anni, chiamata Caterina Mottola. Per tale motivo su ordine della Regia Corte della città la bambina è fatta “riconoscere” dalle mammane, le quali per paura del priore attestano che è vergine. Le voci e le accuse contro il priore però non cessano ed allora egli corrompe la madre della bambina e la spinge a dichiarare pubblicamente che “sua figlia è senza macula alcuna”.[xv]

 

Sponsali veloci

Cotrone 10 dicembre 1753. Antonio Simina ed Isabella Di Franco abitano nella stessa casa del parroco di Santa Veneranda Felice Cavaliere. I due si amano e vorrebbero unirsi in matrimonio ma la loro unione è contrastata anche e soprattutto dallo stesso parroco.

Nella notte del dieci dicembre 1753 i due innamorati con alcuni loro amici entrano furtivamente nella camera dove il parroco sta dormendo e svegliatolo, prima che questi potesse riaversi, gli dissero “che si voleano amendue per marito e moglie”, pronunciando velocemente in presenza dei testimoni: “Signor Paroco io voglio per mia moglie la predetta Isabella di Franco” e costei “Io voglio per mio sposo il presente Antonio Simina”. Il sacerdote si mise a “scridare” ma i novelli sposi “prendendosi per le mani se ne uscirono dalla camera e se ne andiedero per fatti loro”.[xvi]

Foto Archivio ARSAC.

 

La promessa non mantenuta

Cotrone 12 marzo 1754. Antonio Le Pera commette un delitto nei confronti di Gregorio Garasto, figlio di Michelangelo. Per non finire in carcere si rifugia nel convento dei cappuccini. Durante il periodo in cui è costretto a vivere nella chiesa, egli mantenne i contatti con l’esterno tramite un suo amico, il mastro barbiere Francesco Liotta, il quale di continuo si reca a trovarlo, rifornendolo di tutto ciò che gli è necessario per poter continuare a vivere nel rifugio.

Trascorso un po’ di tempo e divenendo sempre più oneroso trovare i mezzi per potersi sfamare, un giorno il Le Pera invitò il mastro a recarsi a suo nome presso una donna di nome Rosa Caruso, originaria di Nicastro, con la quale in passato aveva avuto una relazione, per chiederle di aiutarlo.

La Caruso, tramite il mastro, inviò al Le Pera dapprima dei “maccarroni” e poi più volte altro cibo necessario per potersi sfamare.

Frattanto il Le Pera riusciva ad accordarsi e così un giorno, sempre tramite il mastro, chiese alla donna di mandargli dei preziosi per impegnarli. Con il denaro ottenuto egli avrebbe tacitato coloro che lo perseguitavano e, risolta la sua situazione, avrebbe potuto abbandonare senza pericolo il rifugio e, non più perseguitato, l’avrebbe poi sposata.

La donna si fidò della promessa e gli mandò tutti i suoi “giocali” d’oro e d’argento che il Le Pera fece impegnare presso lo strozzino Tommaso Soda. Diede i soldi ai creditori e tornò libero ma non mantenne la promessa di matrimonio, pur tuttavia continuò a “pratticare con detta Rosa”.[xvii]

 

Maria e Fortunato

Isola 19 novembre 1758. Maria Bova di Bifungi, sposata con Bruno Bosco, fugge da casa per i “maltrattamenti che le pratticava senza veruna causa il marito”, ed assieme ad una figlia in tenera età cerca di raggiungere Napoli, dove si trova un suo cugino.

Per strada presso Guardavalle incontra un sacerdote secolare, tale Fortunato Pisano, che “andava girando col suo mestiere d’acconciar orologgi” e si unisce a lui. Fortunato, visti inutili i tentativi di farla ritornare dal marito, dopo un po’ la lascia al suo destino.

