Il monastero medievale di S. Stefano del Vergari in territorio di Mesoraca

Mesoraca (KR), il fiume Vergari.

Agli inizi del secolo XIII, Luca abbate della Sambucina, spiegava che il titolo del monastero di S. Stefano del Vergari derivava dal nome del fiume che scorreva nelle sue vicinanze e, facendo riferimento a questo monastero e a quello di Sant’Angelo de Frigillo, così si esprimeva: “Sancti Stephani de Abrigaria, quod nomen est fluminis prope ipsas duas ecclesias decurrentis”.[i]

Nei documenti medievali ritroviamo il suo titolo in due forme principali. La prima è “de Abrigari”, o “de Abrigaria”, la seconda è “de Abirgaria”, “de Avirgari”, o “de Virgaria”. Sporadicamente risultano anche “de Arbergaria” e “de Arbigara”.[ii] Analogamente si riscontra nella documentazione cinquecentesca dove, ormai venuto meno il monastero, il toponimo nelle stesse due forme: “de Brigari” e “de Virgari”, continuò ad individuare il fiume, o fiumara. Secondo alcuni questo nome deriverebbe dalla “virga”, o “vimini” (Salix viminalis L.), pianta che cresce lungo questo corso d’acqua.

Mesoraca (KR), il fiume Vergari.

Da monastero greco a grangia cistercense

S. Stefano del Vergari fu un antico monastero greco sorto in prossimità dell’attraversamento del fiume Vergari, oggi conosciuto come “F.ra di Mesoraca”, vicino al luogo in cui quest’ultima riceve le acque del “F.so Potamo”, dove passavano importanti vie che collegavano l’abitato di Mesoraca ed altri, con alcuni passi sul Tacina, lungo il secolare percorso stagionale che facevano le mandrie tra i pascoli silani e quelli delle marine del Marchesato. A tale viabilità fanno riferimento le diverse citazioni contenute nella documentazione del periodo svevo riguardanti il territorio di Mesoraca, che riferiscono la presenza della “via publica que vadit ad Sanctum Maurum”,[iii] della “viam veterem que solebat ire et venire de terra Misurace in casali de Cutro”,[iv] e della “viam que solebat ire homines Mesorace ad terras Castellorum et ad turris Tacine”, transitante per “terminum grossum”.[v]

Questo monastero compare per la prima volta nel giugno 1202 (a.m 6710), V indizione, in un atto scritto in greco, di cui esiste una copia latina,[vi] con il quale Bartolomeo, arcivescovo metropolita di Santa Severina, concesse a Luca, kathigoumène de la Thèotokos de la Saboukeina, il monastero (μωναστίριων) di S. Stefano d’Abergarès (άγιων Στέφανον τοϋ Αβηργάρη), appartenente alla sua metropolia (μητροπόλεως), posto in territorio di Mèsorachon (περίχορον χώραν Μεσοράχωνος), con il consenso del suo kathigoumène Kosmas, ricevendone in permuta dalla Sambucina, le grange di S. Giovanni di Mountikellon, della Thèotokos de Kardakianon, e di S. Dèmètrius.

Inoltre, per compensare l’annuo censo di tre libbre di cera, che la chiesa metropolitana aveva percepito fino a quel momento dall’abbazia della Sambucina, per le grange della Thèotokos de Archéalon, di S. Angelo de Phrigilloi, e di S. Nicola de Poiniton, l’abbazia s’impegnava ad indennizzare l’arcivescovo, attraverso la cessione alla chiesa metropolitana di quattro villani della terra di Paleokastron: Roberto de Gioudiki, Michele de Mile, Giovanni Moultephabas, ed i figli di Andrea de Gioudiki, a condizione che, in futuro, l’abbate del monastero di S. Stefano del Vergari fosse obbligato ad intervenire al sinodo diocesano.[vii]

Il passaggio di questo monastero dalla chiesa metropolitana di Santa Severina all’abbazia cistercense di Santa Maria della Sambucina, che si inquadra in una fase di spinta latinizzazione dei monasteri di quest’area ancora prevalentemente greca, fu duramente avversato dai monaci greci di S. Stefano che, per difendersi dal signore di Mesoraca, nel cui feudo ricadeva il loro monastero, fecero ricorso al papa. Il 4 marzo 1205 Innocenzo III, su richiesta dell’“abbatis et conventus Sancti Stephani de Virgaria”, ordinava agli abbati di S. Giovanni Calabita e di S. Giuliano di Rocca Falluca, di costringere il “nobilis vir Tholomeu de Pallaria diocesis Sancte Severine”, feudatario di Mesoraca, a restituire ai monaci greci “prefato monasterio” dal quale egli li aveva espulsi con la violenza, per concederlo ai monaci latini della Sambucina.[viii]

Questo momento molto travagliato è evidenziato dalla corrispondenza papale seguente. Seppure il 26 maggio 1205 Innocenzo III, su istanza di “Petro abbati monasteri Sancti Angeli de Frigilo eiusque fratribus”, prendeva sotto la sua protezione il monastero confermandone i possessi, tra cui quello di “Sancti Stephani de Abrigaria”, o “Abirgaria”,[ix] lo stesso papa il 31 ottobre 1206, ordinava all’abbate di S. Giuliano di Rocca Falluca di non tardare ad eseguire l’ordine ricevuto, e di costringere l’abbate di Sant’Angelo de Frigillo, e già della Sambucina, facendogli restituire ai monaci greci il monastero di “Sancti Stephani de Avirgari”, occupato indebitamente.[x]

Le conclusioni della vicenda ci sono riassunte da un documento che si ritiene databile posteriormente al giugno 1207, nel quale si evidenzia che Pietro, abbate di S. Giuliano di Rocca Falluca, adempiendo agli ordini impartiti da Innocenzo III, era intervenuto per accertare le ragioni delle parti in lite relativamente al possesso del monastero conteso, e le presunte violenze perpetrate contro i monaci greci di S. Stefano del Vergari, ad opera del defunto Tolomeo de Pallaria feudatario di Mesoraca.

