Bordò (Caccuri) da casale a Grangia

In evidenza la località “Bordo”. Particolare del F. 561 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:50.000 (IGM).

Le prime notizie sul casale di Virdo (Verdò), poi detto Bordò, risalgono all’inizio del Duecento. Il piccolo abitato è situato in diocesi e nel tenimento di Cerenzia e vicino alla terra di Caccuri. Dai primi documenti sappiamo che appartiene al feudatario Roggerius Sarracenus.

In evidenza la località “Bordò”. Particolare del F. 237-I “Savelli”, della Carta d’Italia 1:50:000 (U.S. Army 1943, copiata da una mappa italiana del 1896).

 

L’abbazia di San Giovanni in Fiore

La storia del casale e la sua scomparsa sono strettamente legate alle vicende del monastero florense. Nel luglio 1208 l’imperatore Federico II conferma all’abate Matteo Vitari i privilegi ed i possedimenti concessi a Gioacchino da Fiore dai suoi genitori Enrico VI e Costanza d’Altavilla, tra i quali alcune terre e vigneti situati in località “Albe” nelle vicinanze del casale: “… terras quoque cultas et incultas, et vineas, quas habetis in tenimento Acherentee, in loco, qui dicitur Albe prope Casale, quod di(citur) de Berdo”.[i]

Nel settembre dell’anno dopo Bernardo, vescovo di Cerenzia, amplia i possedimenti dell’abbazia florense aggiungendo alcuni piccoli fondi e dei vigneti, situati presso il fiume Lepore ed il casale. Il documento descrive un territorio collinare e vallivo dove predominano le vigne, l’olivo, gli alberi da frutto, i piccoli appezzamenti a semina ed il bosco. Esso è attraversato da una via pubblica che discende dal casale per la località Frassa e da una via antica. Vi sono le piccole proprietà di alcuni ecclesiastici e di nobili del luogo, alcune delle quali sono della chiesa di Cerenzia.

Tra i possidenti risaltano i due feudatari “dominus Bartholomeus” e “dominus Rogerius Saracenus”: “In primis vineam quam Leo Cuczogherius et aliam vineam collateralem eius, quam Joannes Severitanus quondam ab ecclesia nostra tenuerat, aliamque petiolam terrae, quae vineis continuatur eisdem, que videlicet vinea cum terra ex eius parte circumdatur a vineis monasterii vestri, quametiam aliam, quae his finibus terminatur: ab oriente via publica, quae descendit a casali Berdò per Frassam, ab occidente vallicella, quae descendit a vineis presbiteri Leonis Taberniti, ab aquilone oleastritum, ab austro terra quae vobis obtulit dominus Honoredus.Duas et alias terrae petiolas certis terminis subdivisas, prope clusam vestram, quarum unam, quae vocatur de Valle, habet ab oriente terram domini Guillelmi de domina Bronia, ab occidente viam et vineale Philippi, ab aquilone viam veterem, et terras feudi domini Bartholomei, et terras feudi domini Rugeri Saraceni; ab austro vineale domini Rugerii Stefaniti. Alia vero terra habet a parte orientis vineale Michaelis Guczi, ab occidente terram monasterii Floris, et terram domini Manerii, ab aquilone terram monasterii vestri, et terram de feudo domini Rogeri Sarraceni, ab austro terram domini Rogerii Sarraceni et vineale, quod obtulit vobis dominus Rubertus Grisolemus.”[ii]

Bordò presso Caccuri (da ristorante assodipicche.com).

 

Da casale a grangia

Continua nei primi anni del Duecento l’espansione della proprietà dell’abbazia florense in località Albi presso il casale di Bordò, con l’acquisizione di numerosi terreni sia per donazione sia per acquisto e sia per permuta. Si vennero così a porre le premesse per la formazione di una grangia autonoma con chiesa, magazzino e mulino sul torrente Lepore, un affluente del Lese.

