Per uno studio sulla servitù nella Calabria medievale

villani che mietono il grano sotto il comando del loro padrone (da sit.quora.com).

In una nota contenuta in una memoria ottocentesca conservata nell’archivio arcivescovile di Santa Severina, l’autore si sofferma sulla etimologia della “voce Homo”, evidenziando che, anticamente, durante il Medioevo, questa era utilizzata comunemente per indicare gli individui di condizione servile, divenuti tali dopo essere stati catturati in guerra, oppure decaduti in questa condizione per essersi macchiati di fellonia, essendo venuti meno al rapporto di vassallaggio che li legava al loro signore: “… ne secoli di cui si ragiona altro non indicava che i soldati prigionieri in guerra, e pure i Cittadini felloni trattenuti dai Principi. Doveano essi perder la vita, o pur subire la condanna ne lavori publici più fatigosi. Colla Religion Cristiana si era abolita la dura condizione de Servi, perciò i Principi Cattolici or l’impiegavano a profitto del publico Erario ed or alla coltura delle Terre Demaniali. Spesse volte poi ne facean dono alle Chiese ed ai Monasteri a cui restavan addetti per ritrarne de Servizi e delle prestacioni. Quando dunque erano in posta del Padrone ancora senza special ascrizzione familiaria si chiamavano Homines de capite: de corpore. Ma se facean parte di qualche Corso o Villa eran detti Villani: Stallati: Ascriptitii: Angarii: Perangarii a tenor dell’obbligo e del servizio che prestavano, tanto essi che i di loro discendenti.”[i]

Squadre di donne provvedono alla mietitura nel Crotonese prima della guerra (foto fornite da Daddo Scarpino).

 

“De demanio in demanium et de servitio in servitium”

Al fine di fornire “una giusta idea del sistema feudale delle provincie Napoletane sotto i Normanni”, privo delle aggiunte posteriori presenti “nei vari e voluminosi trattati, che sulla materia presso noi si sono scritti”, attorno alla metà dell’Ottocento, Bartolommeo Capasso scrisse alcune “preziose notizie sulla feudalità”, attingendo dal c.d. “Catalogo dei Baroni”: un elenco redatto al tempo di Guglielmo I il Malo (1154-1166), allo scopo di fissare la contribuzione a fini militari nei riguardi del regno, spettante ai diversi feudatari di quel tempo.[ii]

In questo elenco i feudi (“feuda”) risultano distinti tra quelli detenuti “in demanium”, ossia “in capite”, e quelli detenuti “in servitium” che, in seguito, saranno detti subfeudi o “suffeudi”. I primi, erano ottenuti dal feudatario attraverso la concessione diretta o “inmediate” da parte del sovrano, mentre i secondi, ricadendo nell’ambito dei primi, erano sub-concessi dal feudatario cui il feudo era intestato “in capite”.

Al tempo cui si riferisce il Catalogo, previo l’assenso regio, i feudi potevano essere ottenuti anche attraverso successione ereditaria, a titolo di dote o di dotario, per compra-vendita, o per effetto di permuta, sia con un altro feudatario, sia con la regia corte. La concessione in feudo poteva riguardare qualunque bene o diritto appartenente al sovrano, compreso le persone ridotte alla condizione servile di forza lavoro, a patto di poter assicurare una rendita a coloro che ricevevano tale concessione a titolo di vassallaggio: il rapporto che legava al signore il suo vassallo che, in qualità di suo sottoposto, riceveva da questi aiuto e protezione in cambio della sua fedeltà.[iii] “Noi dobbiamo servire il signore, perché egli ci protegge. Se non lo fa, allora per legge non gli saremo più debitori di alcun servizio.”[iv]

In cambio della rendita di cui beneficiava, accertata attraverso la rivela dello stesso feudatario, oppure in base a quanto risultava nei quaternioni della regia curia, o era stato possibile accertare per testimonianza, ogni signore era tenuto a seguire personalmente il proprio sovrano in guerra,[v] fornendogli anche un certo numero di unità combattenti di cavalleria e di fanteria, distinte in “milites” per quanto riguardava le prime, costituite dai suoi suffeudatari, e in “servientes”, detti anche “pedites” o “pedites armati”[vi] (a volte “balistarii”)[vii] le seconde, in massima parte composte da agricoltori che costituivano la larga base della piramide feudale del regno, strutturata secondo i tre ceti (“ordines”) in cui si distingueva la società di quel tempo (ecclesiastici, guerrieri e agricoltori).[viii]

Il milite (“miles”) si sottomette al signore (“dominus”) che, a sua volta, si sottomette al sovrano (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Uomini e corvees

In ragione di questa gerarchia e di tale subordinazione, ogni famiglia appartenente alla popolazione agricola del feudo, era tenuta a fornire gratuitamente al proprio signore una serie di prestazioni lavorative e di contribuzioni, stabilite secondo usi e consuetudini locali e in base alle particolarità di ogni singolo feudo che, successivamente, troveranno posto nei patti stipulati tra il signore e i suoi vassalli. Diritti signorili discendenti dagli antichi obblighi (corvees) che, nell’ambito dell’economia curtense, impegnavano gli agricoltori a fornire una parte del loro lavoro nell’ambito della riserva dominicale.[ix]

Accanto alla possibilità di poter disporre delle prestazioni lavorative di questa popolazione agricola, fissate attraverso gli usi del luogo, il signore spesso possedeva anche una propria forza lavoro, costituita da alcune famiglie con i loro beni che, attraverso la concessione del sovrano, vivevano e lavoravano al suo esclusivo servizio. Questi lavoratori servili, le cui libertà erano ulteriormente limitate rispetto a quelle di cui beneficiava il resto della popolazione, erano tenuti a fornire in toto al signore il proprio servizio personale che, discendendo da questa loro condizione di servi, ereditata di padre in figlio, li relegava all’ultimo gradino della società medievale.

In relazione a tali differenze legate al diverso grado di libertà della persona, i documenti distinguono gli individui (“homines”) che costituivano la popolazione agricola residente nel feudo, in due categorie principali: quelli che godevano della piena libertà personale detti “francos” e quelli di condizione servile detti “villanos”.

1170: “… et insuper concedo attrahere et habere francos homines, ut est usus huius terre, et concedo tibi stallare ad molinum”.[x] 1208: “… feudum ipsum in hominibus, villanis, et francis et quibusdam scadentiis, in molendino uno quod est situm in flumine Basentii, …”.[xi] 1209: “… feodum quod Palagani vocatur, in pertinentiis Cusen[tie] sic(ut) est vobis et monasterio Sambucine misericorditer a regia liberalitate concessum, videlicet in hominibus, villanis et francis atque cadentiis, in molendinis duobus …”.[xii] 1231: “… et mediatatem casalis Apriliani cum omnibus militibus, burgensibus et aliis hominibus franchis et villanis in eis morantibus et cum omnibus pertinentiis, appendiciis et juribus suis”.[xiii]

Agricoltori impegnati nella mietitura del grano (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

I villani

Anche se queste due categorie appaiono ben individuate in relazione al loro diverso grado di dipendenza nei confronti del proprio signore, risulta a volte comunque difficile distinguerle attraverso le vicende che emergono dai documenti: sia perché i termini usati in questi atti, mutuati dall’antico diritto romano, non contribuiscono a fare chiarezza sulla loro effettiva condizione, sia perché, a volte, i loro obblighi nei confronti del signore risultano confusi e spesso, nei fatti del tutto simili, essendo i loro diritti spesso usurpati o comunque sempre soggetti alla interpretazione e alla volontà del più forte.

La loro condizione poi mutò nel tempo, e le notizie che ce la illustrano risentono di tutto ciò, lasciandoci un quadro a volte poco determinato, circa la possibilità di pervenire ad una rigorosa definizione delle diverse situazioni, specie durante il periodo più antico dell’età feudale.

Cercando di evidenziare gli aspetti più generali e più certi, rileviamo che le antiche costituzioni del regno, identificano i villani (“villanos”) come coloro “qui in villis et casalibus habitat”[xiv] i quali, in relazione a questo loro prevalente stanziamento rurale, risultano a volte chiamati anche rustici (“rusticos”), o semplicemente solo uomini (“homines”), come nei documenti scritti in greco (ανϑρωπους), dove sono identificati anche come “lavoratori” (δουλευτὰς)[xv] o “parrocchiani” (παροίϰοι),[xvi] termine derivante forse dal greco antico “perieci” (Περίοικοι=attorno all’abitazione), usato già in età arcaica per qualificare categorie di individui della polis esclusi dalla cittadinanza di pieno titolo.

Questi villani risultano distinti tra coloro che dovevano servire il proprio padrone “respectu tenimentorum, vel alicujus beneficii” detti censuari (“censiles”),[xvii] e quelli che, invece, erano tenuti a servirlo “personaliter intuitu personae suae”. Questi ultimi costituivano la categoria che le costituzioni del regno, chiamano quella degli “adscriptitii, servi glebae”, riunendo gli uomini “ad personale servitium adscripti”.[xviii]

Ciò in relazione al fatto che, essendo a tutti gli effetti un possesso, i loro nomi, accompagnati o meno dalla menzione relativa al tipo di servitù che erano costretti a corrispondere ai loro padroni, risultavano annotati in elenchi (platee), come comprovano diffusamente, i diversi esemplari di questi documenti pervenutici[xix] e come possiamo riscontrare, ad esempio, in un atto del 1165 dove, in relazione ad una controversia relativa all’accertamento dello status di alcuni uomini rivendicati dai monaci eremiti “de Nemore” in qualità di “parrocchiani della chiesa” (παρίϰους τῆς εγϰλησίας), li troviamo elencati nella platea (πλατείαν) di Rhao conte di Catanzaro.[xx]

In relazione alla loro condizione, questi servi erano obbligati a fornire al loro padrone i propri servizi personali (“servitia”), oltre a consegnargli alcuni doni o presenti (“salutes”) in momenti particolarmente significativi dell’anno (Natale, Pasqua, ecc). Tali doni erano dovuti anche dai censuari che, in relazione alla porzione di terreno coltivabile ricevuto, erano tenuti a corrispondergli annualmente, un censo perpetuo (poi convertito in denaro) attraverso la consegna di tributi: salme (“salmas”) di vino provenienti dalle proprie vigne e quote di altri prodotti (“de victualibus”) ottenuti dai propri seminativi,[xxi] e così, per tale motivo, erano detti anche “tributarii”.[xxii]

Il vassallo promette fedeltà sulle reliquie e nelle mani del signore ricevendo una vigna (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Gli affidati

La possibilità per il feudatario di ottenere la concessione di uomini e di “casarli” nel proprio feudo, era subordinata all’ottenimento di uno specifico privilegio da parte della regia corte, attraverso cui il sovrano conferiva ad un signore la libera potestà di affidarli e recepirli nel proprio dominio e nella propria giurisdizione, come si rileva, ad esempio, in un privilegio concesso al vescovo di Canne del 1105: “… et habeat plenariam facultatem, et liberam potestatem affidandi, et recipiendi in dominio suo, et in iurisdictione sua omnes homines, qui voluerunt recipere dominium ipsius matricis Ecclesiae Episcopis civitatis Cannarum, et este in iurisdictione sua …”.[xxiii]

Ciò riguardava sia gli uomini liberi che si trasferivano da un feudo ad un altro, quanto i villani che cambiavano padrone. Facendo riferimento a quest’ultima situazione, infatti, il Catalogo dei Baroni registra la presenza di “affidatos” distinti dai villani,[xxiv] detti anche con altro termine che ha lo stesso significato e si ritrova anche in documenti scritti in greco:[xxv] “commendatarios”,[xxvi] ma anche “villanos commendatarios”,[xxvii] “recomendatos” o “recomendatos homines” che, al pari di tutti gli altri uomini cui spettava fornire il proprio servizio personale, erano tenuti a corrispondere al loro padrone “servitia, et salutes”.[xxviii]

Anche se la notizia ci perviene solo attraverso un privilegio falsificato, sappiamo che si sarebbero identificati originariamente in questa categoria anche gli uomini (“homines”) di Isola, come emerge attraverso l’atto col quale re Ruggero II confermò e ampliò al vescovo di Isola Luca nel 1145 (6653 a.m.), i privilegi già concessi dal duca Ruggero nel 1092, che aveva ripristinato e ridotato la cattedrale isolitana ormai “diruta, lacerata et deserta”.[xxix] In questo atto i vassalli (“vaxallorum”) concessi al vescovo per ripopolare la sua diocesi, risultano menzionati in qualità di “hominum recomandatorum” posti al suo servizio (“hominum serventium tibi”), come domestici (“domesticorum”) dediti al lavoro dei campi (“agricolarum seu colonum”) e all’allevamento (“operariorum jumentariorum”), che si ponevano nel pieno e libero possesso del vescovo e sotto la sua giurisdizione.[xxx]

Agricoltori che arano la terra (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Uomini che non compaiono

I signori infatti, oltre a detenere il possesso dei loro villani, molto spesso ottenevano privilegi che gli consentivano di esercitare il potere giudiziario nei loro confronti e, nel caso degli ecclesiastici, concessioni di esenzione dalla giurisdizione civile, come documenta un atto del maggio 1225, quando il “magistro Petro de Sancto Germano magnae imperialis Curiae iudex”, giudicò nel merito della questione che vedeva contrapposti il venerabile abbate di Fiore “domino Mattheo” con il suo convento, e il “dominus Petrus filius Petri et Rogerius filius eius”, assieme ad altri, in merito al possesso di alcuni “hominum et terrarum”.