Maria allora se ne andò da sola a Cropani, dove però, dopo pochi giorni, la raggiunse Fortunato che, facendo leva sullo stato di indigenza, riuscì a farla assumere come lattara e nutrice dalla baronessa del luogo. Data una sistemazione a Maria, Fortunato si recò ad Isola dove dimorò ad accordar organi. Dopo alcuni giorni di permanenza a Cropani, Maria, poiché aveva perso il latte, lasciò la baronessa e raggiunse Fortunato con l’intento di avere l’aiuto di imbarcarsi per Napoli.

Fortunato cercò di dissuaderla e di farla ritornare dal marito ma la donna non ne volle sapere. Allora la raccomandò all’arcidiacono di Isola Giovanni Caracciolo. Assicurato vitto ed alloggio a Maria, se ne andò per i fatti suoi a Crotone. Qui però Fortunato fu carcerato per ordine del vescovo Mariano Amato con l’accusa di “aver trafugato” la donna.

Quest’ultima però “conoscendo l’ingiusta persecuzione, che viene a patire senza veruna causa il povero buon sacerdote”, fa una dichiarazione a suo favore.[xviii]

Foto Archivio ARSAC.

 

La lettera del pecoraio

Isola 6 luglio 1839. La giovane Elisabetta Borrelli è violentata “fortivamente” da Pietro Astorino, il quale si rifiuta di sposarla. Dopo essere ricorso inutilmente alla curia vescovile di Crotone ed al sottintendente, Domenico Borrelli, padre della sventurata, si rivolge al tesoriere della collegiata di Isola, Giuseppe Lattari. Così Elisabetta ottiene dal violentatore subito ducati 10, con la promessa, poi non mantenuta, di averne altri 20.

Nel frattempo il tesoriere, che fingeva di svolgere opera di conciliazione tra i due giovani, approfittò della situazione e secondo l’accusa del padre della ragazza “prevaricò” la figlia, “prendendosela per druda”. Così “al primo rossore s’aggiunse altra vergogna con avere il predetto tisoriere svergognato totalmente me e la detta mia figlia Elisabetta e tuttavia menano ambedue, cioè il predetto tesoriere e la detta mia figlia, una vita lasciva e una tal macchia, meriterebbe, essere lavata col sangue, ma la carità tanto me lo proibisce”.

Per porre fine allo scandalo Domenico Borrelli dapprima caccia la figlia di casa poi fa presente il tutto al vescovo di Crotone Leonardo Todisco Grande, il quale rimette la denuncia al cantore foraneo di Isola Onofrio Arteca, affinchè indaghi e riferisca sulla tresca scandalosa.

Il cantore chiamò subito il padre della giovane e gli disse di portargli la lista dei testimoni, che potevano confermare le sue accuse, e soprattutto di fornirgli le generalità dell’estensore della supplica al vescovo. Domenico Borrelli capì e rispose che la lettera l’aveva scritta un pecoraio e la lista gliela avrebbe portata entro mezzogiorno.

Venne sera senza che nessuno si facesse vivo. Allora il cantore, per dare una parvenza di legalità e chiudere definitivamente la faccenda, convocò la filatrice Elisabetta Valeo, indicata come la testimone principale della tresca, secondo la supplica al vescovo del Borrelli. La filatrice, presso la quale la giovane aveva trovato “ospitalità”, fu sottoposta ad interrogatorio sotto giuramento e si compilò un verbale. L’inquisita minacciata negò decisamente l’esistenza della relazione amorosa e dichiarò di avere sempre ben guardato la giovane, che custodiva come una figlia, e non aveva veduto passare tra essa ed il tesoriere “veruna confidenza”, né quest’ultimo era mai venuto in casa sua o mandato qualche regalo. Il verbale sottoscritto dal solo tesoriere, in quanto la filatrice non sapeva né leggere né scrivere, unito al tutto, fu rimesso al vescovo per essere archiviato.[xix]

 

Contratto tra un dottore e una serva

Cutro 7 luglio 1597. Compaiono Ioanne Francesco de Bona U.J.D. di Cutro da una parte, e Joanne Antonio de Aprigliano e Perna de Aprigliano sua sorella della terra di Mesoraca, dall’altra.