In questo documento, lo stesso Pietro riferisce che, nel giugno del 1205, dopo aver ricevuto una lettera dell’abbate di S. Giovanni Calibita, il quale lo informava che “in facto interesse non poterat”, portatosi in “Genococastrum” (Belcastro), alla presenza del vescovo di quella città e del conte, nonchè di alcuni “canonicis et militibus”, trovò che il “dominum Tholomeum” era morto e, citato il “Grecus qui se dicebat abbatem”, il quale accusava di violenza il defunto, questi con “subterfugiens” evitò di presentarsi. Quindi Pietro ascoltò le ragioni dei “monachorum Sabucine” e, preso atto del loro privilegio, decretò che dovessero permanere nel possesso del monastero.

Tre anni dopo aver ricevuto questo primo mandato papale, Pietro ne ricevette un secondo così, nel mese di giugno del 1207, convocate le parti, si recò in “Musuracam que fuit terra defuncti”, dove il “Grecus qui se abbatem dicebat”, ancora una volta non si presentò, mentre si presentarono i monaci latini. Pietro ascoltò più testi giurati relativamente alle supposte violenze perpetrate contro i monaci greci, tra cui Adylasia “dominam terre, uxorem defuncti domini Tholomei”, la quale testimoniò che né suo marito né “aliquis de domo mea”, avevano commesso alcuna violenza contro i greci, e che “quicumque aliud e contra dicere aut iurare vellerent”. A questo punto Pietro, dietro il consiglio di “domini Roberti Genococastri cantoris”, e di altri “clericorum ac proborum hominum”, ascoltò la testimonianza dell’abbate e dei monaci latini della Sambucina e, preso atto dei documenti da loro esibiti, decretò nuovamente, come aveva fatto in precedenza, che il monastero conteso rimanesse nelle mani di questi ultimi.[xi]

Successivamente a questi fatti, il possesso di S. Stefano del Vergari sarà confermato ai cistercensi della nuova abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, sia dal papa che dal sovrano. Il 6 marzo 1210 Innocenzo III, su richiesta di Pietro abbate di “Sancti Angeli de Frigilo” e del suo convento, come avevano fatto i suoi predecessori, prendeva sotto la sua protezione il monastero confermandone i possessi, tra cui la “grangia Sancti Stefani de Abirgaria”.[xii] Nel maggio del 1223, da Maida, Federico II imperatore e re di Sicilia, prendeva sotto la sua protezione l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, di cui era abbate Martino, con tutte le sue pertinenze, tra cui figura la “domum Sancti Stephani de Abrigaria”.[xiii]

L’area in cui si trovava il monastero di S. Stefano del Vergari, evidenziata sul Foglio N. 570 “Petilia Policastro” della Carta d’Italia 1:50.000 dell’IGM.

I conti di Catanzaro

Risalgono a questo periodo alcuni documenti che ci permettono di evidenziare l’opera dei conti di Catanzaro nel favorire l’espansione dei cistercensi nella valle del Tacina, area ricadente nella contea di Catanzaro, interessata dalla costituzione della nuova abbazia di Sant’Angelo de Frigillo. Nel settembre del 1222 Anselmo de Iustingen, marescalco imperiale e conte di Catanzaro, per la salvezza della propria anima e di quella dei suoi parenti, oltre ad alcune donazioni, confermava all’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo diverse terre e vigne, concedendo alla stessa abbazia la facoltà di costruire un casale nel proprio “tenimento”. Il documento, scritto dal notaro Friderico, risulta sottoscritto, tra gli altri, oltre che dal conte Anselmo, da Roberto vescovo di Catanzaro, da Octo fratello del conte, e da “Alexander comitatus prefati iusticiarius”.[xiv]

Nel maggio del 1225 Federico II imperatore e re di Sicilia, dietro la richiesta di Blasio, priore del monastero di “Sancti Angeli de Frigillo”, presentatosi alla curia imperiale a nome dell’abbate e del convento, prendeva il monastero sotto la sua protezione, confermandone i possessi, tra cui: la “grangiam Sancti Stephani de Arbigara [……………] in monasterium Grecum comes Goffredus Rotellus cum comitissa Bertta matre eius, cum molendino et omnibus aliis que vobis donavit comes Ugo”.[xv]

Il documento molto frammentario, falso secondo il Pratesi, facendo menzione del conte Goffredo de Loritello e della contessa Berta sua madre, nonchè delle donazioni fatte dal conte Ugo, da identificarsi, evidentemente, con il normanno Ugo Falloch conte di Catanzaro, offre dei riferimenti temporali molto anteriori al momento di passaggio del monastero greco all’ordine cistercense.[xvi] Anche questo documento, comunque, permette di inquadrare le vicende del monastero nel solco dell’azione dei conti di Catanzaro che, con Goffredo di Loritello, conte di Catanzaro e signore di Luzzi, ritroviamo tra i fondatori della Sambucina.