In questa occasione però, l’abbate pose la “exceptionem fori”, adducendo il fatto che lui e i suoi monaci non potevano essere sottoposti a tale giudizio, e mostrando il privilegio ricevuto da Federico II il 19 agosto 1222. Considerato ciò l’eccezione fu accettata.[xxxi]

Tali aspetti generavano particolari contrasti nelle occasioni in cui i villani facevano donazione dei loro beni in favore delle chiese, essendo questi, tanto mobili che immobili, parte integrante del possesso dei loro padroni, mentre i villani non potevano disporre autonomamente, né della propria esistenza né dei beni che possedevano. In ragione di ciò in queste occasioni le chiese ricorrevano a privilegi che consentissero loro di superare il problema.

Nell’agosto 1210 in Messina, Federico II confermava a Matteo, venerabile abbate di Fiore e al suo monastero, le “libertates” che “Stephanus comes Cotroni” “in terra sua concessit”, tra cui quella che consentiva agli “homines” delle sue terre obbligati ai servizi personali, di vendere, donare e legare nei confronti del monastero: “Et ut homines terrae suae, res quae non sunt de feudo vel servitiis obbligatae vendere et donare vobis valeant et legare, et vestras emere, recipere et habere libere omni tempore valeatis.”[xxxii]

Il 28 gennaio 1233, in Anagni, Gregorio IX confermava al monastero Florense tutti i beni, diritti e privilegi, così come erano stati precedentemente riconosciuti da Federico II, nell’ottobre 1220 e nel giugno 1221, tra cui quello che consentiva agli “homines” del comitato di Crotone che non erano “de feudo”, di poter donare, vendere e legare liberamente nei confronti del monastero.[xxxiii]

La situazione risulta evidente anche attraverso un atto del maggio 1226 stipulato “in terra Policastri”, riguardante una causa tra la regia corte e Sant’Angelo de Frigillo, in merito ad un vignale rivendicato dall’abbazia, in ragione di un lascito testamentario fatto da Agessa, nipote di Oddone Scarpa, il feudatario che, al tempo in cui possedeva il feudo in cui ricadeva il vignale conteso, lo aveva dato a “Leoni Calcoso villano demanii”.

In quella occasione Senatore de Monticino, in esecuzione del mandato di Pietro de San Germano, alla presenza del dominus Martino, venerabile abbate di Sant’Angelo de Frigillo, e del dominus Laurentio de Monticino, giustiziere di Valle Crati e Terra Giordana, nonché del dominus Panevino e del dominus Michaele, giudici della terra di Policastro, ascoltate le testimonianze giurate di diversi “homines veteranos” di Mesoraca, assegnò il vignale conteso per metà al demanio imperiale e per metà all’abbazia.[xxxiv]

La ragione di tale sentenza risiedeva nel fatto che, secondo le consuetudini locali, questi appezzamenti erano concessi dal feudatario al colono “ad mediatem” in enfiteusi,[xxxv] e quindi solo la metà della terra, quella rimasta al colono che l’aveva dissodata, poteva essere legata in favore dell’abbazia, mentre l’altra metà continuava a rimanere demaniale.

Riguardò il possedimento di un villano ricadente in questo stesso feudo, anche la causa che, nel periodo 1240/1241, oppose Sant’Angelo de Frigillo al magister Angelo de Viterbo, il quale chiese la restituzione di una vigna e di un vignale “in tenemento Musuracce” (sic) che, secondo lui, l’abbazia deteneva abusivamente, in quanto appartenente al proprio feudo, che rappresentava la quarta parte di quello già detenuto da “Odo Scarpa”.[xxxvi]

Il 24 aprile 1241 “Goffridus de Montefusc(u)lo imperialis iust(iciarius) a porta Roseti usque Farum”, assistito dal “magistro Iohanne de Mileto imperiali iudice Regii”, sentenziò in favore dell’abbazia per quanto riguardava la vigna, e in favore del detto Angelo per quanto riguardava il vignale, determinando l’appello da parte dell’abbazia “ad examen capitan(ei) et magistri iust(iciarii)”.[xxxvii] Attraverso un altro atto prodotto in questa occasione, apprendiamo che il possesso dei beni rivendicati dal detto Angelo, trovava giustificazione nel fatto che questi erano precedentemente appartenuti a “Nicolaus Pissara homo feodi sui”, successivamente morto senza eredi, il quale li aveva ricevuti “a domino Petro Ruffo de Calabr(ia)”.[xxxviii]

Il 18 ottobre di quell’anno giungeva la definitiva sentenza in favore dell’abbazia, pronunciata dagli stessi giudici che avevano già sentenziato nella prima occasione.[xxxix]

Il signore possiede il suo villano secondo le leggi del regno (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Il dono del duca

La donazione di servi con le mogli e i figli, assieme ai loro beni mobili e immobili,[xl] al fine di sostenere l’attività dei monasteri che andava riavviandosi dopo la conquista, è documentata già agli inizi della dominazione normanna, attraverso i primi privilegi concessi a vescovi, abati e feudatari. Come evidenziano due atti riconducibili alla metà del secolo XI, riguardanti la donazione di alcuni “rusticos” al monastero di Santa Maria della Matina, da parte di Roberto il Guiscardo, duca di Calabria, Sicilia e Puglia.

Quest’ultimo, unitamente a sua moglie Sikelgaita, in qualità di fondatori del monastero, donarono alla Matina i “rustic[os qui habitant] in vico qui vocatur Pratum cum omnibus pertinentiis eorum, sicut nos t[enemus, quos car]ta nominat”, assieme ai loro beni ereditari rappresentati da vigne (“et hereditates eorum de Malvito, sicut i[pse dux tenebat]”).

Si concedeva inoltre ai monaci di poter “casale construere et ex omnibus partibus [quibus] potuerint, homines attrahere seu et in predictis casalibus Prato [et Sancte Venere et in] aliis cellis et locis”, vietando a chiunque di arrecare molestia al monastero, alle sue pertinenze e ai suoi beni (“sive terras, vineas et casas, servos et ancillas, villanos et censiles seu alio modo qui in ipso monasterio reddentes vel pertinen[tes sunt aut fuerint]”), nonché di molestare i suoi uomini imponendo loro angarie e altri servizi (“[vel] ipsos homines angariare aut animalia eorum [vel] ipsius monasterii vel ali[quod ser]vi[cium ei]s imponere ne[c herbaticum vel escaticum aut aliquam d]atio[nem] ab eis exigere”).[xli]

A seguito di ciò papa Alessandro II prendeva il monastero sotto la protezione pontificia, concedendogli la libertà da ogni dominio vescovile sia “in vestro monasterio vel in villa sive burgo vestri monasterii”, tanto “super clericos” quanto “super laicos”, concedendo inoltre all’abbate e ai suoi frati la cura delle anime che popolavano il casale.[xlii]

Il possesso del casale di Santa Maria della Matina con tutti i suoi uomini, assieme a quello dei casali di Santa Venere e “de Torbole” con i loro uomini, e “cum omnibus rebus eorum”, nonché “omnes homines quos in casali de Prato habent vel de extraneis locis ibidem ad tutelam [eiusdem monasterii venturi] sunt”, saranno confermati successivamente dal duca Ruggero, figlio del duca Roberto, nel luglio del 1100.[xliii]

Villani impegnati nel dissodamento dei campi e nella costruzione degli edifici di una chiesa (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Catturati e poi donati

Le vicende di questi uomini, donati assieme ai casali, alle case, ai terreni, ecc., traevano origine da quelle delle popolazioni asservite durante i conflitti che, spesso, subivano la deportazione essendo passati ormai alla mercede dei loro padroni. Come sappiamo avvenne nell’anno 1065 quando, durante la spedizione condotta in Calabria dal duca Roberto e da suo fratello Ruggero, che portò quest’ultimo ad espugnare alcuni “castra Calabriae”, il “castrum” di Policastro fu distrutto e tutti i suoi abitanti (“incolas”) rimasti furono condotti dal duca “apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat”.[xliv]

Anche dalla vicina Santa Severina, ci giungono alcune notizie riferibili a quella parte della sua popolazione cittadina che decadde alla condizione servile al tempo della conquista del territorio da parte dei Normanni, quando la città fu assediata e presa da Roberto il Guiscardo e da suo fratello Ruggero nel 1073-74.[xlv]

Nel 1099, infatti, alcuni uomini (ἀνϑρῶπους) di Santa Severina che, assieme ad altri di Tropea e di Rocca Niceforo (oggi Rocca Angitola, fraz. di Maierato), si trovavano a Squillace: “Ioannem Placidum, filios Gaudilae, Ursum de Chrysantho, Ioannem Hypomniscium, Leonem de Sancto Flore, Ursum de Chryso (sic), Leonem Severitanum, Eustathium frater Leonis Macri, filios Mulae”, furono donati da Ruggero, duca di Puglia, Calabria e Sicilia, alla “ecclesia Sanctae Mariae quae in heremo sita est loco qui ab incolis turris dicitur”.[xlvi] Risale invece al maggio 1130, l’atto attraverso cui il re Ruggero confermò il possesso di alcuni uomini (ἀνϑρώπους) di Santa Severina al monastero della “Novae Hodegetriae Patris” di Rossano.[xlvii]

Come si sa succede in occasione di ogni guerra, le sfortune di alcuni determinano sempre le fortune di altri. Attraverso un atto del 31 gennaio 1115, sappiamo che Ruggero di Santa Severina, figlio di Turgis de Rota, tra le altre cose, donò a Thomas, categumeno di Santa Maria della Matina, un feudo che deteneva in San Marco detto di “domino Oddo Crasso” e una cultura “in Sagitta”, con quindici “uomini” (ἄνϑρώπωι) che avrebbero dovuto servire il monastero: Alphairo de Benevento, Andrea figlio di Amelino de Astare, Giovanni figlio di Leon Manuele, Urso suo fratello, Nicola altro suo fratello, Giovanni Chrysikos, Galterio suo figlio, Nicola altro suo figlio, Nicola Gratza, Basile figlio di Kassiatos, Giovanni di San Martino, Kalokyres di Santa Venere, Giovanni de Rosa, Giovanni de Skolares e Giovanni Russo.[xlviii]

Nel gennaio 1122 il principe Boemondo, figlio di Boemondo principe di Antiochia, assieme a sua madre Costanza, dietro la richiesta dell’abbate Videlmo, confermavano al monastero di Santa Maria della Matina tutti i suoi possessi, le immunità e i diritti, tra cui illos villanos quos Roggerius de Sancta Severina eidem monasterio optulit, cum omnibus rebus eorum”.[xlix]

