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corona di Hea

Diadema aureo conservato al Museo Archeologico di Crotone (da www.elioarte.blogspot.com).

Il crepuscolo degli dei

Questo periodo, che prelude per i Greci alla definitiva perdita della loro autonomia politica, evidenzia tutta l’inadeguatezza con i tempi del modello cittadino e della mentalità che lo aveva realizzato. Le città impossibilitate a sfuggire alla loro rigida dimensione politica, anche sforzandosi di realizzare convergenze, attraverso tentativi di sposare cause comuni, rimasero in definitiva quello che erano. Ciò fece si che di fronte al mutare dei tempi, i Greci non riuscissero a trovare una risposta che avrebbe consentito loro di superare la crisi, venendo progressivamente superati dall’avvento di nuove realtà che si erano strutturate su scala diversa e che, come Roma, caratterizzeranno la storia successiva dell’Italia antica. Tale valutazione non deve essere letta come il tentativo di evidenziare difetti e limiti della società greca in rapporto ad altre. Senza perderci nei rimpianti che spesso ancora oggi accompagnano questa pagina di storia, possiamo dire, semplicemente, che essa evidenzia la naturale conclusione di un’esperienza forte, ma allo stesso tempo difficilmente modificabile, che ad un certo punto fece posto ad altre. Tale conclusione non si realizzò però né in modo repentino né in virtù di una sola causa, anche se alcune generalizzazioni possono accreditare una ricostruzione degli avvenimenti, che solo apparentemente fornisce un’accettabile realtà storica. Quella di questo periodo evidenzia una fase di crisi, che non riguarda il livello di benessere dei Greci – le città continuano a vivere la loro opulenza – ma essenzialmente la difficoltà crescente degli stati greci di reggere il confronto con realtà sovra cittadine che, in questo periodo, caratterizzano più compiutamente la società dei barbari che premeva ai confini dell’ordinato mondo ellenico. Per quanto riguarda le aree nelle quali si estendeva l’influenza dei Crotoniati, nuovi avvenimenti portarono ad una riqualificazione di una serie di zone interne, nelle quali si realizzò la costituzione di una nuova entità politica, rappresentata dalla confederazione dei Bruzi (356 a.C.) che proclamarono loro capitale Cosenza. L’avvenimento viene riportato come un’evoluzione repentina dell’assetto complessivo di questo territorio, che avrebbe visto i Bruzi rendersi autonomi dai Lucani, alle vicende dei quali erano stati legati fino a quel momento. Secondo la tradizione, i Bruzi sarebbero stati, infatti, gli schiavi pastori di questi ultimi. A prescindere dalla effettiva storicità di quest’informazione e delle vere origini dei Bruzi è certo, comunque, che da qui in avanti essi assunsero nell’area in questione una piena sovranità, spodestandone i Greci e diventando per loro una costante minaccia. Ciò ebbe particolari conseguenze per Crotone, che sarà ricorrentemente impegnata a fronteggiare la loro intraprendenza. Già negli anni immediatamente successivi alla loro costituzione federale, i Bruzi conquistarono Terina (354 a.C.), impossessandosi di quello che era stato, fino a quel momento, un nodo cruciale per l’economia della città

 