Nel gennaio del 1215 l’imperatrice Costanza d’Aragona, moglie di Federico II, ed il figlio Enrico VII, concedono e confermano al monastero florense la grancia di Albi presso il casale di Bordò, libera e senza obbligo di alcun servizio: “… Concedentes et confirmantes ipsi monasterio in perpetuum libere et sine aliqua exactione servitii grangiam, quam habet in tenimento Cerentiae, prope casale Berdo, in loco qui dicitur Albo, cum molendino in flumine Leporis …”.[iii]

La morte del feudatario di Bordò, il milite Ruggero Saraceno, senza eredi né in prima né in seconda linea ascendente e discendente, ma solamente con alcuni in linea laterale, offre ai florensi l’occasione di impossessarsi del vicino feudo e di allargare la loro grangia.

Nel giugno1216 l’imperatrice Costanza d’Aragona ed il figlio Enrico VII, donano all’abate Matteo Vitari ed ai monaci del monastero florense la metà del feudo che era stato del milite Ruggero Sarraceno, con uomini, case, terre e vigneti e con ogni diritto, così come lo aveva detenuto il defunto feudatario: “… in perpetuum dimidium feudum militis, quod in civitate Gerentiae et tenimentis ac pertinentiis suis, et in Caccurio tenuit quondam Rogerius Sarracenus de quo nullus est haeres, cum hominibus, domibus, terris, vineis et omni iure ac tenimentis et pertinenciis suis, secundum quod idem Rogerius Sarracenus ipsa unquam melius ac plenius tenuit et possedit”.[iv]

Segue dopo poco una permuta di terreni con il vescovo di Cerenzia, in modo da rendere più omogenea, vasta e razionale la grangia. Infatti, nel dicembre 1219, il vescovo di Cerenzia Nicola (1216-1233) definisce i termini della permuta di alcune terre della grancia di Verdò o Bordò, già date al monastero di San Giovanni in Fiore fin dal 1217.[v] Il monastero ottiene delle terre contigue alla sua grangia di Bordò e dà in cambio una vigna con terre ed alberi in località Driti, avute per donazione dello stesso vescovo. “E perché le terre che ricevea erano di maggior valore, diede anche per serbar l’uguaglianza certe altre cose del valore di centocinquanta tarì d’oro”.[vi]

Tre anni dopo, nel giugno 1222, l’imperatore Federico II, su richiesta dell’abate Matteo, rinnova e conferna i privilegi tra i quali: “… granciam quoque bordò, sitam in territorio Gerentiae vel feudo, quod fuit Rogerii Saraceni, per privilegium nostrum de certa nostra scientiain eius Gerentiae pertinentiis possidebat, quod donamus et confirmamus eidem libere et sine ullo servitio vel redditu qualicumque, ac in capite cum hominibus, tenimentis et pertinentiis suis, sicut umquam melius tenuit et possedit illud Rogerius Sarracenus”.[vii]

Seguono altre concessioni e conferme dei diritti e dei privilegi. Nel 1233 “Nicolaus, episcopus Gerentin, cum consensu capituli, donat monasterio S. Iohannis de Flore tenimentum prope granciam de lo Verdò, sub annuo censu unius librae cerae”,[viii] ed il 28 gennaio 1233, il papa Gregorio IX conferma al monastero di San Giovanni in Fiore, tutti i beni, diritti e privilegi, riportando il testo integrale di tre diplomi dell’imperatore Federico II dell’ottobre 1220 e del giugno 1221: “… Grangiam, quam habet in tenimento Gerentiae, in loco, qui dicitur Albo, prope casale Berdò, cum terris, vineis, arboribus, aquis et molendinis.Inter quae sunt petiae vinearum atque terrarum ei venditae, vel oblatae a baronibus, et villanis et idcirco servitiis obligatae, quae simul extimatae capere sementis salmas octo videtur, has a consuetis servitiis absolventes eidem monasterio cum caeteris confirmamus. Terra quoque laboratoriam de demanio nostra ad duas salmatas prope ipsam granciam … confirmamus memorato abbati et fratribus ipsius Florensis monasterii ac eorum successoribus in perpetuum libere et sine ullo servitio, ac in capite feudum, quod in Gerenthia et Caccurio tenuit et possedit quondam Rogerius Saracenus, de quo Rogerio, sicut dicitur, in prima et secunda descendentium vel ascendentium linea non est haeres, non obstante si aliquis ex linea transversali sit haeres, quia et hoc ipsum ex certa scientia eidem monasterio condonamus cum hominibus, domibus, terris, vineis, et cum omni iure ac tenimentis et pertinentiis suis, secundum quod idem Rogerius Sarracenus ipsa melius umquam tenuit et possedit …”.[ix]