In questa prima metà del secolo XII, altre donazioni di uomini da parte dei magnati del tempo alle principali abbazie presenti o che si stavano insediando nel Crotonese, risaltano in un atto del febbraio 1112 (a. m. 6620), attraverso cui Guglielmo, duca d’Italia, di Calabria e di Sicilia, assieme al senescalco Riccardo, magister di tutta la Calabria, donò a Thomas categumeno del monastero di Santa Maria della Matina, l’ospedale edificato nella città di Crotone da Kottophridas Philbouè, con tutti i suoi domini, le sue terre, le vigne, le case e gli uomini (ἀνϑρώπων),[l] mentre nel giugno 1115 lo stesso senescalco Riccardo, figlio del conte Drogone e nipote di Roberto il Guiscardo, concesse all’abate Raymundo e ai monaci di S. Salvatore di Monte Tabor, di poter edificare una “mansionem vel receptaculum” in diocesi di Umbriatico, nel luogo dove un tempo era esisitito il “castrum Licie”, concedendo tra l’altro: “ex parte nostra licentiam ac potestatem habeatis inibi homines congregandi, qui montem illum inhabitent, et ecclesie S. Salvatoris et monacis eiusdem loci tantummodo debitum servitium exhibeant.”[li]

Attraverso un atto del gennaio 1126, sottoscritto da sua moglie Sibilla e da suo figlio Jordano, invece, il dominus Guglielmo Morino donò a Ruggero, categumeno di Santa Maria di Camigliano, il monastero di S. Basile posto in territorio di Cariati, con i suoi beni e diritti, tra cui quattro “parrochiani” (παροίκους).[lii]

Questo feudatario che, in qualità di teste, sottoscrisse un atto in San Marco Argentano nel maggio 1112 (a.m. 6620),[liii] risulta menzionato nel privilegio concesso nel 1183 dal papa Lucio III all’arcivescovo di Santa Severina Meleto, dove leggiamo: “Ex dono Will(elm)i [mori]ni ho(min)es et villanos quos eccl(esi)a emit a Will(elm)o murno” (sic). Ancora tra i privilegi riportati in questo documento troviamo: “Ex do[no] Adelasiae ducissae ho(min)es S(anc)tae Severinae et Cotroni (…) [duos] villanos Ioh(ann)em Simeritanum et Leonem Geragitanum”.[liv]

Prigioniero in catene (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

La libertà riconquistata

Anche se la guerra rappresentava l’episodio che, molto spesso, conduceva gli sconfitti a divenire dei servi, per altri, invece, che avevano perso la libertà ed erano stati condotti a seguito dei loro padroni nelle campagne militari, un conflitto poteva divenire la buona occasione per recuperarla. Come dimostra il documento seguente.

Il 10 agosto 1165 (a.m. 6673) in Badolato, innanzi a Michaele, camerlingo di Badolato, compariva il “dominus” (ϰυρõς) Landrino, magister degli eremiti “de Nemore”, contro alcuni “lavoratori” (δουλευτὰς) di Badolato di cui rivendicava il possesso, asserendo in maniera veemente, che questi erano “parrocchiani della chiesa” (παρίϰους τῆς εγϰλησίας), che il monastero deteneva e possedeva da ben 47 anni, come testimoniava il relativo atto di donazione fatto da Guglielmo Carbonello.

Recentemente però, i detti “uomini” (ανδρῶν) erano stati reclutati dal conte delle galee di Mileto e così, avendo prestato servizio in qualità di marinai, erano stati emancipati essendo divenuti uomini della flotta. Essendo già stata impugnata la questione da parte dei monaci innanzi ai maggiori giudici di Calabria, unitamente al detto atto di donazione, il detto magister mostrò così al camerlingo la sentenza favorevole al monastero riportata nel giudizio avuto.

Per dirimere la questione e pervenire alla sentenza, il camerlingo passò quindi ad interrogare gli esattori dei tributi della platea di Badolato che, fino al tempo del conte di Catanzaro Goffredo e di sua moglie, avevano esercitato quest’ufficio, con l’intenzione di appurare due fatti fondamentali necessari ad accertare se la condizione di questi uomini fosse servile, ossia: se in passato avessero pagato i tributi e se il loro nome figurasse nella platea del loro padrone.

A tale interrogazione gli esattori risposero che, né ai tempi del conte, né a quelli della contessa, ricordavano che fossero stati esatti i tributi da detti uomini (ἀνϑρωπους) ma che, comunque, avevano visto i loro nomi iscritti nella platea (πλατείαν) del conte Rhao padre di Goffredo. Ciò risultava anche dalla testimonianza dei locali, dai quali fu appreso che il conte e la contessa non avevano mai esatto tributi dagli uomini o lavoratori (άνϑρωποι πἀρα τὸν δουλευτῶν) in questione. I “proceres” (άρχωντες) presenti, inoltre, giurarono sui vangeli che, al tempo del conte Goffredo e della contessa, i lavoratori posseduti dagli eremiti del monastero erano solo Langobardo con due suoi fratelli e il suo consanguineo Ioannes assieme al figlio.

Ascoltato tutto ciò il camerlingo emise la sua sentenza alla presenza di alcuni “probi homines” (χρισήμων ἀνδρῶν), stabilendo nei confronti di detti lavoratori, la piena ragione dell’azione che li aveva istituiti nel loro nuovo stato, e giudicando invece molesta quella dei monaci nei loro confronti.[lv]

Lavori agricoli (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Una risorsa fondamentale

Il possesso di “hominibus” da parte delle grandi abbazie presenti nel Crotonese è ampiamente documentato durante la dominazione sveva, come si riscontra dai privilegi concessi e riconfermati dai papi alla Sambucina (1196),[lvi] a S. Giuliano di Rocca Falluca (1202),[lvii] a Santa Maria de Carrà (1219),[lviii] e dai sovrani a San Giovanni in Fiore (1198, 1216),[lix] e a S. Stefano del Bosco (1224).[lx]

Durante il Medioevo, infatti, l’esigenza di avere a disposizione un numero di vassalli sufficienti per coltivare la propria terra, era particolarmente avvertita dai grandi possessori del capitale fondiario (vescovi, feudatari, abbati), i quali ravvisavano nello spopolamento, causato da eventi bellici e da epidemie, il restringersi del seminato e la conseguente diminuzione delle rendite.

Una esigenza determinante, come testimonia la documentazione di questo periodo dove, in pratica, la donazione di uomini ricorre in ogni concessione di terra, anche di modesta estensione, stante la necessità da parte di chi l’acquisiva, di poter disporre della forza lavoro necessaria per valorizzarla.

Come dimostra a titolo di esempio, un atto del giugno 1198 riguardante una “terram” ceduta all’abbate Gioacchino da Fiore. In quella occasione, “Petrus et Novellus filii Nicolai de Canale habitantes in vico Piriti Cosentie finibus”, assieme al diacono “Rogerio patruele nostro filio Petroni de Canale”, loro tutore, e con il consenso della loro madre Luna, vendettero a “domino Ioachimi Dei gratia venerabili abbati de Flore”, la “terram unam” dove si dice “Canale” appartenuta a loro padre, confinante con i beni “tui ipsius et ecclesie tue de Flore”, cedendo all’abbate anche “Bellum filium Nicolay Rizuti et Riccardum filium Danielis”.[lxi]

La particolare importanza per i frati di possedere uomini che vivessero sulle terre dei monasteri,[lxii] lavorando al loro servizio e facendo fruttare i loro possedimenti, si evidenzia in questa fase storica anche nel caso delle chiese vescovili, come documenta un atto del settembre 1209 riguardante quella di Cerenzìa, in cui si menziona il possedimento di “Nicolaus filius Andreae Sciliani homo ecclesiae nostrae tenet”.[lxiii]

Il possesso di villani da parte delle chiese cattedrali, si evidenzia anche in occasione di una permuta tra l’arcivescovo di Santa Severina Bartolomeo e i cisterciensi di Santa Maria della Sambucina avvenuta nel giugno 1202, nella quale rientrarono in favore dell’arcivescovo quattro “villani” (βελλάνους) della “terra” (χώραν) di Policastro, i cui nomi erano: “Robertum de Iudice, Michaelem de Mile, Iohannem Multefava et filios Andree de iudicis, cum omnibus iusticiis, possess[ioni]bus, servicio et dato eorum perpetualiter.”[lxiv]

Anche quando nel giugno 1219, l’arcivescovo Dionisio concesse all’abbate Aimone di Sant’Angelo de Frigillo, la chiesa di S. Giovanni de Monticello posta nel tenimento di Policastro, lo fece comunque “preter villanos et tenimenta villanorum”, che la chiesa di Santa Severina possedeva in ragione del precedente scambio fatto con la Sambucina.[lxv]

L’importanza della forza lavoro presente sulle terre vescovili e la volontà dei presuli di non privarsene in alcun modo, è evidenziata ancora da un atto dell’ottobre 1233, con cui “Nicolaus Dei gratia humilis Gerentinus episcopus una cum capitulo nostro”, donò, concesse e confermò al “domno Mattheo”, venerabile abbate di Fiore e al suo monastero, “sub annuo censu librae unius incensi in perpetuum”, da pagarsi nella festa del beato Theodoro, il “tenimentum” sito presso il fiume Lepore “in tenimento Gerentiae”, specificando comunque che, per non recare pregiudizio alla chiesa di Cerenzia, “aliquos quasi parrocchianos vobis ad divina suscipere non licebit”.[lxvi]

Con i loro pagamenti gli ecclesiastici contribuiscono alle finanze del regno (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Il prezzo di Ruggero

Quanto fosse importante e quanto valesse il possesso di un villano durante la prima metà del sec. XIII, emerge attraverso un atto del giugno 1225, con cui “Leo et Marsilius quondam filii domini Guill(elm)i de Iudice”, con il “consensu et voluntate viri nobilis domini nostri domini Iacobi Guiscardi”, signore feudale di Santa Severina,[lxvii] affrancarono e vendettero per un’oncia d’oro all’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, in persona dell’abate Martino, “quendam hominem villanum nostrum nomine Rogerium filium Petri de Grimaldo” che, “in tempore sismatis”, si era allontanato da Luzzi, “veniente vero tempore pacis et tranquillitatis que sivimus et invenimus eum in monastero Sancti Angeli de Frigilo”.[lxviii]

Villani reticenti a corrispondere il dovuto (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Prede di maggior valore

Rispetto al valore pur rilevante di un singolo villano, certamente maggiore era quello degli appartenenti ai gradi più elevati della piramide feudale che, loro malgrado, potevano anch’essi perdere la libertà in occasione di un conflitto che li avesse visti finire tra gli sconfitti.

Anche se tramandata da Goffredo Malaterra solo attraverso un episodio letterario che, comunque, ha una precisa collocazione storica, la vicenda di Costa Condomicita che “in famulatu ducis apud Insulam Crotoni detinebatur”, è ambientata alla vigilia della definitiva sconfitta dei Bizantini (1071), in un panorama di forte discredito dell’elemento greco disegnato da questo cronista, mettendo in luce la condizione servile acquisita a seguito del conflitto dal personaggio scelto, evidentemente appartenente alla élite bizantina che aveva combattuto i Normanni.[lxix]

Un esempio di quanto potesse essere fruttuosa la guerra, in quanto occasione di far preda tra le schiere dei signori, ci è fornito in occasione della battaglia di Cortenuova (27-28 novembre 1237), quando le forze dell’imperatore Federico II sconfissero i comuni lombardi facendo grande incetta di prigionieri.