Questi ebbe un figlio di nome Guillelmo e un nipote, Goffredo di Carbonara, o Goffredo di Luzzi, che fu “dominus Lucii et Rocce Bernarde”. Quest’ultimo, signore di Rocca Bernarda al tempo del re di Sicilia Guglielmo II (1166-1189), è ricordato per le numerose donazioni in favore del monastero della Sambucina, che era stato fondato dai suoi progenitori. Goffredo di Carbonara era ancora in vita nel 1196.[xvii]

Avorio conservato al Germanischen Museum di Norimberga che menziona Goffredo conte di Catanzaro (da www.gnm.de).

Feudo e feudatari

Le vicende di S. Stefano del Vergari che, agli inizi del secolo Tredicesimo, avevano coinvolto il feudatario di Mesoraca Tolomeo de Pallaria, evidenziano chiaramente che, l’originaria fondazione del monastero pertinente alla metropolia di Santa Severina, risaliva ai feudatari di quel territorio, che avevano concesso ai monaci greci alcune terre del feudo di Mesoraca, dotandolo con i beni necessari alla costituzione della loro comunità e al suo sostentamento.

Tale situazione emerge chiaramente anche da altri documenti della prima metà del Duecento, come nel caso di quelli riguardanti una inchiesta relativa al castello di Santa Severina, alle cui spese di riparo dovevano concorrere tutti i feudatari, i cui feudi ricadevano nell’ambito della giurisdizione del castello stesso. Nel marzo del 1240, il “dominum Goffredum de Roccabernardi” ed il giudice “Stephanum de Cutrono”, su mandato di “Iohannis Vulcani de Neapuli provisoris imperialium castrorum” dal fiume Salso fino alla “portam Roseti”, per conto della curia imperiale conducevano un’inchiesta, per accertare se l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, “pro grangiis et tenimentis suis que possidet in tenimento Sancte Severine, aut pro grangia Sancti Stephani de Abirgaria”, fosse tenuta a concorrere al riparo e a fornire prestazioni riguardanti l’“inperialis castri Sancte Severine”.

Da tale documento apprendiamo che, già in precedenza, e precisamente “eo tempore quod dominus noster serenissimus inperator ad partes ultra marinas transfretavit” (28 giugno 1228 – 10 giugno 1229), il “frater Burrellus tenplarius” ed il “frater Rogerius hospitalarius”, “magistri et provisores inperialium castrorum”, avevano condotto un’analoga inchiesta, interrogando testi giurati nella stessa Santa Severina, e negli abitati tenuti a fornire prestazioni riguardanti il castello, cioè: “in casale Sancti Mauri”, “in casale Sancti Iohannis de Monacho”, “in casale Cutri”, “in Rocca Bernardi” ed “in Mesuraca”. In entrambi questi episodi però, tutti i testi avevano riferito di non essere a conoscenza dell’esistenza di un tale obbligo da parte dell’abbazia.[xviii]

Mesoraca (KR), paesaggio presso il fiume Vergari.

Disboscamento e messa a coltura

Il monastero di S. Stefano del Vergari dimostra di essere ancora abbastanza vitale durante la prima metà del Trecento, quando in una platea compilata su mandato del conte di Catanzaro, è richiamata la “ecclesiam S. Stefani”, posta lungo la via pubblica, nella parte più meridionale del territorio di Mesoraca, verso il confine con il territorio di Belcastro: “ad vallonem qui dicitur de Brocuso et per ipsum vallonem vadunt ad Culturam quae dicitur E(minentissi)mi Theusararii fors mur (sic, ma Thomasia Forismuro) et ascendunt recte ad terras Bichone et descendunt per ipsam ad locum qui dicitur Brulleto ad viam publicam et per ipsam viam vadunt ad ecclesiam S. Stefani et descendunt per ipsum vallonem versus septentrionem limitando tenimentum Mesorace a parte meridiei ad finorum que dividitur tenimentum Mesorace a tenimento Genicastri seu Belcastro”.[xix]

Risalgono a questo periodo alcuni atti che documentano il dissodamento di parti della foresta che si estendeva attorno alla grangia cistercense, e la concessione a censo delle terre così ottenute per la piantagione di vigne. L’esistenza di questi vigneti in località “Frassineto”, lungo la sponda destra del corso del fiume Vergari, risulta comunque già documentata durante la prima metà del secolo precedente.

Nel luglio 1213, Guglielmo figlio del canonico Raone, avendo in precedenza ceduto a Pietro abbate di “Sancto Angelo de Frigilo”, la sua parte della vigna di S. Marco, in cambio di una vigna dove si dice “Frassinitum”, a suo tempo concessa all’abbazia da un giustiziere, seguendo l’esempio in punto di morte di suo fratello Michele, per la salvezza della propria anima, concede alla stessa abbazia la sua parte di detta vigna, riservandosene in vita il possesso e l’usufrutto.