Bordò presso Caccuri (da camminobasiliano.it).

 

La perdita dei diritti civici

I terreni erano gestiti direttamente ed in modo completo ed autarchico dall’abbate e dai monaci del monastero, i quali si servivano per coltivarli di monaci conversi e di offerti, cioè di laici, che sceglievano di vivere nella comunità, pur non facendone parte integrale, ma erano destinati ai lavori dei campi ed all’allevamento. La grangia era composta da un insieme di terre attorno ad un esteso possedimento, al centro del quale vi era la chiesa ed un fabbricato, dove era immagazzinata la produzione composta principalmente da vino, olio, grano e formaggio.

Questa grande massa agricola sulla quale i monaci esercitavano il pieno potere, non poteva non scatenare la reazione degli abitanti e dei signori del luogo. La scomparsa del casale con la fuga e l’espulsione dei suoi abitanti, e la privazione degli usi civici sui terreni della grangia, ben presto suscitarono le proteste degli abitanti e del signore di Caccuri Fabiano. Nel 1216 essi invasero con la violenza le terre, minacciando i monaci e gli uomini del monastero, che vi stavano lavorando. Essi rivendicarono il fatto che quando le terre erano in regio demanio, potevano usarle sia per la semina che per il pascolo, e perciò con la forza le occuparono e tentarono di coltivare e pascolare.

Sarà il conte di Crotone Stefano Marchisorte, in qualità di giustiziere di Calabria, su mandato dell’imperatrice e del figlio, che avevano accolto le proteste del monastero, ad intervenire cacciando gli occupanti e punendo severamente coloro che avevano minacciato i monaci. Il signore di Caccuri ed i cittadini furono ammoniti “acciò non ardischino o fare alcun atto, o lavorare o pascere nei territori appartenenti all’abbazia senza il permesso dell’abbate. Poiché in tutti i territori badiali non era lecito accampare “ius proprietatis vel aliquam, laborandi, pascendi, aquas et herbas sumendi, consuetudinem”.

Il tentativo da parte degli abitanti di Caccuri di far valere gli antichi usi civici sui territori badiali, dai quali ne erano stati estromessi, proseguiranno nel tempo. Nel 1362 è la volta del signore di Caccuri Squarcia de Riso, il quale con i suoi vassalli, “eccitò pretenzione di avere la servitù di pascere e di tagliare albori nei territori prope castrum Caccuri”. Egli riuscì dapprima ad ottenere lettere regie in sostegno della sua pretesa, ma poi fu riconosciuto il diritto dell’abbazia ad avere il pieno e completo dominio sui suoi possedimenti.[x]

Bordò presso Caccuri.

 

Gli abbati commendatari

In seguito i beni dell’abazia florense passarono in amministrazione agli abati commendatari, i quali di solito li davano in fitto per la durata triennale. Gli edifici della grancia si ridussero alla chiesa e ad una casa/magazzino dove conservare le tradizionali produzioni di vino, olio e grano, mentre i terreni erano dati in fitto per la semina, per il pascolo delle greggi e per l’allevamento dei maiali.