Tra i baroni del regno che figurano in un elenco del dicembre 1239, cui fu affidato questo bottino nell’attesa del pagamento di un riscatto, per quanto riguarda il giustizierato di “vallis Gratis et terre Jordane”, troviamo diversi feudatari del Crotonese: “Parisius de Ypsicro custodiat Agatum Bapponum (o Capponem) Plac.”, “Petrus Biscardus custodiat Fulcum Pelagum de Vicedominis. Roggerius de Policastrello custodiat Johannem Librapanem de Placentia Plac.”, “Anselmus Lombardus custodiat Raynerium Salvaticum. Datus est ei Abbatinus de Melignano suprascriptus.” Tra i baroni del giustizierato di “Calabrie” risultano invece: “Guillelmus de Altavilla custodiat Artusim de Cusano Med. Petrus de Calabria custodiat Jacobum Balbum Med.”, “Alexander de Pissono custodiat Besentratum Benzonem Crem.”[lxx]

Capitava invece molto più raramente che i prigionieri, specie se nobili, venissero giustiziati dopo la cattura. Uno di questi rari casi, giustificato dai fondati timori di re Carlo I d’Angiò di perdere il regno appena conquistato, è documentato dall’episodio riguardante la fine di “Raynaldum de Ipsicro” che, dopo la discesa in Italia di Corradino, essendo stato uno dei capi della rivolta contro gli Angioini, fu catturato in occasione della presa di Gallipoli e giustiziato assieme a diversi altri “proditores” che alla “furca fuisse suspensos”. In questa occasione, come risulta da un atto del 26 marzo 1270, assieme a Rinaldo furono catturate anche sua moglie “Aliburgam”, figlia di “Thomasii Gentilis” di Cosenza, e sua sorella “Sibiliam” che, nella spartizione dello spoglio dei condannati a morte, furono invece date ai sindaci dell’università di Nardò.[lxxi]

L’uccisione dei nemici del re (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Le angarie

Sembra che l’origine delle angarie sia molto remota e risalente già all’epoca antica. In età medievale con questo termine si identificavano alcune imposizioni distinte in “angaria et perangaria Reali ey personali”,[lxxii] riguardanti tanto contribuzioni in denaro commisurate al patrimonio (quelle reali), quanto varie prestazioni di servizi personali.[lxxiii] Tali imposizioni gravavano ordinariamente tutti gli individui di condizione libera definiti “angarii o angararii”,[lxxiv] fondandosi, evidentemente, sui poteri di comando e costrizione riguardanti tutta la popolazione detenuti dai signori feudali.

La volontà di cercare di sfuggire a tali forme di servitù è ricorrentemente espressa nella richiesta di privilegi che esentassero gli “homines” dal fornire questo genere di prestazioni, come troviamo, ad esempio, in un atto del settembre 1222 riguardante il territorio di Mesoraca quando, tra le altre cose, Anselmo de Iustingen, marescalco imperiale e conte di Catanzaro, concesse all’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo la “potestatem construendi casale per tenimento vestrum ubicumque volueritis et homines quos habetis in Musurac(a) ibi congregetis et alios quos poteritis adunetis. statuimus etiam ut homines vestri ab omnibus a[n]g[ar]iis et exactionibus, datis vel collectis tam a nobis quam a nostris successoribus liberi teneatur.”[lxxv]

L’imposizione di questi oneri risultava infatti a volte così gravosa, da determinare la fuga dal feudo della popolazione, come documentano al tempo di re Carlo I d’Angiò, le numerose richieste di diversi feudatari nei confronti della regia corte, affinché le loro terre fossero esentate dal pagamento delle collette, nonché gli interventi del sovrano nei confronti dei giustizieri, per far ritornare gli “angari” e i “perangari” fuggitivi e “tutti coloro che sono obbligati a’ servizi personali.”[lxxvi]

Sono del 1278 un “Mandatum pro Flore de Alys, vidua, contra vassallos suos terre Barbari cum casalibus, angararios recusentes et prestare servitia” e un “Mandatum pro Archiepiscopo Sancte Severine contra vassallos monasterii Sancti Georgii quod est dicti Archiepiscopi, qui sunt angararii.”[lxxvii]

Episodi che riflettono la difficile situazione del periodo, evidenziando un inasprimento del fisco e più in generale, delle imposizioni, come rileviamo anche attraverso i “Capitula Regni”, i quali prevedevano che, in caso di scomunica dovuta al mancato pagamento delle decime dovute per consuetudine ai prelati, passato l’anno dalla sentenza e permanendo il mancato pagamento, dovesse essere pagata alla regia curia una pena pecuniaria commisurata allo status del reo: “si comes fuerit solvat Curie nostre (uncias) auri viginti quatuor, si baro duodecim, si (simplex miles) sex, si burgensis tres, si rusticus unam, et mediam”.[lxxviii]

Il taglio del fieno (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Primi segnali

Le notizie che ci provengono relativamente a questi primi anni della dominazione angioina, evidenziano un panorama ancora caratterizzato dalla presenza di una quota consistente di servi nella popolazione, come documentano gli elenchi riguardanti la tassazione delle terre del regno suddivise per giustizierati (1276), che riportano o comunque, menzionano separatamente, quella riguardante gli “Homines” appartenenti a particolari padroni, da quella che si riferisce ai servi del demanio, che vivevano in luoghi abitati dove la regia corte deteneva la “plateam”.[lxxix]

Come nel caso del casale di Prato, dove la tassazione riguardante questi ultimi, risulta separata rispetto a quella pertinente gli uomini di Santa Maria della Matina che vivevano nello stesso casale: “Pratum homines demanii unc. 23 tar. 10 gr. 4 – Homines Matine ibidem unc. 15 tar. 7 gr. 16”.[lxxx]

Possiamo rilevare inoltre che, se più limitata risulta la presenza di questi gruppi di servi nella “Cedula subventionis in Iustitiaratu Vallis Grati et Terre Iordane”, più consistentemente si rileva nella “Taxatio generalis subventionis in Iustitieratu Calabrie”.

Bisognerà attendere la fine della guerra del Vespro e dopo lo spopolamento dovuto alla peste della metà del Trecento, per trovare i primi segnali di un allentamento della servitù. Quando, per alleviare il decadimento economico conseguente alle guerre e alle epidemie, i feudatari daranno corso a tentativi di ripopolamento, che continueranno anche durante il Quattrocento con l’afflusso di genti provenienti da fuori regione.

È il caso del vescovo di Umbriatico che nel 1306, ottenne dal re Carlo II d’Angiò l’esenzione dalle contribuzioni per il legname delle galee e da altri oneri per tutti coloro che fossero andati a ripopolare i suoi casali di Santa Marina, S. Nicola de Alto e Marathia, distrutti durante la guerra del Vespro,[lxxxi] mentre vani risulteranno i tentativi di risollevare la città di Umbriatico fatti dal feudatario Michele de Cantono di Messina che, nel 1335-36, otterrà l’esenzione dal pagamento delle collette regie per la durata di dieci anni “affinché possa persuadere degli uomini a recarsi ad abitarvi. Resta inteso che i nuovi abitatori non devono essere né angari né parangari delle Terre del R. Demanio né di quelle di conti e di baroni.”[lxxxii]

Risale invece all’aprile 1389 una concessione di Carlo Ruffo, conte di Montalto e signore di Verzino e Casabona, attraverso cui, nel tentativo di consolidare la terra di Verzino e di mettere a frutto le sue terre, il conte esentò dal pagamento del “diritto di casalinatico” tutti gli abitanti che, lasciato il casale di Lutrò, fossero andati ad abitare la terra di Verzino. La concessione sarà confermata dalla figlia Covella Ruffo nel 1427, segno del permanere dello spopolamento.[lxxxiii]

Il signore concede la terra (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Privilegi e capitoli

Anche se la scarsa documentazione trecentesca non ci consente di valutare la presenza della manodopera servile in questo periodo, i pochi accenni noti sembrano risultare in linea con le condizioni generali del tardo Medioevo (XIV-XV secolo), durante il quale la depressione e la stagnazione favorirono l’allentamento dei legami di dipendenza personale degli agricoltori, mentre i loro obblighi furono regolamentati attraverso privilegi concessi dai feudatari e capitoli concessi dai sovrani, e le loro prestazioni furono trasformate in tributi monetari.

Queste comunque, permanevano a gravare la popolazione, come dimostrano i capitoli richiesti da diverse università del Marchesato a re Alfonso d’Aragona, in occasione della campagna condotta dal sovrano nel Crotonese tra la fine del 1444 e gli inizi del 1445,[lxxxiv] quando risulta che tutti i cittadini erano ordinariamente soggetti ad “angaria” e “perangaria” “reale o personale”,[lxxxv] dovendo fornire di volta in volta un “servicio” o “servimento” gratuito ai loro signori, riguardante diverse prestazioni: giornate lavorative con l’ausilio dei loro animali in occasione di lavori di manutenzione, l’approvvigionamento degli ufficiali regi e dei castelli con panni e generi di diverso tipo, la guardia dei castelli, svolgere il servizio di corrieri postali, ecc.

Gli “ho(min)i” della terra di Cropani supplicavano il re affinché, tanto nei confronti degli officiali della detta terra, quando del castellano, non fossero tenuti a fornire nessun “servimento”, né “de robba ne de ligna ne de aqua ne de paglya”, né fossero costretti a nessuna “angaria” senza essere pagati, così come ad ogni altro “servicio reale et personale” nei riguardi della “corte o vero frabica”.[lxxxvi]

Gli uomini dell’università di Melissa, chiedevano di non essere costretti “de nullo tempo” a sopportare alcuna “angaria” “de corte”, né personalmente né con le loro “bestie”, senza pagamento di un competente “salario”,[lxxxvii] come chiese al tempo anche l’università di Roccabernarda che, per ogni “servicio” fatto alla “corte”, supplicò il sovrano che gli “homini” della detta terra fossero pagati come gli altri “Citadini”.[lxxxviii] Questi chiedevano anche di non essere comandati “de nullo tempo” alla “guardia” di nessun “castello”,[lxxxix] e in forza di un privilegio già concesso dal conte Antonio Ruffo, chiedevano, di non essere tenuti a fornire “panni” al loro castello, né di pagare nessuna “porta ne presonia” nel caso vi fossero stati carcerati, secondo il loro antico diritto, né di far cosa alcuna al “capitano” della terra senza ricevere la “paga”, né donargli “Roba” alcuna.[xc]

A tale riguardo anche gli uomini dell’università di Cirò,[xci] e quelli di Policastro, chiedevano di non essere tenuti a “fare posate”, né a donare “panni” agli “officiali” o ad altra persona, e che nessuna “persona” con i suoi animali, potesse essere “comandata” “ad parte nulla”, ne “comandata” alla “guardia” di nessun castello.[xcii]

Anche l’università di Crotone chiedeva che nessun “Citatino” fosse tenuto a “fare posate ne dare panni per posata” ad alcuno, sia al castellano che a qualsiasi altro “officiale” della città, e che nessuno fosse costretto a nessuna “angaria et perangaria Reali ey personali”. Chiedeva ancora che nessun cittadino fosse mandato “cum lictere” come corriere con le proprie “bestie”, ma che nel caso di bisogno da parte della “corte”, fossero mandati quelli che facevano usualmente questo “mestiero” e che fossero pagati.[xciii]

L’università di Taverna chiedeva che nessun “citatino” fosse costretto o comandato a fare “servici alcuno de corte”, né ad andare in nessun posto “con bestia” senza il pagamento di un “competenti salario”.[xciv]

Tra le grazie richieste dall’università di Le Castella, troviamo quella in cui si chiedeva al re che il castellano non potesse disporre “de nullo h(omin)o dela t(er)ra” e che non avesse nessuna potestà sopra di loro. Che il castellano o il capitano, non potesse costringere “li ho(min)i” della terra di Le Castella a donare “panni de lecti” o, in caso di pericolo, a portare legna e paglia. Che nessun “homo” di Le Castelle potesse essere comandato a portare per terra o per mare, “lict(er)e” in nessun posto senza essere pagato, sia in stato di pericolo che di bisogno. I detti “boni ho(min)i delle castelle” chiedevano inoltre di non essere costretti a fare “posata ad nulla persone” e che nessuno potesse essere imprigionato nel castello, nel qual caso però, avrebbe dovuto pagare al massimo solo grana 5 pernottandoci e grana 2 senza averci pernottato.[xcv]

Il signore riceve il pagamento per la coltivazione della terra concessa (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Solo per privilegio

Continuando a rimanere una prestazione ordinariamente dovuta dai cittadini ai loro signori, le richieste da parte delle università del Crotonese ai sovrani, affinché la popolazione fosse esentata dal fornire servizi personali non retribuiti, si evidenzia anche in seguito, essendo sempre necessario confermare i relativi privilegi all’avvento di ogni nuovo regnante.