La campagna di Alessandro il Molosso

Nel quadro di una situazione che andava radicalmente evolvendosi a scapito dei Greci, l’azione pressante dei barbari contro le città greche trovò nuovo slancio a seguito della crisi di Siracusa conseguente alla caduta di Dionisio II (356 a.C.), portando Taranto ad assumere il ruolo di guida per le città minacciate. Ma oramai esse erano incapaci di allestire isolatamente una valida difesa e cercarono di ribaltare una situazione che le vedeva chiaramente in difficoltà, facendo ricorso ad eserciti di mercenari. Il loro ingresso sulla scena non servì però a migliorare di molto la situazione, perché questi ultimi finirono spesso per creare contrasti con le stesse città che li avevano assoldati. Furono i Tarantini, che dopo aver chiesto nel 342 a.C. l’aiuto di Archidamo di Sparta, si rivolsero ad Alessandro Neottolemo (detto il Molosso), re d’Epiro, che giunse con il suo esercito in Italia nel 333 a.C.. Alessandro ottenne una serie di successi sia politici sia militari nei confronti dei Barbari, cosa che a questo punto determinò la defezione di Taranto che, sentendosi minacciata dal potere che il re epirota stava accumulando, lo abbandonò. Fu probabilmente proprio a seguito di questa defezione che Crotone andò assumendo un ruolo più di primo piano negli avvenimenti. Ciò si rileva dal fatto che l’epilogo della spedizione di Alessandro è ambientata in un’area prossima a Crotone o, comunque, dove fino ad un recente passato erano stati radicati diversi suoi importanti interessi, e come sembra dimostrare il ritrovamento nella città di un numeroso quantitativo di monete di bronzo (oltre 4000), rinvenute tutte contestualmente assieme ai punzoni utilizzati per coniarle[1]. Tali monete recano il nome di Alessandro Neottolemo e rappresentano, con ogni probabilità, la paga dei mercenari del condottiero epirota[2]. Le sue vicende, che conosciamo attraverso i racconti di Tito Livio[3], Strabone[4] e Giustino[5], ci permettono di evidenziare un consistente arretramento delle posizioni tenute dai Greci in conseguenza dell’affermazione dei Bruzi. Secondo questa tradizione, Alessandro prima di recarsi in Italia andò a Dodona a consultare l’oracolo di Zeus, per conoscere cosa gli riservasse il futuro. L’oracolo lo avrebbe però ammonito di guardarsi “dall’Acheronte e da Pandosia“, ma Alessandro non avrebbe tratto da ciò auspici negativi, dato che pensava che l’oracolo si riferisse ai luoghi della sua patria (l’Epiro). Non sapeva, invece, che anche in Italia vi erano un fiume ed una città con questi nomi. Un altro oracolo contribuì poi a metterlo sulla strada sbagliata: “O Pandosia dai tre colli, ci sarà un giorno in cui distruggerai una forte e numerosa gente“, inducendolo a credere che il responso alludesse alla distruzione dei suoi nemici. Il suo destino si compì implacabilmente durante la battaglia sul fiume Acheronte presso Pandosia (331 a.C.). Qui, durante lo scontro, Alessandro avrebbe ucciso il comandante dei Lucani, ma mentre si accingeva ad attraversare il fiume con i suoi, fu colpito da un giavellotto e sopraffatto dai nemici. A questo punto i barbari ribaltarono la situazione e sconfissero i Greci rimasti senza il loro generale, il cui cadavere, diviso in due, fu parte inviato trionfalmente a Cosenza e parte fu lasciato al dileggio sul campo di battaglia. Una donna, a questo punto, sarebbe intervenuta chiedendo il corpo del re per scambiarlo con la vita dei propri figli prigionieri in Epiro. I resti del re, riscattati dai Metapontini, o secondo un’altra versione da quelli di Thurii, furono quindi inviati in Epiro. La proposizione di questi avvenimenti, attraverso la dettagliata tradizione che li accompagna, ha una notevole importanza per ricostruire le vicende che opposero i Greci ed i Barbari durante questo periodo, ed in particolare ci offre l’opportunità di evidenziare una piena affermazione dei Bruzi nell’area, situazione che dimostra di trovare anche il pieno riconoscimento da parte dei Greci. Come si rileva, l’epilogo della tradizione, attraverso una serie di simbolismi, sottolinea il pieno riconoscimento di Cosenza (qui furono portati e cremati i resti di Alessandro) come capitale della confederazione dei Bruzi, la cui legittimazione rimane evidente dall’accordo (la cessazione del dileggio, il pagamento del riscatto e lo scambio con i prigionieri) che attraverso il ritorno in patria delle spoglie del re, mette fine alla spedizione di Alessandro e al tentativo greco di reimporsi militarmente nell’area. Seppure l’episodio evidenzi una dura sconfitta dei Greci, la tradizione si dimostra indulgente verso la figura del re epirota, come dimostra la pietà che pervade l’epilogo della sua vicenda e soprattutto l’eroismo che gli è attribuito. Egli infatti, seppure non possa opporsi ad un volere divino (rivelatosi enigmaticamente attraverso l’oracolo), dimostra tutto il suo valore di condottiero. E’ solo durante l’inseguimento del nemico in ritirata che la sorte avrebbe determinato la sconfitta dei Greci, quando Alessandro è ucciso in maniera fortuita (da un giavellotto) senza che ciò infici le sue qualità militari, dato che la morale greca reputava fondamentalmente una vigliaccheria colpire il nemico da lontano con armi da lancio. Tale voluta benevolenza non è comunque da attribuire ad una serie di trovate letterarie, ma s’inquadra nell’episodio cruciale del periodo, che vede i Bruzi pienamente affermati nell’area e nuovi interlocutori politici dei Greci. Attraverso la maniera con la quale ci sono presentate le vicende, si rileva quindi che si giunse ad una mediazione, che seppure subita dai Greci, dimostra di essere stata accettata pienamente attraverso un accordo, forse con l’intento di realizzare un freno all’espansionismo dilagante dei barbari.