In una platea del monastero della metà del Cinquecento sono descritti i confini della Grancia di Verdò. Essa “confina con la via publica dalla parte di sopra et fere alle querce Affilarate et la via antica di dette querce a basso et fere al fiume di Lepore et lo fiume ad alto va al molino di Francesco Salvino et conclude al passo della predetta via publica”.

Dentro la Grancia vi è una vigna grande confinata dalla “Costa dell’Amendola” e dal “Visciglietto”, vi è anche un oliveto detto “Fra Tomaso” ed altro detto “la Civitella”, una difesa che è detta di “Mal erede” costituita a camera chiusa, e che trovasi affittata per due anni a Stefano Cristiano e a Ballo Bello per duc. 75 l’anno (da agosto 1576 ad agosto 1578). Vi sono poi, sempre nella predetta Grancia, diverse colture e cioè: “Coltura delle querce affilarate”, “coltura detta Linaccari”, “delle Olive”, “del Vaccarezzo”, “del passo di Falcone”, “del Craparezzo”, “di sopra le Craparezze”, “di Balsamo”, “di Tadeo Baldino”, “del Cariglio” e “del Brullo”. “Si affittano a mezzo terraggio alla misura grossa.” Di dette colture l’Università di Caccuri ogni tre anni può farne difesa e vendere l’erba in suo utile “et ovalora succedesse che le colture per li due anni mancassero di darsi a coltura, volendo l’Università servirsene per farne difesa, in tal caso deve pagare al Commendatario un docato”.[xi]

Bordò presso Caccuri (da ilcirotano.it).

 

Il possesso

Il 24 gennaio 1571 (“anno incarnationis D.ni 1571 nona calendas februari”), Pio V concedeva la commenda dell’abbazia cisterciense di San Giovanni in Fiore al cardinale di Santa Severina.[xii]

Il 19 febbraio 1571 il reverendo Giovanni Antonio Grignetta U.J.D. di Napoli, procuratore dell’arcivescovo Giulio Antonio Santoro, perpetuo amministratore e commendatario dell’abbazia di S. Giovanni in Fiore, prendeva possesso dell’abbazia e del casale di S. Giovanni in Fiore “cum omnibus eorum iuribus jurisditionibus redditibus proventibus introytibus gagiis emolumentis et pertinentiis ad casalem et abbatiam tam de iure quam de consuetudine spectantibus et pertinentibus” (sono presenti i frati dell’abbazia: il priore Matteo Ursetta, Benedicto Valente, Augustino Perito e Marco de Policastrello). Tre giorni dopo il Grignetta completava il possesso della chiesa di S. Giacomo delo Virdò in territorio di Caccuri e della chiesa di Santa Maria de Terrata in territorio di Rocca di Neto.

Il 22 febbraio 1571 su richiesta del Reverendo Giovanni Antonio Grignetta U.J.D, procuratore dell’arcivescovo di Santa Severina Giulio Antonio Santoro, detto il Cardinale di Santa Severina, ed amministratore e commendatario dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, come da istrumento pubblico in carta pergamena, scritto e stipulato in Roma il 20 gennaio 1571 per mano del notaio Fabritio Gallecte, il notaio Marcello Santoro si recò in località Virdò.

Entrati nella chiesa di Santo Jacobo delo Virdò, che è situata nel territorio della terra di Caccuri, il procuratore a nome dell’arcivescovo chiese al Reverendo Cesare de Dominicis, commissario apostolico ed a tale scopo appositamente delegato dal Reverendo Nunzio apostolico di Napoli, in virtù di lettere che egli presentò, di porre in possesso il Grignetta della chiesa sotto il titolo di Santo Jacobo delo Virdò “cum omnibus eius iuribus jurisditionibus et introytibus ad dictam ecc.am spectantibus”.