Tra i capitoli concessi in Napoli da re Ferdinando il 25 febbraio 1466 alla città di Santa Severina, troviamo quello di “concedere a l’huomini della pred.a città, e suoi casali, e distritto non possano esser costretti de ullo tempo a portare legname nullo nè alle marine, ad altri luoghi, nè con pagamenti, nè senza pagam.”,[xcvi] mentre tra i capitoli e grazie richieste dalla università e dagli uomini di Cerenzia al re Ferdinando nel 1491, vi è la richiesta di non pagare i due grana a fuoco per la fabbrica delle mura di Cariati, in quanto “novamente per lo Signore Thesaurero de Calabria, so constricti ad pagare dicte due grana per foco lo mese o vero andare ad servire personalmente in dicta fabrica”.[xcvii]

Troviamo ancora questo tipo di richiesta nelle costituzioni della città e stato di Santa Severina, date in Napoli dal conte Andrea Carrafa il 16 marzo 1525: “Item fanno intendere ad V. S. I. come li tempi passati ipsa Un.tà supplica quella se avesse dignato fare ad ipsi grazia, che nessuno cittadino abitante, et commorante in ipsa Città et Casali sia astricto ad servizio alcuno de persona, ne con bestie, ne meno con robbe senza conveniente pagam.to; et per V. S. I. fu decretato. Placet praefato D.no Comiti. De poi dicta gratia fu interrupta per le fabriche et reparaz.ni del Castello. Al p.nte supplicano V. S. Ill.ma se digne ordinare de novo, che dicta grazia, et preinserta decretaz.ne sia observata ad ipsi supp.ti, che non siano astricti ad servitio reale, o personale senza conveniente pagam. ut supra.”[xcviii]

Ricevettero invece la paga i lavoratori di Crotone ordinati per parrocchia che, durante la costruzione delle fortificazioni e castello della città nel giugno 1542, “per carestia de homini”, furono comandati a eseguire i lavori.[xcix]

Anche i parroci esigevano alcune prestazioni dai loro parrocchiani come, ad esempio, in occasione del rifacimento della copertura delle loro chiese,[c] mentre questi ultimi, tra l’altro, erano obbligati a conferirgli una quota di prodotto dei loro seminativi. Alla metà del Seicento, tra le rendite della parrocchiale di Santa Maria la Magna di Policastro che ascendevano a circa trenta ducati all’anno, figuravano i pagamenti dei “Colonos d.ae Parochiae”, che il parroco esigevano alla ragione di “modium unum Frum.ti pro singulis Jugis Bovum”[ci] mentre, agli inizi del Settecento, attraverso una relazione intitolata “statu Parochialium Ecclesiarum loci Policastri”, apprendiamo che, annualmente, la stessa chiesa soleva esigere “da ogni paro di bovi un tt.o di grano o d’altra sorte di simigna che li medes.i in quell’anno hanno seminato, attualm.e nella parocchia vi sono quindici  para di bovi, e pagano tt.e quindici di grano tt.e 15. Dalli bracciali che seminano sino la somma delle tre tt.e si sole pagare per ogni bracciale mezzo tt.o in q.to presente anno vi sono trenta bracciali dalli quali ne deve esigere tt.e sette e mezzo di grano, ed altri tt.e sette e mezzo di germano si che essendo il grano a carlini sette il tt.o ed il germano a carlini cinque fanno la somma di doc.ti dicenove d. 19.2.10. Decime personali in tutto d. 7.”[cii]

Il signore riceve il pagamento per la coltivazione della terra concessa (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Le consuetudini

Accanto alle testimonianze contenute nei capitoli concessi alle università, notizie successive più dettagliate circa le diverse imposizioni che gravavano le popolazioni del Crotonese, ci sono tramandate nel caso di alcune antiche consuetudini, come troviamo a Crucoli, dove sappiamo che “ciascun vassallo capo di casa dovesse ogni anno far due giornate senza paga, ma ritraendo la sola cibaria, una a mietere, e l’altra a zappare per conto della Marchesal Corte. Che ciascun possessore di buoi d’aratro dovesse per ogni paio di buoi trasportare nel Castello Marchesale una traversa, o sia tronco d’albero grosso quanto potesse esser tirato da un pajo di buoi; o pure ad elezione del Marchese far prestare da ogni pajo di buoi il servizio di una giornata a sementare, o lavorar la terra. Che ciascun padrone di animale da basto dovesse trasportare per conto di detta Marchesal Corte cinque salme di paglia con titoni; overo con sacchi quattro salme 10.”[ciii]

La fornitura di queste prestazioni risultava spesso occasione di liti e controversie, come sappiamo avvenne in occasione di una causa tra l’università di Melissa e il feudatario Gio. Maria Campitelli (1561-1574).

“Item come ditto m.co Barone in nante, che fosse mota lite da detta uni.ta contra esso ditto s.r Barone era ben voluto, et amato da molti cittadini di detta t(er)ra di Melsa, et per l’amore che detti cittadini li portavano ditti cittadini li donavano, et erano soliti darli alcone giornate alle massarie, et altre industrie tanto con loro boi, come con loro persone gratis tanto in lo tempo delo siminare, quanto in lo tempo de lo metere, et recogliere dette masserie et cosi ancora soliano fare detti cittadini alli soi antecessori baroni di detta t(er)ra, et in recompensa detto s.r Barone et suoi antecessori faciano et soliano fare molti piaceri et gratie alli detti soi vassalli.”

“Item com’à tempo delo metere dela massaria sua esso m.co Barone et soi fattori ultra Alcone giornate che l’erano date per amore gratis dali detti suoi vassalli conducia metituri necessarii allo metere di sua massaria giorno per giorno, et quelli paghava quando à quindici grana lo di quando à doi carlini quando à doi e mezo, et più e manco secondo andavano alla giornata, et loro facia le spise di pane carne et altri companaggii mediante ditto salario recoglia et solia recogliere detta massaria; et s’alconi vassalli alcone volte veniano ad aggiotarlo al detto metere ci veniano et soliano venire de loro bona voluntà senza che fossiro altram.te constretti da esso soi officiali ò ministri et quest’è la verità.”

“Item come s’alcona volta, esso m.co Barone anda fora de detta t(er)ra di melsa, et suo territorio besogniandoli compagnia sole pregare, et far pregare alconi soi vassalli et servitori che li vogliano fare compagnia, et quelli ci vanno di buona voglia, et libera voluntà loro fandole andare alcone dele volte a cavallo et alcone volte a piedi con quelli meglio vestiti che possiano havere et amorevolmente et di loro bona volunta è quest’è.”

“Item come s’alcona volta lo detto m.co Barone, et sui officiali , hanno constretto li detti vassalli et cittadini a portar calce alloro spese è stato per ca.so necessaria per fabricare riparare, et munire alconi lochi fiacchi dela detta t(er)ra per dubio deli Turchi corsari, forasciti et altri nemici, et per accomodare le strate dentro ditta t(er)ra: quale per essere posta in loco muntuoso et multo declive, et pendinosa che quasi da continuo ha besognio de reparationi per le lave, che scorreno per dentro detta t(er)ra in tempo dile piogge, et quest’è la verità.”[civ]

La grangia (da Sachspiegel, Universitäts-bibliothek Heidelberg).

 

Nuovi casali

Anche se durante l’epoca moderna l’imposizione di prestazioni da parte dei signori, andò incontrando una sempre maggiore resistenza da parte delle università e dei cittadini del Crotonese, la troviamo ricomparire in occasione della fondazione dei nuovi casali, dove andarono ad abitare i coloni albanesi, greci e schiavoni, chiamati a ripopolare il territorio, quando risalta ancora, come già era avvenuto in passato, che il dissodamento costituiva una delle forme tipiche di asservimento adottata dai signori per ottenere la sottomissione della popolazione.[cv]

A titolo di esempio riportiamo integralmente, il testo dei capitoli stipulati nell’ultimo quarto del Cinquecento al tempo del ripopolamento del casale di Altilia, che descrivono in maniera particolareggiata le prestazioni cui erano tenuti i nuovi vassalli albanesi giunti ad abitare nelle terre dell’antica abbazia di Santa Maria.

“Capitoli concessi per l’Ill.mo e Rev.mo S.r Tiberio baracco perpetuo commend.rio dell’Abbad.a di S.ta Maria d’Altilia alli Vassalli che sono venuti, e veneranno ad habitare nel Territ.rio e Casale di d.a Abbadia. In pr.s detti Vassalli offereno a d.o S.r Abbate Commend.rio di d.a Abbadia anno quolibet per ciascheduno d’essi una giornata a fatigare con loro persone ad elettione di d.o Sig.re o di suo leg.mo Procu.re circa il tempo, e quelli che haveranno bovi promettono una giornata d’un paricchio di bovi per uno anno quolibet a seminare o ad altro servitio che loro saranno richiesti. Placet dummodo unusquique serviat eo modo quo poterit unus tantum die vel cum hominis, vel cum aliis animalibus quo habuerit. Item promettono per ciascheduno Casalino de loro habitationi carlini due et una gallina anno quolibet. Placet. Item la decima di tutte le bestiami cioè pecore, capre e porci di loro allevi per ciascheduno anno. Placet. Item per ciascheduna Vacca anno quolibet ogni Vitella o Vitello che nasceranno uno carlino. Placet. Item promettono anno quolibet portare, et chiudere al bisogno tanto di paglia come di legna per la casa di d.o S.re Abbate o vero Proc.re in d.a Abbad.a. Placet. Item promettono tutti li deritti e raggioni di vassallaggi. Placet. Item supplicano si degni farli immunità et capitolo che volendo fabricare case, o piantare vigni in d.o Territ.rio che quelle possano vendere, alienare et permutare a loro arbitrio a chi loro piacerà. Placet habita prius licentia. Item promettono edificare loro Cappella, e tenere il loro Cappellano a loro spese. Placet. Item promettono per ciascheduno miglaro de vigna che faranno a d.o Terri.rio cioè in la cersa grana quindici per tumolata, et a bascio un tari per tumulata. Placet dummodo in designatione vinearum faciendarum interveniat Procurator noster. Item promettono che edificando d.o S.r Abbate molino in suo potere pervenendoli a d.o Territ.rio convicino, essi p(redi)tti habitanti siano tenuti andare a macinare in d.e molina e pagare la giusta raggione, et a tempo che si guasta l’acquaro siano tenuti donarci una giornata per ciascheduno, e cossi un’altra giornata al portare delle mole quando accaderà gratis. Placet. Item supplicano che loro se conceda da detto S.r Abbate che possano con loro bestiame andare a pascolare alla metà del bosco che oggi possede d.o Sig.re d’ogni tempo gratis. Placet dummodo non escludantur Animalia nostra, et domus nostra. Item supplicano che d.o S.r Abbate loro voglia donare una parte di Terreni che siano bastanti per il paricchio in d.o Casale, qual possano seminare, et cultivare, et delli frutti perveniendi offereno di pagare di qualsivoglia sorte di vettovaglia che li pervenerà di detti terreni che loro saranno concessi la decima debita. Placet. Item se contentano, et promettono essi habitanti di non estraere le vettovaglie da d.o Territ.rio se prima non richiedono a d.o Sig.re o suo Proc.re e pagare la raggione della decima. Placet. Item supplicano che si degni concedere per qualsivoglia causa che appartenerà a d. S.r Abbate o sua Corte, non voglia far procedere at officio, ma a richiesta de parte. Placet quantum in Nobis extat. Item supplicano si degni concederli che possano in d.a parte di bosco fare il bisogno de stigli de Massaria, che ci possano far frasche per loro bovi ultra le quercie, et ogliastri, e trovandone alcuno tagliar quercie, o altri alberi fruttiferi in d.o bosco, non si possa alterare la pena più d’uno ducato pro quolibet vice. Placet. Item che per l’attizate che si farà in d.a Corte non siano tenuti pagare più di diece grana per atto. Placet. Item che l’officiale seu Capitano locotenenti, et m.o d’atti siano tenuti dare plegeria di stare a sindicato. Placet. Item la supplicano che si degni non ricevere in d(ic)ta habit.ne persone ingati, o altri et loro prometteno se alcuno ce ne accaderà, rivelarlo all’officiali di sua Sig.ria. Placet. Item che loro bovi, o altri bestiami essendo trovati querelati alle poss.ni et lavori in d(ic)to Territorio non possano essere astretti ad altro solo che al danno alla parte et un tarì alla Corte di pena per ciasched’una persona pro quolibet vice. Placet. Item la supplicano si degni favorirli che non siano aggravati per l’officiali delle T(er)re convicine et esser conosciuti dall’officiali di V. S. I. Placet quod pro vicibus procurabimus. Item la supplicano si degni favorirli, che li monaci di d.o Monasterio loro voglia vaditare l’olive di d(ic)ta abatia in perpetuo per esse propinque dell’habitatione che loro offereno pagare il medesimo censo che alli monaci l’ha scomputato il S.r abbate passato procurabimus. Item la supplicano che venendoli detta habit.ne in complim.to li voglia reformare li p(redi)tti Capitoli in meglio forma. iam reformavimus.