Nel dicembre del 1230, nel documento scritto da “Bisancii monachus Sancti Angeli de Frigilo”, il “presbiter Peregrinus protopapa Mesurace”, per concessione di sua moglie Peregrina e dei suoi figli, dona per l’anima propria al monastero di “Sancti Stefani de Abirgaria”, la terza parte delle terre che possedeva “in loco qui dicitur Sanctus Iulianus”, e un appezzamento un tempo piantato a vigna “in loco Frassinetum iusta fontem iudicis Michaelis”.[xx]

Nel corso del secolo successivo, invece, nel mese di maggio 1333, presso il monastero di Sant’Angelo de Frigillo, fu scritto l’atto mediante cui “Philippus humilis abbas monasterii Sancti Angeli de Flangillo”, con il consenso e la volontà del convento, locò “ad quinquennium iuxta sanciones papales” a “Nicolao Cavallo de terra Musurace”, “peciam unam vinee nostri monasterii existentibus in tenimento Musurace, in loco qui dicitur Tamibruchium”, “cum arboribus ibidem existentibus”, così confinata: “ab oriente via puplica, ab ocidente nemus Sancti Stephani, septemtrione vinea Andree et Dominici Platachelli contingens eis nomine enfiteutico, et alios coffines”, dietro il pagamento del censo annuo di “granum quindecim pecunie” da pagarsi “in festo Sancte Marie Virginis de mense augusti”.[xxi]

Il 28 ottobre 1344, presso Sant’Angelo de Frigillo, “frater Guillelmus de Odone, procurator monasterii Sancti Angeli de Frigillo”, locava per cinque anni, a partire dal primo di novembre prossimo, a “magistro Rogerio de Calii de eadem terra Mesurace”, “pecia unam terre, sitam et positam in tenimento dicte terre Mesurace, in loco dicto Cultura de monachis cuius fine sunti hii et videlicet: ab oriente terra que recepit ad faciendum vineas presbiteri Rogerii Albisani ad meridie est foresta Sancti Stphani”.[xxii]

Il 15 marzo 1350, attraverso un atto “scriptum in grangia Sancti Stephani de Avirgano”, abbiamo conoscenza che “Petrus prior et procurator” del monastero di Sant’Angelo de Frigillo, alla presenza dei “venerabiles vires presbiterus Petrus Peragrina et frater Anfussus et magister Pape et alii hominibus qui sunt digni”, prendeva possesso dell’appezzamento così confinato: “pastinum quod fuit Nicolai Carussi ab oriente, ab ocidente est pastinum quod tenet Iohannes Matheus, a septemtrione est vinea monasteri quos dedimus a magistro Pape de magistro Custantino, a meridie est nemore Sancti Stphani et alios fines”, concesso cinque anni prima “ad mediatem” a “Rogerii de Calii”, mentre la restante metà veniva concessa in perpetuo a “dopna Sabella, uxor magistri Rogerii de Calii”.[xxiii]

Il 12 marzo 1352, “apud monasterium Sancti Angeli de Fringillo”, “frater Guillelmus de Sancto Marco abbas monasterii Sancti Angeli predicti”, locava “ad annos quinque” a partire dal 12 di marzo corrente a “magister Thomasius Pullicius de Mesuraca pecia una de vinee spectante nostro monasterio, sitam et positam in tenimento terre Mesurace, in loco qui dicitur cultura monachorum, iuxta vineam magistri Thomasius Pullicius, qua pervenit iure plante, ex alio latere pastinu presbiteri Nicolai Innitameche et ex alio latere est terra boscosa et alios sibi confines”, dietro il pagamento di un censo annuale di “granorum auri quinque pecunie” da pagarsi “in festo Virginis Marie de mense augusti”.[xxiv]

Dovrebbe risalire alla metà del secolo XIV, un atto molto frammentario pubblicato dal Guillou, che riporta un elenco di entrate del monastero di Sant’Angelo de Frigillo: “Die XIIII° Agusti XVe ind(ictionis) facta …ali ecc(lesi)e; fuit Joh(ann)es Falconus a(b)bas mon(asterii) S(an)cti Ang(e)li assignavit Nic(o)l(a)o Mahee i(n) granu(m) S(an)cti Steph(an)i so(lvit) … th(umulos) LXXXII cicerios … th(umulos) LXIIII fabas … th(umulos) XII It(em) confessus e(st) d(i)c(tu)s ab(b)as e(ss)e penes se intr(oitus) t(er)rit(or)ii mes(arc)ae; … so(lvit) th(umulos) XXXV”.[xxv]

Mesoraca (KR), paesaggio presso il fiume Vergari.

Decadenza ed abbandono

Questa attività di messa a coltura di porzioni di foresta, attraverso la piantagione di vigne da parte del monastero di S. Stefano del Vergari, risulta documentata ancora verso la fine del secolo. L’otto agosto 1390 “apud Mesoracam”, alla presenza di “Thomasius dopni Santori, annalis iudex dicte terre, Petrus Dorante de Mesoraca regius puplicus per totum ducatum Calabrie notarius”, si costituiva il “religiosus et venerabilis vir frater Nicolaus de Badulato humilis abbas monasterii Sancti Angeli de Frigillo pertineciarum terre Mesorace” che, in ragione della “usum et consuetudinem loci et terre Mesorate”, chiedeva che si procedesse alla divisione in due parti uguali di un vigna costituita da “petiam unam terre dicti sui monasterii sive continentiam unam terrarum”, “sitam et positam in loco dicto Li manky de tenimento Mesorace iuxta ripas dictas de Li manky alias terras monasterii predicti”, con il “iudici Rogerio Pullisano de Mesoraca” il quale, cinque anni prima, l’aveva ricevuta in locazione e vi aveva piantato la vigna, beneficiandone per questo periodo. Facendo valere il proprio diritto, l’abate scelse la parte giudicata migliore “que est in parte superiori seu latere superiori prope ripas dictas de Li manky et alias terras preditti monasterii”, ovvero “a Le Manche de la Formicosa”, dove si trovavano 1350 viti, mentre altrettante rimanevano nella parte rimasta al Pullisano.[xxvi]