Allora il Grignetta prese il pacifico e pieno possesso della chiesa, aprendo e chiudendo le porte, aspergendo ovunque l’acqua benedetta, pregando all’altare maggiore, sedendo in una certa sedia grande, passeggiando per la chiesa e compiendo altri atti che denotano il pieno, libero e totale possesso. A tale consegna erano presenti alcuni frati e dei preti, i quali cantavano ad alta voce il cantico “Te Deus Laudamus”. Dopo di ciò il Grignetta chiese al notaio di fare un atto pubblico, alla cui stesura furono presenti tra gli altri il reverendo Fabio Infosino, decano di Santa Severina, il chierico Matteo Girardo di Caccuri, il Reverendo Abbate Jacopo Prothospataro ed Marcello Prothospataro.[xiii]

In tale occasione fu anche fatto l’inventario. Gli edifici della grangia erano composti dalla chiesa sotto il titolo di Santo Giacomo Apostolo, e da un edificio rurale composto da quattro camere con cucina e cellaro.

Portale e altare della chiesa di San Giacomo Apostolo a Bordò presso Caccuri.

 

“Chiesa

Item uno calice di piltro con la patena

Item uno campanello piccolo

Item uno vossita di legno di ostia

Item uno listerino vecchio

Item uno discolo

Item una campanota

Item una cassupra di tela negra vecchia

Case

Imp.s una sala quattro camere et una cocina collo cellaro.

Sala

Imp.s doi seggie di legno con unaltra senza spallera

Item uno scanno seu banchecto neapolitano

Item una giarra di tenere oglio

Cam.ra 3.a

Imp.s doi banchetti uno con lo suo pedistallo et laltro con doi pedistalli

Item doi scabellecti di sedere

Item uno stipo seu reposto.

Item una lettera con uno saccone et pedistalli

Uno paro di linsoli grossi

Uno caldaronetto.

Camera quarta

Imp.s doi segie vecchie. Item uno paro di pedistalli. Uno mezarolottino quasto

Item unaltro mezarolo vecchio.

Cocina

Imp.s una frixura, una cugnatella piccola.

Item una pala di ferro. Item doi giarre da tenire oglio, grandi vacanti.

Cellaro

Imp.s una bocte de tenire vino di tre salme.Item unaltra bocte di quattro salme. Item unaltra bocte piccolina.

Item unaltra bocte di quattro salme.

Item cinque altre bocte vecchie.

Item una tina. Item un palmento di legno di vindagnare.

Item tre scale. Item ….. trappeto. Una …..”.

In seguito parte delle entrate della grancia di Verdò furono assegnate dal commendatario ai monaci dell’abazia florense. Il 2 giugno 1571 il Grignetta a nome dell’arcivescovo assegnò al frate Justo Gaspare Bonivannelli “florentino”, visitatore dell’ordine cisterciense e procuratore del cardinale di Claravalle generale dello stesso ordine (“Frater Hieronymus Sanctae Romanae ecclesiae tituli Sancti Matthei presbyter Cardinalis de Claravalle nuncupatus Cister. Abbas et Sanctae theologiae professor”), “pro victu vestitu et aliis rebus necessariis dictis fra.bus assistentibus ser.o dictae ecc.ae et abbatiae s.ti Jo.is de flore”, beni che danno rendite per ducati 220 annui, rispettando così la convenzione fatta in precedenza tra il cardinale di Claravalle e Bernardino Rota, procuratore dell’abbate commendatario di S. Giovanni in Fiore Ferdinando Rota.

Le rendite sono così ripartite: ducati 60 sulle entrate di Santo Martino de Canale, altri 60 sulla salina di Neto ed i rimanenti 100 su alcuni terreni della grancia di Santo Jacobo delo Virdo. I terreni sono così descritti: “Imp.s defensam unam nominatam mala her.o existentem in grancia S.ti Jac.i delo virdo infra.ttis finibus limitata, a passo dicto delepori se vadit per viam pu.cam versus orientem et a parte superiori versus boream jux.a vinea adami muti et vadit per viam pu.cam et a parte inferiori vadit ad aquam quae exit a vinea q. mauri …”.[xiv]

Secondo il Martire “Nel 1572 il cardinale Giulio Antonio Santoro per mezzo del suo provinciale Giovanni Antonio Grignetta napoletano, assegnò al monastero forense e per esso al Priore del Cardinale di Chiaravalle o per dir meglio Zufolato, visitatore dei monaci di Basilicata e Calabria, per la mensa di detto monastero duc. 250, cioè duc. 60 sopra le grangie di Canale, altri 60 sopra le saline di Neto, ed altri docati 130 sopra la Grangia di Burdò”.[xv]

Bordò presso Caccuri (foto fornita da Daddo Scarpino).