Io Tiberio Barracco Abbate di S.ta M.a di Altilia mi contento, et accetto ut. s.a.

Antonio intornicchia, Matteo papaianne, Morchia bansti, Antonio naso, Pietro menza, Antonio schureri, Federico severi, Andrea basta, Dima iustegneri, Marco Ant.o russo, Jo: maria lafredi, Luca butero, Stefano de richetta, Minico stupparo, Pietro cordapoli, Ger.mo pisano, M.o Aurelio andirano.”[cvi]

Lungi dal poter tramontare, le prestazioni di servizi personali continueranno a caratterizzare la vita delle genti del Crotonese, giungendo quasi ai nostri giorni.

In una relazione del 1686 redatta dall’avvocato Giuseppe Domenico Andreoni, visitatore di Policastro per parte della corte medicea, questi faceva notare che, seppure era stata tollerata “a titolo di mera grazia” una situazione illegale, essendo i “vassalli” di Policastro “angarari” e “perangarari”, essi erano tenuti alle prestazioni e alle limitazioni relative al loro status, “di modo che solamente il feudatario può tenere mulini, forni, frantoi e li può vietare agli altri.”[cvii]

Residui delle antiche prestazioni dovute ai signori rimanevano ancora in vigore nei contratti di fine Settecento,[cviii] mentre fino all’eversione della feudalità, le concessioni della regia corte continueranno a riportare la dicitura “cum angariis, perangariis, …”.[cix]

 

Note

[i] GNOSEΩGRAFIA, Storica Critica Cronologica della Regia Metropolitana Chiesa di Santa Severina, AASS, 84A, f. 34.

[ii] Capasso B., Sul Catalogo dei Feudi e dei Feudatarii delle Provincie Napoletane sotto la Dominazione Normanna, in Atti dell’Accademia di Archeologia, Letteratura e Belle Arti, s. I, IV, 1868, pp. 293-371.

[iii] Una “Forma de assicuratione vassallorum” risalente agli inizi del dominio angioino, evidenzia che la concessione feudale poteva avvenire solo dopo che, secondo le consuetudini del regno, il feudatario avesse ottenuto il debito giuramento di fedeltà “ab hominibus eiusdem terre”, in maniera tale che non derivasse nessun pregiudizio ai diritti della regia corte. Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 207. Di queste richieste della regia corte in relazione a tali assicurazioni, abbiamo diversi esempi riguardanti il Crotonese relativi alla prima metà del sec. XIII. Winkelman E., Acta Imperii Inedita Seculi XIII, Innsbruck 1880, p. 629 n. 810, p. 680 n. 895, p. 684 n. 905.

[iv] Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 252.

[v] Secondo quanto riporta una “Forma de summonendis baronibus ad serviendum (Regem in guerra)” degli inizi del Trecento, i prelati, gli ecclesiastici, le vedove ed i figli in minore età che non erano tenuti a servire personalmente, dovevano corrispondere interamente il servizio feudale dovuto annualmente alla Curia pagandolo in denaro: “Prelatis autem ecclesiarum ac viduas et pupillis quorum servitium non est aliis de mandato nostro assignari provisum sub eadem pena similem summonitionem facias et citationem quod se parent interea feudale servitium per eos pro ipso presenti anno Curie nostre debitum quod eos in pecunia prestare providimus in predicto termino integraliter in nostra Camera soluturos.” Reg. Ang. XXXI, p. 28.

[vi] Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, pp. 583, 595.

[vii] Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, pp. 580, 594, 595.

[viii] “L’idea di una società medievale articolata in ceti risale in massima parte alle opinioni dei coevi teorici dell’ordine cetuale. Ecci concepirono il loro sistema sociale come appunto caratterizzato dalla presenza di tre ceti (ordines): quello ecclesiastico, quello dei cavalieri e quello contadino. Così attorno al 1030 il vescovo Gerardo di Cambrai avrebbe sostenuto che fin dalle origini il genere umano era diviso in sacerdoti, contadini e guerrieri (Genus humanum ab initio divisum esse monstravit, in oratoribus, agricultoribus, pugnatoribus). Quasi negli stessi anni anche Adalberto di Laon distingueva sacerdoti (oratores), guerrieri (pugnatores) e contadini (laboratores); i tre ordini sarebbero stati reciprocamente legati in modo da assicurare un’armonica convivenza degli uomini e da garantire allo stesso tempo l’ordine sociale voluto da Dio.” Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 14.

[ix] “La forma più tipica della signoria fondiaria, la sua versione più «classica», è quella che si ritrova nel sistema curtense. In essa a centro si colloca la villa o curtis dominica del signore; le terre di sua pertinenza, definite terra salica, venivano coltivate con l’aiuto di lavoranti non liberi e di contadini asserviti. Il manso definiva le dimensioni minime di un podere contadino facente parte della signoria, con la terra ed il relativo diritto d’uso. Il suo detentore era tenuto a prestare determinati servizi e tributi. All’interno della signoria si collocava sia la terra salica signorile che il terreno pertinente al manso contadino.” Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 21.

[x] Pratesi A., Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 67-69.

[xi] Pratesi A., Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 220-221.

[xii] Pratesi A., Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 230-233.

[xiii] Huillard-Bréholles J. L. A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1852, Tomo III pp. 257-259; Fiore G., Della Calabria Illustrata I, p. 277.

[xiv] Constitutiones Regum Regni Utriusque Siciliae, Napoli 1786, Lib. II, tit. 32, p. 143.

[xv] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum 1865, CLXVII pp. 219-221.

[xvi] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum 1865, p. 139.

[xvii] Capasso B., Sul Catalogo dei Feudi e dei Feudatarii delle Provincie Napoletane sotto la Dominazione Normanna, in Atti dell’Accademia di Archeologia, Letteratura e Belle Arti, s. I, IV, 1868, p. 339 n. 2.

[xviii] Capasso B., Sul Catalogo dei Feudi e dei Feudatarii delle Provincie Napoletane sotto la Dominazione Normanna, in Atti dell’Accademia di Archeologia, Letteratura e Belle Arti, s. I, IV, 1868, p. 339 n. 2. “Gradualmente, dalla grande massa dei contadini non liberi iniziò a distinguersi uno strato superiore di censuales, i quali erano cioè tenuti a prestare al loro signore solo il versamento di un censo annuo. Per lo strato inferiore dei mancipia, che non erano liberi nella loro persona e che dovevano servire il loro signore con un duro servizio quotidiano …”. Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 236.

[xix] Jamison E., Note e documenti per la storia dei conti normanni di Catanzaro, in ASCL a. I, 4, Roma 1931, p. 455, nota 4, che cita: “C. A. Garufi, Censimento e catasto nella popolazione servile in «Archivio storico Siciliano», N. S., vol. XLIX, 1928, pag. 1. Cfr. G. Robinson, History and Cartulary of the Greek Monastery of SS. Elias and S. Anastasius of Carbone (Orientalia Christiana, vol. XI, N. 44), Roma, 1928-1930, t. II (II), N. XXX-79, LXVII-107, LXVIII-110.

[xx] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum 1865, CLXVII, pp. 219-221.

[xxi] Nel Catalogo dei Baroni sono menzionati villani “qui non reddunt, nisi servitia, et salutes” (Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, p. 612.) mentre, allo scopo evidente di giustificare una contribuzione non in linea con la potenziale rendita dei propri villani, si menziona la loro condizione di povertà: “… villanos XLVI pauperes …” (Ibidem, p. 587).

[xxii] Capasso B., Sul Catalogo dei Feudi e dei Feudatarii delle Provincie Napoletane sotto la Dominazione Normanna, in Atti dell’Accademia di Archeologia, Letteratura e Belle Arti, s. I, IV, 1868, p. 339 n. 2. “… dal punto di vista giuridico la distinzione principale all’interno della popolazione rurale dipendente dalla signoria era quello tra il gruppo dei censuari (tributarii) …, e quello inferiore e più numeroso dei servi …”. Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 237.

[xxiii] Ughelli F., Italia Sacra VII, p. 1071.

[xxiv] “… in Barolo villanos II et affidatos VI …”. Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, p. 572.

[xxv] Il neologismo ῥικουμανδέμενος derivato dal latino “recommendatus”, si ritrova in un atto di donazione all’abbazia di Santa Maria della Matina (1100-1115). Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 126-130.

[xxvi] Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, p. 582.

[xxvii] Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, p. 587.

[xxviii] “… habet recomendatos III qui reddunt salutes, et servitia …”, “… habet recomendatos homines, qui reddunt servitia, et salutes …”. Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti, vol. I, 1845, p. 615.

[xxix] Pesavento A., La chiesa di Santa Maria dell’Isola. Da cattedrale ad arcipretale, www.archiviostoricocrotone.it

[xxx] “In primis locum ipsum in quo prefatus episcopatus situs est cum hominibus, domibus (…) herbagium, glandagium, foresteragium, cursus aquarum cum hominibus, domibus, pratis, nemoribus, cerquis, olivetis, virgultis, arboribus domitis, et indomitis (…) et hominum serventium tibi (…) pro usu vero hominum recomandatorum seu tui episcopatus vaxallorum, agricolarum seu colonum operariorum jumentariorum, atque domesticorum (…) confirmamus ecclesiam Santi Petri dell’Isola preditta et Terras Tripani, cum hominibus, domibus, terris, pascuis, nemoribus, ortis, molendinis, aquarorum cursibus, olivetis, battinderiis, virgultis et pertinentiis suis (…) Concedimus etiam, et ex certa nostra scientia donamus tibi, prenominato episcopo, et successoribus tuis, tam in terris propriis ipsius predicti episcopatus, quam in terris aliarorum ecclesiarorum suffraganiarum eiusdem, et spetialiter in loco Sancti Petri, liceat tibi, memorato episcopo, et successoribus tuis, homines francos et liberos receptare, hospitare et conservare, et alia in ipsis terris eosque receptos, libere et pacifice possideatis, absque alicuius molestia, vel contrarietate, et de eis non teneamini alicui civili super aliquibus, responsione dare (…) confirmamus tibi preditto episcopo, et successoribus tuis, ut tam domestici homines omnes, quam alii eiusdem preditti episcopatus, et aliarorum ecclesiarorum ipsius, de aliqua offensa in seculari foro conquerentibus, non respondere cogantur, sed in foro tui episcopatus illis iustitiam ministrandi respondere cogantur.” AVC, Processo Grosso di fogli cinquecento settanta due della lite che Mons.r Ill.mo Caracciolo ha fatto con il S.r Duca di Nocera per il detto Vescovato nell’anno 1564, ff. 412v-426.