In tale frangente però, sulla scia dell’ormai irreversibile decadenza dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo e dello stesso ordine cistercense, la grangia di S. Stefano risulta affidata ad un curatore.[xxvii] L’otto gennaio 1398, in un atto stipulato presso la terra di Mesoraca, si costituisce “Alibertus divina providentia episcopus Strengulensis (sic) et administrator bonorum eclesie monasteri Sancti Angeli de Frigillo et curator grangie Sancti Stefani”, per aderire alla richiesta di “dopnam Iacobam relicta quondam Poiderii (Rogerio ndr) Pullisani de dicta terra Meserate” che, relativamente alla vigna posta “in tenimento dicti terre Meserate in loco dicto la mantho de la formitusa” (sic, ma le manche dela formicusa ndr), non avendo nessun istrumento a sua cautela, chiede di ottenere un contratto di locazione per la “quartam partem supradictam vinee in perpetuum”, pagando annualmente il censo nel “mense augusti in festo gloriose virginis matris Marie”.[xxviii]

In seguito, non si hanno altre notizie di una vita attiva da parte del monastero, che continuò a seguire le vicende dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo. Durante la dominazione aragonese quest’ultima fu data dal papa in commenda e, per tale motivo, ben presto fu abbandonata dai monaci.[xxix]

Mesoraca (KR), ruderi dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo (da fr.tripadvisor.ch).

Le terre dette la “grancia”

Alcuni documenti relativi al feudo di Clima, che vanno dalla metà del Cinqucento ai primi del Seicento, evidenziano che il territorio denominato la “grancia”, o “l’arangi”, apparteneva al suddetto feudo.[xxx] Anche se in questo periodo la grangia di S. Stefano non era più abitata dai monaci, che l’avevano abbandonata da tempo, attraverso questo toponimo, il luogo manteneva il ricordo della sua esistenza passata.

Tra le entrate feudali di Giovan Battista Spinelli nel territorio di Mesoraca, che risultano dal relevio relativo alla successione del padre Troiano, presentato alla Camera della Sommaria di Napoli nel dicembre del 1567, si riporta: “Grani delle terre della Raugia, (sic) Battaglia, Bolgnaci (sic, ma Bolonagi) et S. Stefano e censi in grano tomola 41,5 che alla raggione de carlini 4 a tomolo sono d. 16.3”.[xxxi]

Tra i possedimenti del Principe della Scalea riportati in un apprezzo del 1574, sono annotati: “Terre pezzi 4 loco ditto lo piano de larangi foro del q.m Ger.mo genuise (…) sal. 6 (…); Terre a larangi foro del q.m Antonio Calio con due molina macinanti salmate 4 chiamate le molina de larangi (…); Terre a larangi comprate da Sarra de Molinaro e m.o Giulio de Abrigl(ia)no (…) salmate 2 (…); Terre a larangi foro di donno Cola fanzanello (…) salmate 6 (…).”[xxxii]

L’esistenza dei due mulini con alcune terre circostanti nel luogo detto “La Grangia”, quali beni di natura burgensatica posseduti dal feudatario, è documentata da una fede della Regia Camera della Sommaria di Napoli del 1581, dove verteva lite tra l’università di Mesoraca ed il feudatario, in merito al riconoscimento dello stato di alcuni beni fondiari siti nel proprio territorio. Nel relativo elenco si riporta: “Item due molina e terre circum circa burg.ce site dove si dice la rangia dentro detto terr.o di Mesuraca iuxta lo fiume de burgari, e le terre di franco de Giglio e la via publica”.[xxxiii]

Viceversa, la natura feudale delle terre vicine ai mulini, e poste tra l’acquaro di quest’ultimi ed il fiume, nel luogo dove questo faceva una “volta”, risalta da un contratto di affitto stipulato tra Gabriele Longo governatore della terra di Mesoraca e procuratore dell’Ill.mo Duca di Gallese, utile signore della terra di Mesoraca, da una parte, e Vinzalao Fera e Antonio de Soda del casale di Cellara, pertinenza di Cosenza, dall’altra, relativo all’erbaggio del corso della “Rotonda” per l’anno 1585.

In tale documento oltre ad essere descritti i confini dei terreni interessati dall’affitto, si descrivono le aree interdette al pascolo. “lo territorio et curso detto e nominato la Rotunda posto nelle pertinentie di Mesoraca confine l’Albano, confine Diporto et lo fiume di Virgari e lo vallone che discende dall’Agrillo et sine include la gabella che fu di Paolo di Tacina che la tiene l’herede di Giovanni Venneri confine le serre serre di S.ta Cuaranta, et altri confini soliti, e consueti con tutti li vacanti di l’Albano, e diporto che sono gabelle dela Corte, e la gabella di Martoro che non si faccia maijse dal mag.co Marcello Caivano preservando la vota del’Arangi ch’è fra l’acquaro et lo fiume di Virgari che rimane per la Corte, et volsero che il prato dell’auni non si possa lavorare per la Colla di Vissota, et alle manche che non si lavori dalla Colla a pendino franca di bagliva di Decima et ogni altra cosa, et Angaria”.[xxxiv]

Il possesso di queste terre da parte della Corte di Mesoraca dove, evidentemente, il monastero di S. Stefano del Vergari deteneva solo il diritto di pascolo, si rintraccia ancora in un atto del 1660, dal quale si rileva che D. Antonio Nicotera possiede un patrimonio di cui fa parte un pezzo di terra nel luogo detto “lo Piano dell’Arangia prope Agrum Curie Ducali”.[xxxv]

Mesoraca (KR), frammenti ceramici raccolti in località “Erbebianche”/“Piano degli Aranci”, presso il corso del fiume Vergari.