 

Gli arcivescovi di Santa Severina

Nella seconda metà del Cinquecento gli abati commendatari dell’abbazia florense furono gli arcivescovi di Santa Severina, dapprima Giulio Antonio Santoro e poi il nipote Alfonso Pisani, i quali continuarono a dare in fitto i terreni dell’abazia.

Durante il periodo in cui l’abbazia fu nelle mani del Cardinale di Santa Severina, continuò a svolgere un ruolo importante il suo procuratore, il prete napoletano Giovanni Antonio Grignetta. L’undici ottobre 1574 il Grignetta è in Santa Severina. In presenza del notaio Marcello Santoro, egli dichiara che il Cardinale in quanto abate commendatario dell’abazia, deve riscuotere dalla Regia Curia e da coloro che hanno in fitto la salina di Neto, del denaro per rate non pagate degli annui ducati 60, che per antichi privilegi ogni anno la regia salina deve versare all’abazia.[xvi]

Il 15 dicembre 1574 nella città di Santa Severina presso il notaio Marcello Santoro, Giovanni Antonio Grignetta U.J.D., in qualità di procuratore del Cardinale di Santa Severina, commendatario dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, fa presente che il cardinale deve riscuotere denaro, cose, frutti, entrate, censi e quantità di beni da alcuni uomini e persone, sia dei casali di Cosenza che di altri luoghi e terre della provincia di Calabria, come residui delle entrate dell’abbazia relativi agli anni 1571, 1572 e 1573. Poiché il cardinale a causa dei suoi impegni non può esigerli di persona, era venuto a convenzione con Pomponio Basilico di Pietrafitta ed Andrea de Martino, i quali si erano impegnati ad riscuotere queste entrate, censi ecc., da qualsiasi debitore a ragione del 20 per cento sia del denaro, che di frumento, orzo, germano ed altre cose. Essi dovevano consegnare il denaro riscosso al tesoriere della città di Cosenza, mentre il frumento e gli altri beni dovevano riporli in una “domo et granario”, e non spostarli né venderli senza il consenso del Cardinale. Nello stesso giorno il Grignetta rimuove i due incaricati e prende il loro posto.[xvii]

Il primo gennaio 1583 Giulio Antonio Santoro, detto il Cardinale di Santa Severina, rinuncia all’abbazia ed il monastero di S. Giovanni in Fiore, gravato di molte pensioni annue, è concesso in commenda da Gregorio XIII ad Alfonso Pisano, nipote del Cardinale.[xviii]

Il 31 ottobre 1588 in Santa Severina, presso il notaio Marcello Santoro, Alfonso Pisani arcivescovo di Santa Severina ed abbate commendatario dell’abbazia di San Giovanni in Fiore, afferma che nei mesi passati, affittò per tre anni ad Horatio de Clara, Emilio de Martino ed a Angelo Pascale le entrate, i diritti e le rendite dell’abbazia con alcuni patti e convenzioni per il prezzo di ducati 1530.[xix] Il 4 maggio 1589 in Santa Severina, presso il notaio Marcello Santoro, l’arcivescovo Alfonso Pisani afferma che come da contratto stipulato il 29 aprile 1586, deve avere da Ferdinando di Franco di Petrafitta ducati 1037 e mezzo per terze decorse e rate non pagate per l’affitto della foresta (“ex affictu nemoris”) della grancia dell’abbazia detta S. Martino de Canale.[xx]

Bordò presso Caccuri (da mapio.net).