“Io Gio. Antonio dona a detto Doctor Gio. Fran.co presente la detta Perna sua sora per serva di casa, per spatio di anni undici decurrenti da hogi inansi , et promette esso Gio. Antonio agere et curare con effecto che detta perna habbia di assistere fidelm.te à tutti servitii di casa di esso Doctore durante detto tempo conforme soleno servire tutte l’altre zitelle di casa, così come anco essa perna sponte in n.ri p.ntia con consenso ut s.a s’obligò assistere et servire fidelm.te durante il tempo p.tto et è converso il detto Doctor Gio. Fran.co sponte promette et s’obliga finito detto tempo di anni undici maritare di sue proprie robbe la detta perna honoratam.te s(econ)do la qualità et condit.ne di essa perna et sia tanto vestirla nutrirla et tenerla in detta sua casa da figlia, pacto aducto, che mancando la detta perna di assistere alli detti servitii malitiosamente, che esso Gio. Ant.o habbi pensiero di farla servire altrim.te esser tenuto a tutti danni spese interessi di esso Doctore Declarandose che la detta perna ha servito un anno infino al presente al detto Doctore, fò pattuito fra essi che detto anno servito vada francho et che non si scomputi alli detti anni undici …”.[xx]

 

La lista delle cattive

Isola 3 settembre 1840. Su incarico del sottintendente il provicario generale della diocesi di Cotrone ordina ad ogni parroco di compilare due liste. Una è per coloro che vivono “in pubblico concubinato, o adulterio scandaloso e pregiudizievole al buon costume ed alla morale pubblica”, l’altra è per le “pubbliche scandalose ed ostinate prostitute”. Per le femmine inoltre si indicherà se viene reputata o no infetta da mali venerei, il paese di origine e, se forestiera, da quanto tempo è in città.

Il vicario foraneo di Isola, Onofrio Arteca, non aspetta altro e, presa la vecchia lista, dove sono annotati tutti i pubblici scandalosi della città, la aggiorna. Nomi vengono aggiunti, altri sono cancellati: l’elenco è presto fatto. Esso è formato da tre parti: dapprima ci sono i quattro uomini “casati” che hanno abbandonato le mogli e le loro amanti, poi le tre donne maritate che hanno abbandonato i mariti ed i loro amanti, quindi il lungo elenco degli scandalosi, comprendente coloro che trescano sotto pretesto di matrimonio, i mariti infedeli, le mogli traditrici, gli amanti, i conviventi non sposati e le donne che intrattengono rapporti con più uomini. Quest’ultime sono per lo più forestiere:la pubblica locandiera, la “Madonnara”, la “Greca” e le sorelle Salviati della Rocca Bernarda.

Dopo un po’ il Sottointendente ordina al sindaco di Isola di sfrattare entro il 17 agosto tutte le donne scandalose forestiere. Il giorno stabilito passa ed esse vivono “colla massima tranquillità e continuano pubblicamente ad offendere Iddio”. Di chi la colpa ? Per il vicario foraneo non vi sono dubbi: è il cancelliere comunale che protegge “queste donne cattive perché siccome il Sindaco è ottimo per vender merci, così nell’affari comunali dipende in tutto dal cancelliere, ed è perciò che egli è la molla di far grazia o giustizia ed il sindaco soltanto firma”.

È da addebitarsi alla responsabilità del cancelliere anche l’omicidio avvenuto la notte del 22 agosto, quando fu ucciso il mastro ferraio Francesco Mazzea nel mentre si ritirava da qualche prostituta; infatti sono state arrestate come sospette le sorelle Salviati della Rocca Bernarda. Se fossero state rimandate al loro paese, come ordinato, forse il delitto non sarebbe avvenuto. Ormai le prostitute sono divenute pretesto per colpire gli avversari ed una lettera anonima diretta al vescovo di Cotrone denuncia donne che si prostituiscono, volutamente non inserite nell’elenco compilato dal vicario foraneo, ed i loro protettori.