Le località dette “Valle dell’Arangia” e “Colla dell’Arangia”, quest’ultima attraversata da una “trazza” di uso comune tra le mandrie dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo e quelle della Mensa vescovile di Belcastro, sono più volte menzionate in un documento del 1673, che descrive i possedimenti di detta Mensa, tra cui i confini del feudo di Spertuso del territorio di Belcastro:

“et detto Vallone à bascio va à ferire all’Ulmo di gallo quale al presente non appare, però per diritto và a ferire alla Valle grande chiamata la Valle grande della Finocchiara, e la Valle, Valle, và à ferire al Casaleno delli Gargani, che hoggi possiede d.o Mag.co Gio: Tomaso Scarrillo, e la Valle adiritto chiamata la Valle dell’Arangia và à ferire alla Colla dell’Arangia, e lo Vallone abascio, che divide le terre della Sig.a Isabella Morella hoggi possesse per detto di Scarrillo, e le terre del q.m Scipione Riccio al presente possesse dalli R(evere)ndi Canonici di d.a Città, e per deritto và a ferire alla fiumara di Nasari”;

“una (trazza ndr) anda verso la Colla dell’Arangia e lo Vallone à pendino che divide le terre della q.m Isabella Morello al presente possesse dal d.o Gio: Tomaso Scarrillo, e Sig.r q.m Scipione Rizzo al presente le possiede il R(evere)ndo Cap(ito)lo della Cattedrale della d.a Città, quale trazza, e comune con le pecore di S. Angelo, la quale trazza hoggi e rotta e non si prattica”;

“Item detta Mensa Vescovile (di Belcastro ndr) tiene e possiede una gabella loco d.o la Colla dell’Arangia da Venti tumolate in circa, la quale incomincia dalla Colla dell’Arangia e le timpe timpe va a ferire allo termine delle terre che furono del q.m Scipione Rizzo al presente possesse dalli R(evere)ndi Canonici di d.a Città, e lo termine a pendino va a ferire al termine di sopra la Casa che fu di d.o di Rizzo, e per traverso va a ferire allo Vallone che cala dalla Colla dell’Arangia, e lo vallone a diritto che divide le terre che furono della q.m Isabella Morello, e poi d’Ottavio Piterà, et hoggi di detto di Scarrillo, e le terre di detta Mensa va à ferire alla Colla dell’Arangia da dove s’incominciò, e dette terre sono nobili, e franche e libere, solamente sogette al Ius Sterziandi al Feudo sud.o di Spertuso”.[xxxvi]

Mesoraca (KR), località “Erbebianche”/“Piano degli Aranci”, in evidenza il luogo in cui sono stati raccolti i frammenti ceramici fotografati.

Le terre dell’abbazia

Attraverso la documentazione cinquecentesca e seicentesca si evidenzia che, agli inizi del secolo XVI, l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo possedeva le terre appartenute al monastero di S. Stefano del Vergari e le concedeva in affitto. Tra i “Dinari reciputi per me donno Franco dele intrate de Sancto Angelo de Mesorache che so’ delo anno quarto Indis 1516 et ancora dinari reciputi de residui anno tertio indis”, troviamo: “Agio reciputo per lo afficto de sancto Stefano ducati quaranta dico, duc. 40.0.0”.[xxxvii]

Queste terre si trovavano presso il corso del Vergari, dove, durante il Cinquecento, rimanevano ancora i toponimi: “S.to Stefano”, “Manche di S.to Stefano” e “Destre di S.to Stefano”, riferiti alla presenza del monastero medievale, posto presso l’attraversamento del fiume. Queste terre confinavano con il corso di Jinò, come si rileva da un atto del 1581: “Item un’altro territorio chiamato pino (sic, ma jino) di moija cinquecento in circa sito dentro detto territorio di Mesuraca iuxta lo territorio de Policastro, e le terre de l’Abbatia di S.to Stefano”.[xxxviii]

In un contratto di affitto stipulato tra Gabriele Longo governatore della terra di Mesoraca, e procuratore dell’Ill.mo Duca di Gallese, utile signore della terra di Mesoraca, da una parte, e messer Cola Francesco di Bona e Gio Maria Giacco di Aprigliano casale di Cosenza, dall’altra, relativo all’erbaggio del corso di Jinò per l’anno 1586, sono descritti i confini dei terreni interessati dall’affitto che, in corrispondenza con i limiti del corso della Rotunda, confinano con “le manche di S.to Stefano”: “lo terr.o d.to e nominato de Jenò con tutte le gabelle di particolari che si trovano dentro quali remaneno che se l’accommodi la Corte et la metà di questo modo per la colla di lavaturo la via pp.ca et mitte alla Conicella et per la via pp.ca et escie alle timpe grandi et si mette alla via pp.ca et allo timpone di S.ta Maria di Mezagosto la via via et mitte allo vignale di franc.co di Rosa e frate lo vallone a pendino che divide le manche di S.to Stefano, et confine le terre di Paolo di Tacina che sono deli Venneri perché vanno con la Rotunda confina la terra dela mendola confine la gabella dela Sig.ra Julia et S.ta Cuaranta confine Baudino e per lo vallone di baudino confine con la gabella di D. Ascanio Infosino la via pp.ca che escie allo timpone di S.to Pietro et mitte alla via pp.ca et conclude alla colla di lavaturo reservando le vigne se ritrovano dentro d.to terr.o”.[xxxix]