 

L’intervento di altri mercenari e le conseguenze interne

I fatti che seguirono dimostrano invece che i probabili intenti dei Greci non trovarono buon fine, perché a seguito del fallimento della campagna di Alessandro, l’insidia verso le città si fece ancora più incombente. Crotone minacciata dai Bruzi, dovette ricorrere all’aiuto di Siracusa[6] che nel 325 a.C. inviò in suo soccorso un esercito al comando di Eraclide e Sosistrato (o Sostrato) e del quale facevano parte anche Agatocle ed il fratello Antandro. In questo modo, i Bruzi che assediavano Crotone furono respinti e la campagna condotta vittoriosamente, dette modo a Sosistrato di rientrare a Siracusa e di prendere il potere. Agatocle, invece, che aveva tentato di avversarlo, rimase in Italia cercando di occupare Crotone, ma fu sconfitto e costretto a riparare a Taranto con i pochi uomini rimastigli[7]. Lo stato di conflitto determinò, a questo punto, una serie di contraccolpi interni per Crotone, le cui vicende possono essere ricostruite, schematicamente, attraverso la contrapposizione tra una cittadinanza aristocratica al potere (quest’ultimo messo in grave crisi dall’attacco dei Bruzi) e una fazione popolare che, successivamente, riuscirà a stabilire nella città un regime democratico, con una serie di legami che vedranno coinvolti Agatocle e gli stessi Bruzi. Sempre Diodoro siculo[8] ci informa che durante il nono anno dello svolgimento della II guerra sannitica combattuta dai Romani (326 – 304 a.C.) e quindi nel 317 a.C., Crotone stipulò un trattato di pace con i Bruzi, ma era già impegnata nel secondo anno di una guerra civile che la vedeva opposta ad una fazione di cittadini aristocratici esiliati dal regime democratico, che nel frattempo era stato instaurato nella città. Diodoro siculo chiarisce che questi cittadini erano stati allontanati per aver fatto causa comune con Sosistrato ed Eraclide, i comandanti siracusani che in precedenza erano intervenuti a favore della città attaccata dai Bruzi, con un chiaro riferimento alla presa di potere che Sosistrato aveva realizzato in patria ed all’opportunità dello stesso tipo che alcuni Crotoniati avrebbero voluto sfruttare con l’aiuto dei Siracusani. Il tentativo fu però duramente stroncato, perché dopo un primo episodio, che vide gli esuli partiti da Thuri, con l’appoggio di un contingente di mercenari, attaccare la città senza successo, l’esercito crotoniate guidato da Parone e Menedemo, raggiunse questi ultimi al confine della terra dei Bruzi e li sterminò completamente. In relazione a questi fatti, l’episodio potrebbe essere considerato in relazione alla svolta autoritaria che portò Menedemo ad assumere la tirannide a Crotone ed a stabilire una significativa amicizia con Agatocle. Seppure non esistano indicazioni esplicite sul momento e sulle condizioni che determinarono l’ascesa al potere di Menedemo è pensabile che la vittoria che lo aveva visto tra i principali protagonisti, abbia contribuito a dare maggiore spazio al personaggio, consentendogli, attraverso l’eliminazione degli avversari e giovandosi della recente pacificazione con i Bruzi, di consolidare e radicalizzare il proprio potere. Si tratta comunque, di un periodo molto travagliato e caratterizzato da una forte instabilità che, per quanto riguarda Crotone, evidenzia ormai una piena accettazione della presenza dei Bruzi sui suoi confini (qui emblematicamente i Crotoniati risolsero militarmente i loro dissidi interni), tenuta a freno attraverso il raggiungimento di un accordo. Tale situazione di tensione non esclude poi i principali vicini greci, come si rileva dal coinvolgimento di Siracusa, Taranto e Thuri negli avvenimenti. Si tratta però di una situazione in rapida evoluzione e non sorprende il trovarci di fronte a veloci e repentini cambi di campo. Emblematico è il caso di Agatocle