[xxxi] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 113-114. “Sentenza dello stesso giudice nella causa tra i monaci Florensi e Pietro figlio di Pietro etc. del mese di giugno 1225.” “Tre anni dopo i monaci ebbero ottenuto il privilegio dell’esenzione dal foro civile, fuvi occasione di farne uso. Erano stati eglino chiamati innanzi a Pietro di San Germano, giudice della Corte imperiale, il quale si trovava in Cosenza “pro imperialibus servigis exequendis, et iustitia conservanda”, da Pietro figlio di Pietro e da Ruggero di lui figlio e da certi altri sul dominio di alcune terre e di alcuni uomini (coloni ascrittizi forse, come io suppongo).” De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, p. XIII e nota n. 25.

[xxxii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 44-45.

[xxxiii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 123-130. Anche dopo l’erezione del casale di San Giovanni in Fiore (1530), i beni dei suoi coloni saranno esenti da ogni giurisdizione e solo soggetti “immediate” alla Santa Sede. “Monitorium A.C. exemptionis nostrae nostrorum bonorum colonorum a cuiusvis iurisdictione et subieectionis immediate Sanctae Sedi vigore privilegiorum apostolicorum, signanter Innocentii papae VIII, anno 1540.” De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, p. XXXVII-XXXVIII.

[xxxiv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 346-348.

[xxxv] Rende P., La vigna e la vite nella Valle del Tacina. Alcune caratteristiche e particolarità, www.archiviostoricocrotone.it

[xxxvi] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, p. 403.

[xxxvii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 404-406.

[xxxviii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 406-407.

[xxxix] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 407-409.

[xl] 15 settembre 1094. Il conte Ruggero dona a Brunone e agli altri suoi eremiti, dieci uomini (ανϑρωπους) di Stilo elencandone i nomi. “Hos homines confirmo sanctae ecclesiae et fratribus cum omnibus rebus ad ipsos nunc pertinentibus, mobilibus et immobilibus, et sicuti nunc extant, cum mulieribus et filiis ipsorum, eo quidem pacto, ne quis unquam vobis molestiam, damnum vexationemque inferat, et (si hoc fecerit) non parum indignationis a me feret.” Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum, 1865, LIX, pp. 76-77.

[xli] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 3-12.

[xlii] Per questo documento anch’esso falso, si ipotizza la data del 30 settembre 1067. “… adesse liberum ab omni episcopali dominatione vel iudicio ut nullus archiepiscopus vel episcopus habeat aliquam deliberationem vel aliquam potestatem in vestro monasterio vel in villa sive burgo vestri monasterii neque super clericos neque super laicos; scilicet ea libertate donamus vobis burgum sive villam vestri monasterii ut tu ac congregationis tue fratres populum huius ville, clericos sive laicos, vice nostra regere et eorum errata corrigere procuretis ibique sacerdotes catholicos atque idoneos constituatis qui eorum animabus invigilent …”. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 13-16.

[xliii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 18-21.

[xliv] “Anno vero Dominicae incarnationis MLXV Policastri castrum destruens, incolas omnes apud Nicotrum, quod ipso anno fundaverat, adducens, ibi hospitari fecit.” Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L.A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V, p. 47.

[xlv] Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V, parte I, pp. 59-60.

[xlvi] Trinchera F., Syllabus Graecarum membranarum 1865, pp. 85-86 n. LXVIII.

[xlvii] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum, 1865, CVI, pp. 138-141. Martire D. Calabria Sacra e Profana Vol. I, Cosenza 1876, pp. 212-214.

[xlviii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 149-153.

[xlix] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 30-33.

[l] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 141-144.

[li] Delaville Le Roulx J., Cartulaire Général de l’Ordre des Hospitaliers de S. Jean de Jérusalem (1110-1310), Parigi 1897, tome second (1201-1260), pp. 900-901.

[lii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 24-27.

[liii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 145-148.

[liv] AASS, Pergamena 001.

[lv] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum 1865, CLXVII pp. 219-221.

[lvi] 1196. A seguito della richiesta di Luca, abbate di Santa Maria della Sambucina e del suo convento, imitando i suoi predecessori Eugenio III, Alessandro III e Clemente III, papa Celestino III prende il monastero sotto la sua protezione, confermandone i possessi, tra cui: la “ecclesiam Sancti Angeli de Frigili et Sancti Spiritus et Sancte Marie de Archelao cum terris, vineis, hominibus et molendinis et forestis et ceteris pertinentiis suis”, e la “cappellam Sancti Demetrii cum casali et hominibus, terris et vineis, casalinis, hortalibus et omnibus pertinentiis suis”. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 116-122.

[lvii] Nel 1202 papa Innocenzo III conferma i privilegi all’abbate Petro ed ai monaci di San Giuliano di Rocca Falluca, tra cui la “… ecclesiam Sancti Clerici cum hominibus, possessionibus et pertinentiis suis, quae consistit in territorio Roccae Bernardi.” BAV, Cod. Vat. Lat. 7572, f. 3v.

[lviii] Nel 1219 il papa Onorio III conferma i beni a Nifo abbate di Santa Maria de Carrà, tra i quali il “tenimentum de Insulis, cum hominibus, domibus, vineis …”. Parisi A. F., I monasteri basiliani del Carrà, Historica, 1953-1955, p. 101.

[lix] Nel gennaio 1198 in Messina, Costanza d’Altavilla, imperatrice dei romani e regina di Sicilia, “ad petitionem tuam, venerabilis abbas Ioachim”, conferma al “dicto monasterio tuo de Flore”, ciò che gli era stato precedentemente concesso e donato dall’imperatore Henrico re di Sicilia. Assieme al “monasterium sepedictum de Flore”, la sovrana prendeva sotto la protezione regia anche i “monasteria, quae de novo fundasti in loco, qui olim dictus est Calosuber, nunc autem Bonum Lignum, et in loco qui dicitur Tassitanum”, il “monasterium Abbatis Marci”, e anche quelli che sarebbero stati edificati in futuro, con le loro possessioni, beni , frati, “homines” e “loca”. De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 11-13.

Nel giugno 1216 la regina Costanza de Aragona e il figlio Enrico VII, donano all’abbate florense Matteo e ai suoi monaci, metà del feudo che aveva posseduto il miles Rogerio Sarraceno in Cerenzia e Caccuri, “cum hominibus, domibus, terris, vineis et omni iure ac tenimentis et pertinenciis suis”. De Leo P. (a cura di), Documenti florensi, 2001, pp. 63-64.

[lx] “Ecclesiam S. Nicolai de Chipulla in Territorio Cutroni, cum hominibus, et omnibus tenimentis, et pertinentiis earumdem”. Tromby B., Storia Critico Cronologica Diplomatica del Patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano, Napoli 1775, Tomo V, Appendice I, LXXVIII.

“Ecclesiam Sancti Nicolai de Chipulla in Territorio Cutroni, cum hominibus, et omnibus tenimentis, et pertinentiis suis”. Tromby B., Storia Critico Cronologica Diplomatica del Patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano, Napoli 1775, Tomo V, Appendice I, XCIX.

Marzo 1224, Brindisi. Federico II conferma a Petro abbate del monasterio della “Virginis Mariae Heremitarum et Sancti Stephani de Nemore” i privilegi, i diritti e le possessioni, tra cui la “ecclesiam Sancti Nicolai de Chipulla in territorio Cutroni”, ovvero la “ecclesiam Sancti Nicolai de Chipulla in territorio Cutroni cum hominibus et omnibus tenimentis et pertinentiis earumdem, libere ipsas ecclesias, homines et villanos spectantes ad dicta loca ab omni exactione lignaminum sine temporali servitio possidendas.” Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1852, Tomo II pars II, pp. 943-950.

Marzo 1224, Brindisi. L’imperatore Federico II prende sotto la sua protezione il monastero della “Gloriosae Virginis Mariae Heremitarum S. Stephani de Nemore”, confermando i suoi privilegi, tra cui la “Ecclesiam S. Nicolai de Cipulla in territorio Cutroni cum homnibus et omnibus pertinentiis et tenimentis earum, libere ipsas Ecclesias, homines et villanos spectantes ad praefata loca ab omni exatione lignaminum sine temporali servitio possidendas”. Martire D. Calabria Sacra e Profana Vol. I, Cosenza 1876, pp. 367-372.

[lxi] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 14-15.

[lxii] “fratribus et hominibus m[onaster]ii tui”. De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 29-31.

[lxiii] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 32-34.

[lxiv] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 101-106. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 168-171. Segue a questo un altro documento copia del precedente considerato dal Pratesi originale latino (Ibidem, pp. 172-175).

[lxv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 283-284.

[lxvi] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi, 2001, pp. 131-134.

[lxvii] Winkelman E., Acta Imperii Inedita Seculi XIII, Innsbruck 1880, pp. 629 n. 810.

[lxviii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 342-345.

[lxix] Goffredo Malaterra, De Rebus Gestis Rogerii Comitis, in Muratori L. A., Rerum Italicarum Scriptores, Zanichelli N. Bologna s.d., tomo V parte I, p. 52.

[lxx] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1857, Tomo V pars I, pp. 622-623.

[lxxi] Reg. Ang. VII, 1269-1272, pp. 257-264.

[lxxii] “Item dapo sera renduto lo Castello de Cutroni nullo Citatino sia tenuto fare posate ne dare panni per posata ad gente alcuna ne ad castellano ne ad officiale § Placet Regie Maie.ti. Item che non siano constrecti ad nulla angaria et perangaria Reali ey personali ne mandati cum licteri ne loro bestie et quando bisognasse per la curte non siano mandati altri che quilli so solito fare quillo mestiero et siano pagati § placet Regie maie.ti.” Capitoli concessi alla città di “Cutroni” dati “in castris n(ost)ris felicibus prope Civitatem n(ost)ram Cutroni” l’otto dicembre 1444 VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2904, ff. 214v.

[lxxiii] Il suo antico carattere d’imposizione servile continuava ad essre riconosciuto anche in epoca più recente. “E per ultimo il Paciucchelli nella sua opera intitolata del Regno di Napoli in prospettiva (part. 2 fol. 105), ragionando del Priore della Certosa afferma così: Questi assume la dignità, e il titolo di Ordinario, e supremo per lo spirituale, e temporale nelle Terre della Serra (ove a perfezione si lavora di roba minuta, ed al torno) Spatola, Bivongi, Montauro, Gasparina, è util padrone delle Terre di Montepavone, e Rocca di Neto, nelle quali obbligò i Vassalli il citato Conte Rogiero ad una certa schiavitudine verso il Santo, col nome di Angari, e perangarj, e con molti regali, ed ampi privilegi appresso, e specialmente di Carlo V. Imperadore, di nuovi approvati dal moderno Re Cattolico ec. Che da sì fatta genia gli oggi Abitanti della Serra discendano, non vi bisognano prove.” Tromby B., Storia Critico Cronologica Diplomatica del Patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano, Napoli 1775, Tomo V, Appendice II, Dissertazione Del P. D. Benedetto Tromby, Adobe Reader pp. 610-611.

“Il priore s’intitola ordinario nello spirituale e temporale delle Terre di Serra, Spatola, Bivongi, Montauro e Gasperina; egli ha l’util dominio delle Terre di Monte Pavone e Rocca di Netto, dove i vassalli furono dal conte Ruggiero datti per schiavi al santo Patriarca.” De Leo P., Certosini e Cisterciensi nel Regno di Sicilia, Ed. Rubbettino 1993, p. 217.

[lxxiv] Capasso B., Sul Catalogo dei Feudi e dei Feudatarii delle Provincie Napoletane sotto la Dominazione Normanna, in Atti dell’Accademia di Archeologia, Letteratura e Belle Arti, s. I, IV, 1868, p. 339 n. 2.

[lxxv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 309-312.

[lxxvi] Minieri Riccio C., Alcuni fatti riguardanti Carlo I di Angiò tratti dall’Archivio Angioino di Napoli, 1874, pp. 93, 94, 97, 99, 100, 108, 142.

[lxxvii] Reg. Ang. XX, 1277-1279, p. 247.

[lxxviii] Reg. Ang. XXXI, p. 13.