“Isola s.d.

A Sua Eccellenza D. Leonardo Todisco Grande, vescovo di Cotrone,

Eccellenza

Si sussurra di essere pervenuti ordini de Superiori acciò avessero fatto rimpatriare tutte le donne forestiere i quali danno scandalo al publico. Sig.re qual umil suddito moralmente prostrato ai vostri piedi mi fo ardimentoso esporvi quanto siegue == Tra tutte le donne forestiere vi sta una Sig.ra Cotronese di nome Antonia Minicò la quale si è accoppiata con una nostra compaesana di nome Vennera Chirillo o sia la figlia di Antonina queste due celeberrime donne nella loro abitazione tengono un perfetto bordello e quando i giovani non vogliono avere con esse loro amicizia, esse s’intromettono e fanno da tramenzieri, e vanno disturbando i pensieri delle povere giovani che tranquille se ne stanno nelle loro abitazioni esse non trascurano di fare avere l’intento con l’offerta dei denari, si con via di tradimento, nonché con insinuare ai giovani d’intromettersi nelle proprie abitazioni. Sig.re sentono quante cause che portano dietro a se triste conseguenze, percui l’Eccellenza sua spande un ragio di giustizia sopra queste due donne con richiamare la Minicò nella sua patria e così evitare qualche sinistro avvenimento stante sono molti menzognieri e vanno mettendo discordie tra giovani, sto sicuro che dietro un informo che farà prendere al Sig.r Cantore, e pure al suo nipote D. Angelo Militi trova l’evangelio della verità; e la vostra giustizia piomberà sopra di essi mentre la Minicò si vanta di godere la protezzione di D. Domenico Castelliti come di fatti la protegge, sto sicuro della vostra giustizia ed io l’avrò in grazia come dal cielo.

Suo Umil suddito

N.N.”[xxi]

 

Note

 

[i] AVC, C. 140, anno 1617.

[ii] ASCZ, Busta 119, anno 1642, ff. 16-17.

[iii] ASCZ, Busta 333, anno 1676, f. 34.

[iv] ASN, Provvisione e Cautele Vol. 251, f.171 (1683).

[v] ASCZ, Busta 336, anno 1692, ff. 151-153.

[vi] Archivio Vescovile di Crotone, documento senza segnatura.

[vii] ASCZ, Busta 611, anno 1710, ff. 14-15.

[viii] ASCZ, Busta 659, anno 1717, ff. 229-232.

[ix] ASCZ, Busta 614, anno 1724, ff. 108-109.

[x] ASCZ, Busta 613, anno 1722, ff. 160-161.

[xi] ASCZ, Busta 662, anno 1728, ff. 138-139.

[xii] ASCZ, Busta 664, anno 1734, ff. 6-8.

[xiii] ASCZ, Busta 793, anno 1734, ff. 28-29.

[xiv] ASCZ, Busta 666, anno 1743, f. 24.

[xv] ASCZ, Busta 1124, anno 1752, ff. 57-58.

[xvi] ASCZ, Busta 1125, anno 1754, ff. 49-50.

[xvii] ASCZ, Busta 1266, anno 1754, f. 45.

[xviii] ASCZ, Busta 1126, anno 1758, ff. 278-279.

[xix] Archivio Vescovile di Crotone, documento senza segnatura.

[xx] ASCZ, Not. Giovan Francesco Terranova, Busta 58, f. 482.

[xxi] Archivio Vescovile di Crotone, documento senza segnatura.


Creato il 14 Marzo 2015. Ultima modifica: 11 Aprile 2021.

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  1. Giuseppe Burza

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