 

Verdò nel Seicento

Il giorno di mercoledì 30 ottobre 1630, la chiesa fu visitata dall’arcivescovo di Santa Severina Fausto Caffarelli. Il quale lasciata con la sua comitiva la cattedrale di Santa Severina, dopo aver cavalcato per venti miglia, giunse a Vordò.

Dalla sua “Visitatio ecc.am S.ti Jacobi Ap.li de Verdò in ter.io Caccurii dioc. Cerentiae quae est membrum S.ti Gio. de Flore”, ricaviamo che la grancia apparteneva al monastero ossia alla mensa monacale del monastero di S. Giovanni in Fiore. La chiesa aveva finestre e porte in buono stato ed il pavimento, le pareti ed il tetto non avevano bisogno di alcuna riparazione. Vi era un solo altare di marmo con la statua di Santo Giacomo e di sopra alla porta maggiore a destra si ergeva il campanile con campana.

Vi erano inoltre due sepolcri e la pietra con l’acqua benedetta. Presso la chiesa dalla parte destra vi erano alcune costruzioni in legno per uso “agricolarum”. Sempre dalla visita dell’arcivescovo ricaviamo che tra le proprietà del monastero di S. Giovanni in Fiore vi era: “una gabella chiamata il Vordò, dove sonno alcuni pezzi di vigne, olive, ghiandi et altri alberi fruttiferi con terre aratorie dalla quale si percipe l’anno ducati ottanta in circa cioè quando sono ghiandi e dette olive”.

Dalla relazione del 1650 del monastero florense si apprende che la grangia di Bordò fu in seguito ingrandita con l’acquisto di alcuni terreni confinanti, utilizzando a tale scopo un lascito al convento di un benefattore: “Item assegnò la Grancia Vordò, dove si trova fondata una chiesa sotto l’invocazione di San Giacomo Apostolo con una casa come di sopra con quantità di terreni vacui, vigne e oliveti per annui docati cento li quali si vanno percependo l’un anno per l’altro con l’aggregatione e compra fattavi d’alcuni altri terreni contigui per un legato fatto da un benefattore duc. 100.”[xxi]

Esiste attualmente una chiesetta rettangolare con portale ben conservato, che è inserita in un casino e masseria che fino a poco tempo fa erano di proprietà della famiglia Lopez che, come da insegna gentilizia nel 1844, aveva proceduto a restaurare. Il caseggiato e la chiesa conservatisi fino a poco tempo fa quasi integri ed intatti, ultimamente sono stati preda di saccheggio e distruzione.

Bordò presso Caccuri (da tripadvisor.it).

 

Note

[i] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. 30.

[ii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. 33.

[iii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. 58.

[iv] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. 63.

[v] Russo F., Regesto I, 650.

[vi] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. 76.

[vii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. 100.

[viii] Russo F., Regesto I, 765.

[ix] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 125, 127-128.

[x] Maone P., Caccuri Monastica e Feudale, 1969, p. 16.

[xi] Maone P., Caccuri Monastica e Feudale, 1969, p. 29.

[xii] AASS, Protocollo Santoro, II, f. 53.

[xiii] AASS, Protocollo Santoro, II, ff. 52-57.

[xiv] AASS, Protocollo Santoro, II, ff. 91-93.

[xv] Martire D., La Calabria sacra e Profana, II, p. 102.

[xvi] AASS, Protocollo Santoro, V, ff. 21-22.

[xvii] AASS, Protocollo Santoro, V, ff. 36-37.

[xviii] Russo F., Regesto V, 23474 – 23476.

[xix] AASS, Protocollo Santoro, XI, ff. 25-26.

[xx] AASS, Protocollo Santoro, X, ff. 96-97.

[xxi] ASV, S.C. Stat. Regul. Relations 16 Riformati San Bernardo, ff. 60 sgg.


Creato il 19 Febbraio 2015. Ultima modifica: 15 Gennaio 2022.

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