[lxxix] Attraverso una inquisizione fatta in Bisignano (1277 ca.) sappiamo che, nel casale di “Sillictani” appartenente alla “regie baiulationi Bisiniani”, dove si trovavano “de veris hominibus regie curie demanii terre Bisiniani”, quest’ultima deteneva: “bancum iusticie, iura macelli, plateam et alia iura”. Sthamer E., Bruchstücke Mittelalterlicher Enqueten Aus Unteritalien, in Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil-Hist. Klasse NR. 2, Berlin 1933, p. 59.

[lxxx] Minieri Riccio C., Notizie Storiche tratte da 62 Registri Angioini, Napoli 1877, pp. 213.

[lxxxi] Ughelli, Italia Sacra, IX, 527.

[lxxxii] Maone P., Precisazione sulla storia feudale di Umbriatico e Briatico, in Historica n. 1/1968, pp. 30- 31, che cita: De Lellis C., Notam. Cit. Pars I, f. 1380, anno 1335-36.

[lxxxiii] “… affinchè la nostra terra di Verzino goda dell’accrescimento di nuovi abitanti”, “… rimettiamo in perpetuo il diritto di casalinatico, che ci compete a ragione di un tareno l’anno per ciascun fuoco, a Matteo de Guidone, Nicola Cundaro, Tonio di Zuragna, Nicola Tripedio, Federico di Teodoro e a tutti i singoli abitanti di Lucrò, che dai tempi passati vennero ed a quelli ai quali accade di venire da poco dal detto casale per abitare la detta nostra terra di Verzino ed a tutti i loro eredi e successori …”. Giuranna G., Storia di Umbriatico: Dal Medioevo alla conquista spagnuola, in Studi meridionali, fasc. I, 1971, pp. 22- 26.

[lxxxiv] “In primis pete la dicta universita loro concedati quod de gracia per poteressi reparare et dare modo de potere sustentare loro vita che siano franchi per anni deci de omne pagamento tanto de colte quanto de focularii dum taxat et omne altre angarie ancora de pagamenti de Censuali imperpetuum et che dapo passati li dicti Anni dece de pagare excepto unce due per Anno perche simo poveri et male patutu § placet Regie Maiestati”. “Confirmacio” data “in castrum n(ost)ris felicibus prope flumine neto” il 12 novembre 1444, VIII indizione, dei “capitulorum Terre Melisse” dati “in nostris felicibus castris prope ypcigro” il precedente 8 novembre, ACA, Cancillería, Reg. 2904, f. 187v.

“Item considerato che la dicta t(er)ra de Cropani habitano piu de foculeri trecento et have pochissimu terrenu reverenter omni debita reverencia regali ut decet supplicano ala maiesta v. graciose et pie concedere loro poczano con loro bestiami et massarie usare et pietenczare lu terrenu de bellicastro et de taberna franchi non pagando fida ne disfida yuvatichy erbagy glandagy ne dohane ne nulla altra angaria inperpetuum. Placet Regie maiestati concedere dictam franchiciam quatenus sue c(ur)ie interesse concernat.” Capitoli della “Terre Cropani” dati “in Castris n(ostr)is felicibus prope Civitatem bellicastri” il 21 novembre 1444, VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2903, ff. 175r.

[lxxxv] “Et che nullo h(omin)o fosse comandato ad Angaria alcuna reale o personale.” “Confirmatio Capitulorum Terre Mesurache” data “in n(ost)ris felicibus castris apud Civitatem sancte severine” il 20 novembre 1444. ACA, Cancillería, Reg. 2904, f. 189v.

[lxxxvi] “Item li ho(min)i de la dicta t(er)ra reverenter omni debita reverencia ut decet supplicano alla mai.ta v(ost)ra ve dignati gr(aci)ose et pie concedere loro per nullo t(em)po allu officiale fosse dela dicta t(er)ra et castellano non siano tenuti de servimento nullo ne de robba ne de ligna ne de aqua ne de paglya ne de nulla altra angaria senza pagare et similiter ad omne altro servicio reale et personale fosse de corte o vero frabica non ce sia constrecta persone niuna senza pagamento. placet Regie mai.ti.” Capitoli della “Terre Cropani” dati “in Castris n(ostr)is felicibus prope Civitatem bellicastri” il 21 novembre 1444, VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2903, ff. 175r.

[lxxxvii] “Item pete la dicta universitate che non siano constrecti ad angaria nulla de corte senza debito salario et competente § placet Regie Maiestati.” “Item pete la dicta universita che ve siano recomandati li p(res)enti de questa Terra che non siano tenute ad angaria nulla de nullo tempo ne ipsi ne bestie loro. § placet Regie”. “Confirmacio” data “in castrum n(ost)ris felicibus prope flumine neto” il 12 novembre 1444, VIII indizione, dei “capitulorum Terre Melisse” dati “in nostris felicibus castris prope ypcigro” il precedente 8 novembre, ACA, Cancillería, Reg. 2904, f. 188r.

[lxxxviii] “Item pete la dicta universitate che omne servicio che facessero ala corte li homini de questa terra che siano pagati como pagano li altri Citadini placet Regie magestati.” Capitoli concessi alla università di “Rocce bernarde” dati “in castris n(ost)ris felicibus prope predictam [terram] roccam bernardam” il 17 novembre 1444 VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2903, ff. 182r.

[lxxxix] “Item pete la dicta universitate che de nullo tempo siano comandate a guardia de castello nullo placet Regie magestati.” Capitoli concessi alla università di “Rocce bernarde” dati “in castris n(ost)ris felicibus prope predictam [terram] roccam bernardam” il 17 novembre 1444 VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2903, ff. 182r.

[xc] “Item pete la dicta universitate che non siano tenuti de dare panni alo Castello dela dicta Rocha Et questo paria per uno privilegio quale havevio dela bona memoria delo comite anthono Et cossi ancora non siano tenuti de pagare porta ne presonia nulla alo castello como antiquamente haviano et similiter non siano tenuti de fare cosa nulla alo capitano senza paga ne ancora donareli Roba placet Regie magestati.” Capitoli concessi alla università di “Rocce bernarde” dati “in castris n(ost)ris felicibus prope predictam [terram] roccam bernardam” il 17 novembre 1444 VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2903, f. 182v.

[xci] Nei capitoli concessi all’atto della resa l’otto novembre 1444, da re Alfonso all’università e agli uomini della terra di Cirò, vi era: “Item che non siano tenuti fare posati ece dare panni alli officiali o ad altra persone et chi non sia comandata persona ne bestia ad parte nulla ne commandata ad guardia de castello nullo. Placet Regie Maiestati.” Fonti Aragonesi, I, p. 40.

[xcii] “Item che non siano tenuti fare posate ne donare panni ad officiali o ad alt.a persona et che non sia comandata persona ne bestia ad parte nulla ne comandata ad guardia de castello nullo. Placet Regie ma.ti.” Capitoli concessi alla “universitatis et ho(mi)num t(er)re Pulicastri” dati “in castris nostris felicibus prope Roccam b(erna)rdam” il 17 novembre 1444, VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2904, ff. 184v-185r.

[xciii] “Item dapo sera renduto lo Castello de Cutroni nullo Citatino sia tenuto fare posate ne dare panni per posata ad gente alcuna ne ad castellano ne ad officiale § Placet Regie Maie.ti. Item che non siano constrecti ad nulla angaria et perangaria Reali ey personali ne mandati cum licteri ne loro bestie et quando bisognasse per la curte non siano mandati altri che quilli so solito fare quillo mestiero et siano pagati § placet Regie maie.ti.” Capitoli concessi alla città di “Cutroni” dati “in castris n(ost)ris felicibus prope Civitatem n(ost)ram Cutroni” l’otto dicembre 1444 VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2904, ff. 214v.

[xciv] “Item pete la dicta uni.ta lo concedete de gr(aci)a che nullo citatino sia constrecto ne conmandato ad fare servici alcuno de corte ne andare ad parte nulla con bestia o senza sine competenti salario § placet Regie maiestati.” Conferma dei capitoli concessi “pro universitate Taberne”, data in “n(ost)ris felicibus castris contra Cutroni” il 5 dicembre 1444, VIII indizione. ACA, Cancillería, Reg. 2904, ff. 241v-242r.

[xcv] “Item che lo Castellano de la t(er)ra non se possa impazare de nullo h(omin)o dela t(er)ra ne habia nulla potestate sopra loro Et che lo capit.o et Castellano non possa costringere li ho(min)i dele castella ad donare panni de lecti ne portare lignya ne altra nulla graveza ne paglya § Placet Regie ma.ti. Item che nullo homo delle castella sia conmandato senza denari non per graveza non per bisognyo nullo non per portare lict(er)e ne per mare ne per terra per nulla banda contro la sua voglya et che non sia pagato. Ne poza essere messo nullo in presoni alo castello Et in caso che nce fosse messo non paghe se non gr(ana) v. pernoctandonce Et se non ce pernocta non paghe si non gr(ana) dua § placet Regie ma.ti. Item peteno li dicti boni ho(min)i delle castelle che non siano constrecti ad fare posata ad nulla persone § placet Regie ma.ti.” Conferma data il 4 gennaio 1445 “in castris n(ost)ris felicibus Contra castrum civitatis n(ost)re Cutroni”, dei capitoli della “Terrae Castellorum” dati “in castris n(ost)ris felicibus contra castrum civitatis n(ost)re cutroni” il 27 dicembre 1444. ACA, Cancillería, Reg. 2907, ff. 36r-36v.

[xcvi] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato, p. 167.

[xcvii] Trinchera F., Codice aragonese, Vol. III, pp. 222-223.

[xcviii] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato, p. 292.

[xcix] “Le cappelle che venino ad commandamento et se pagano ad la retro scritta ragione” erano S.ta Maria, S.to Petro, S.ta Nayina, S.to Nicola, S. Stefano, S.ta Vennera, S.ta Dominica, S.to Giorgio, S.ta Vennera, S.to Angelo, S.to Joanne e S.to Nicola de Cropi. ASN, Fs. 196 fslo 4, f. 58 e sgg.

[c] AASS, 16B.

[ci] AASS, 37A.

[cii] AASS, 24B, fasc. 1.

[ciii] Consuetudini di Crucoli, Pugliese G. F., Descrizione ed istorica narrazione di Cirò, Vol. II, p. 261.

[civ] ASN., Fondo Pignatelli Ferrara Fasc. 51 bis, pr. 100, ff. 4-7.

[cv] “I contadini vennero sottomessi alle signorie in tre modi diversi: 1. attraverso atti volontari di sottomissione che li legavano a protettori influenti; 2. con la sottomissione violenta e l’asservimento di coloro che fino ad allora erano rimasti liberi; 3. con l’ampliamento della signoria attraverso opere di dissodamento.” Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 23.

[cvi] ASCZ, Miscellanea Monastero di S. Maria di Altilia, fasc. 529, 659, B. 8, ff. 2v-4v, Copia di Platea antica con i pesi de’ vassalli.

[cvii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, pp. 167-180.

[cviii] In un contratto stipulato il 6 novembre 1772 in Crotone tra i coloni Domenico Friyo e Pasquale Scurace, con il primicerio della cattedrale Diego Zurlo, proprietario del giardino della Potighella, i due si obbligavano “ins(olidu)m realm(en)te e pers(onalmen)te” a pagare al detto primicerio, ducati 114 per l’affitto triennale di detto giardino, e “s’obligano d(ett)i cost(itu)ti ins(olidu)m fare ogn’anno coll’intelligenza di d(ett)o Sig.r Prim.rio Zurlo due giornate di alberi, ed in mancanza di questi, devono fare dette due giornate in elevare il fosso del giardino pred(ett)o, quia sic …”. ASCZ, busta 1665, anno 1772, ff. 2v- 3.

[cix] Lombardi L., Usi Civici nelle Provincie Napoletane, Cosenza 1882, rist. Ed. Brenner 1996, pp. 66-67.


Creato il 14 Novembre 2020. Ultima modifica: 21 Maggio 2021.

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