I possedimenti di Sant’Angelo de Frigillo in questa parte del territorio di Mesoraca, sono descritti in una platea dell’abbazia compilata l’anno 1603, anche sulla base di una “Platea Veteri”, dove risultano: le “Vigne e terre contigue” di circa sette tomolate già appartenute a Luca Russo, e attualmente possedute dal clerico Gio. Domenico Cappa “in loco detto Santo Stefano”, confine “la fontana delli Virgari e le destre di Santo Stefano”, per le quali paga un censo annuo di carlini cinque all’abbazia. Il tenimento di terre detto “le Destre di S. Stefano” che tengono in fitto Masi Parretta e Francesco Brizzi, confine “lo Comune dell’Università, mediante la via publica e la fiumara di Vergari”. Il “tenimento” detto “le Manche di S. Stefano” che tiene in fitto Gio. Paolo Salerno, confine “lo Vallone di Santa Maria de mense Augusti” e altri fini. Il vignale appartenuto a Gio. Ferrante Lofeno, ora posseduto da Giufrida Provenzano “in pede le Manche di S. Stefano”, per il quale paga un censo di grana dieci.[xl]

In evidenza le località “Troiani”, “Faralda”, “M.o S. Antonio”, “P.no di Frassineto”, “Vota del Conso”, “Porticella”, “S.to Quaranta”, e “P.no degli Aranci”. Particolare dei F. 237 II S.O. “Sersale” e 237 II S.E. “Marcedusa”, della carta d’Italia 1:25.000 dell’IGM.

Beni feudali e burgensatici

Questioni riguardanti lo stato dei beni fondiari un tempo appartenuti al monastero di S. Stefano, si evidenziano nella seconda metà del Cinquecento, nell’ambito dei contrasti sorti tra gli arcivescovi di Santa Severina ed i feudatari di Mesoraca, in relazione alla riscossione delle decime sui corsi dell’arcidiocesi.

Attraverso la corposa documentazione relativa ai processi a tale riguardo, che si conserva presso l’Archivio Arcivescovile di Santa Severina, siamo a conoscenza che, a quel tempo, verteva una lite presso la Camera della Sommaria di Napoli tra il feudatario e l’università di Mesoraca, che quest’ultima aveva mosso perché chiedeva che fosse riconosciuta la natura burgensatica di alcuni possedimenti del feudatario. Di conseguenza, l’università pretendeva che i beni in questione fossero inseriti nel catasto universale, in maniera tale che il feudatario contribuisse ai pagamenti fiscali. Questi invece, si riteneva esente da tale pagamento, in quanto attribuiva uno stato feudale a detti suoi beni. Tale riconoscimento, tra l’altro, avrebbe consentito all’arcivescovo di poter esigere le decime sui pascoli dei territori interessati.[xli]

A tale riguardo, in un atto del 3 febbraio 1629, che elenca le decime riscosse dai procuratori della Mensa arcivescovile nel territorio di Mesoraca e dei suoi casali, sono riportate quelle riscosse: “Nelle manche di santo stefano, Troiani, et caldarari”, nelle “manche di s.to stefano et troiani”, e “della Ruca et Rivoti, come di s.to stefano et Troiani nel curso della rotunda”.[xlii] La natura corsa di “S. Stefano”, territorio dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, è evidenziata ancora durante gli anni successivi, da un’altra testimonianza di parte arcivescovile: “L’anno poi 1648 Mattheo Capicchiano con d.i Compagni senza il d.o Gio Pietro e Filippo di Cosenza tenero le loro pecore nel Territ.o di S. Stefano dentro il Curso di Misuraca et jo medesimo l’affittai d.o Terr.o come affittatore di S. Angelo in francillo diedi e d.o Terr.o e pure pagorno la x.ma et è Camera Chiusa”.[xliii]

Una testimonianza rilasciata nel mese di dicembre 1660, c’informa circa l’esistenza di terre comuni in questi luoghi: “nella Gabella di D. Gio: Batt(ist)a mantia chiamata la faralda, acciò in q.ella ci facessero dormire le pecore che pascolavano la d.ta Gabella, li Trogliani, li menzagni di S.to Stefano et lo Cast.o di S.to Antonio, che sono comuni a tutti q.esti Cittadini di Me.ca dove ogn’uno può pascere, et io l’hò viste quasi ogni giorno pascere in d.to loco con’occasione, che stò di continuo, al Castello di S.to Antonio”, mentre un atto del 14 aprile 1661, ci permette di conoscere i confini della gabella di S. Stefano, dove dovevano trovarsi l’antica chiesa con il suo monastero: “In q.esta Gabella di S. Stefano sono confini le Gabelle, chiamate la faralda di D. Gio: Batt(ist)a Mantia, li Trogliani di Gio: leonardo fortino, et la gabelluccia della Chiesa della SS.ma Annunc.ta”.[xliv]

In evidenza le località “Molino S. Antonino”, “R. Farauda”, “Colle Formicosa”, e “R. Trogliani”. Particolare del F. 237-II “Petilia Policastro”, della Carta d’Italia 1:50:000 (U.S. Army 1943, copiata da una mappa italiana del 1896).

La gabella detta “S: Stefano” e quella detta “la Formicusa”, risultano tra i possedimenti di Sant’Angelo de Frigillo nel 1744, al tempo della compilazione del catasto onciario: “L’Abadia Detta S: Angelo in Fringillo Possiede Una Cabella d:ta S: Stefano di Capacità tt.a Cento Venti, alborata di quercie, confine le Terre delli Gio: Paulo, Saverio, e Rosalba Mantea, e le Terre della Chiesa della Candilora, Stimata la rend:ta annui d: Settanta”. “Più possiede un’altra Cabella d:a la Formicusa di Capacità tt.a Cento Venti, Confine la Cam:ra Ducale e m. Nicolò longobucco, Stimata la rend.ta annui d: Settanta”.[xlv]

Alla fine del secolo (1795), al tempo in cui il suo abbate commendatario concesse in enfiteusi Sant’Angelo de Frigillo ai cistercensi di San Giovanni in Fiore, tra i beni appartenenti alla badia troviamo: le “gabelle di Santo Stefano e Formicusa in territorio di Mesoraca”,[xlvi] mentre in occasione della ripartizione dei demani, i “fondi S. Stefano, Formicuso e S. Angelo”, risultano detenuti da Filippo, Pier Vincenzo e Alessandro La Rosa che versano ai comuni di Mesoraca, Marcedusa, Petronà e Arietta, la quarta parte del canone dovuto.[xlvii]

Mesoraca (KR), in evidenza  i resti del Palazzo, o Castello, di Santo Antonio.

Note

[i] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 175-179.

[ii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 282-284; 335-339.

[iii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 267-269.

[iv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 317-321.

[v] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 335-339.

[vi] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 168-175.

[vii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 101-106.

[viii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 194-195. Russo F., Regesto I, 540.

[ix] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 198-204.

[x] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 208-209. Russo F., Regesto I, 545.

[xi] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 209-212. Russo F., Regesto I, 105.

[xii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 241-247.

[xiii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 312-314.

[xiv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 309-312.

[xv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 335-339.

[xvi] Rende P., Vicende feudali della contea di Catanzaro, dalle origini al dominio di Giovanni Ruffo (sec. XI-XIV), wwwarchiviostoricocrotone.it

[xvii] Pesavento A., Breve Storia di Roccabernarda, www.archiviostoricocrotone.it

[xviii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 399-403.

[xix] ASCZ, notaio Biondi G. F., busta 158, 1634, f. 71.

[xx] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 251-253, 366-368. Tra i possedimenti di Sant’Angelo de Frigillo descritti in una platea dell’abbazia compilata l’anno 1603, risulta un censo pagato da Pasquale Caputo di Cosenza per “una Vigna à Frassinito, che fù di Minico Pandolfo iuxta suoi fini deve grana cinque.” AASS, Fondo Arcivescovile, cartella 124B, ff. 1-10.

[xxi] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, pp. 65-66.

[xxii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, pp. 69-71.

[xxiii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, pp. 71-72.

[xxiv] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, pp. 73-74.

[xxv] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 66-70.

[xxvi] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, pp. 32-35.

[xxvii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, XXXVII.

[xxviii] Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 353-354. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 458-460.

[xxix] Pesavento A., Il monastero di Sant’Angelo de Frigillo presso Mesoraca (dal ripristino alla soppressione), in La Provincia Kr nr. 49-50/2001.

[xxx] “Luca Antonio Pitera de Catanzaro, possessore di certi territorij seu escadentie et grancia del feudo di Crimia in territorio di Belcastro” (1565-1569). “Magnifica Camilla Pitera, figlia di Luc’Antonio, posseditrice del feudo di Crima in territorio di Belcastro, tassata in ducati 8.2.4 con molte gabelle nominate l’arangi, ruoturo, pavungelio, landala, livolo d’Ayello et brocuso quali gabelle sono scadentie di detto feudo et pagamento fatto del relevio ad 22 di luglio 1573 et immunità de pagamenti fiscali et di gabelle per le dette intrate feudali” (1610). “Gioseppe Ferraro di Catanzaro, possessore del feudo nominato Crima sito in Belcastro, con altri membri feudali chiamati le gabelle di Brocuso, Untaro, l’Arangi et altri” (1615-1617). ASN, Reg. Camera della Sommaria, Segreteria, Inventario.

[xxxi] Caridi G., Decime Ecclesiastiche e diritti signorili sui pascoli nel territorio di Mesoraca nei secoli XVI e XVII, in Archivio Storico per La Calabria e la Lucania anno LI 1984, p. 44.

[xxxii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 7A, Apprezzo della Terra di Mesoraca fatto il 14 Maggio 1574.

[xxxiii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 7A, Apprezzo della Terra di Mesoraca fatto il 14 Maggio 1574.

[xxxiv] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 14A.

[xxxv] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 37A.

[xxxvi] AASS, Fondo Arcivescovile, cartella 15B, ff. 42v-47.

[xxxvii] Bresacchio G., L’argentera di Longobucco, l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo e il porticciolo di Castella in un manoscritto del Cinquecento, 1972, pp. 81-82.

[xxxviii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 14A.

[xxxix] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 14A.

[xl] AASS, Fondo Arcivescovile, cartella 124B, ff. 1-10.

[xli] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 7A.

[xlii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 8A, ff. 68-70v.

[xliii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 7A.

[xliv] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 39A, ff. s.n.

[xlv] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio, Catasti Onciari, 6980, f. 279.

[xlvi] Spinelli F., Le Origini di Filippa, 1997, pp. 47-48.

[xlvii] s.d.: “la Rosa Filippo, Pier Vincenzo e Alessandro – sulla diminuizione dei canoni da loro dovuti sui fondi S. Stefano, Formicuso e S. Angelo perché dovuto il quarto ai comuni di Messeraca, Marcaduia, Petrona et Arietta, iusta l’ordinanza del Comune ripartitore.” ASN, Commissione Esecutrice del Concordato, Pandetta 374.


Creato il 24 Febbraio 2015. Ultima modifica: 20 Ottobre 2023.

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