che, intervenuto per difendere la città dai Bruzi, avrebbe successivamente cercato di impossessarsene senza riuscirvi, quindi richiamato sempre a combattere i Bruzi, avrebbe approfittato della situazione e della sua amicizia con Menedemo per attaccare la città e conquistarla con l’inganno. Senza scendere nell’effettiva storicità dei singoli episodi che la tradizione riferisce a quest’avvenimento, tutto dimostra lo stato di tensione e di incertezza generalizzato che ruota attorno alla presenza dei Bruzi e alla loro azione disgregatrice nei confronti di quella che era stata una realtà ad esclusivo appannaggio dei Greci. Questa minaccia sempre più pressante determinò la richiesta di aiuto di Taranto a Sparta che nel 303 a. C. portò in Italia Cleonimo che mise insieme un grosso esercito di mercenari al quale si unirono i Messapi ed i contingenti di varie città. La sua spedizione non ottenne però i risultati sperati, anzi vide Cleonimo impegnato in una serie di azioni legate al perseguimento di fini personali che, in combutta con i Lucani, lo avrebbe portato, tra l’altro, a taglieggiare Metaponto. Ciò determinò un sostanziale fallimento della sua impresa, portando i Greci a rivolgere altrove le proprie richieste di servigi militari. Fu quindi il turno di Agatocle di Siracusa (299-298 a.C.) che non agì meglio dei suoi predecessori e condusse una politica utilitaristica ai danni degli altri Greci. Seppure egli si sia impegnato militarmente contro i barbari, allo stesso tempo ne approfittò per realizzare i propri scopi in maniera spregiudicata, come nel caso dell’episodio che nel 295 a.C. lo portò alla conquista di Crotone[9]. Con la scusa di sostare con la propria flotta nel porto della città, mentre scortava la figlia Lanassa che si recava in Epiro per sposare Pirro, Agatocle avrebbe approfittato della concessione dei Crotoniati per assalire la città con l’inganno, saccheggiandola e facendo strage dei suoi abitanti. Installato un presidio nella sua acropoli, il condottiero siracusano avrebbe posto la città sotto il proprio dominio. Non abbiamo motivi per mettere in dubbio l’attendibilità della notizia, anche se, come al solito, questa deve essere depurata dalla ricostruzione letteraria. Essa, nella sostanza, censura Agatocle per aver rivolto le armi contro quelli della sua razza, in un momento che, secondo retorica, avrebbe dovuto vedere i Greci comunemente schierati contro la barbarie. Nella realtà Agatocle stava conducendo un personale ma legittimo obiettivo, che comunque non arrivò mai ad essere realizzato compiutamente, in considerazione del fatto che egli morì poco tempo dopo (289 a.C.). Ciò fa presumere che la dipendenza verso Agatocle, fu per Crotone un episodio transitorio, come del resto testimonia il caso di Hipponion che, presa dal condottiero siracusano l’anno dopo Crotone, si liberò immediatamente.

 

L’intervento di Roma e la campagna in Italia di Pirro

La necessità di allestire una difesa efficiente e la difficoltà di gestire l’intervento di eserciti di mestiere, determinarono a questo punto la decisione, abbastanza generalizzata tra i Greci, di ricorrere all’aiuto militare dei Romani. La prima fu Thurii nel 282 a.C., che trovandosi sotto la minaccia congiunta dei Lucani e dei Bruzi, si rivolse a Roma. Quest’ultima inviò in suo soccorso un esercito al comando del console C. Fabrizio Luscino, che sconfisse i barbari e liberò la città dall’assedio. Sull’esempio di Thurii anche Locri accettò la presenza di un presidio romano, mentre a Reggio si istallava la VIII^ legione (legio campana). Anche Crotone si sarebbe adeguata a questa nuova situazione, accogliendo (probabilmente sempre attorno al 282 a.C.) un presidio, e venendo annoverata tra i soci di Roma. La notizia non è riportata esplicitamente, ma la s’ipotizza dal contesto generale che, in questo periodo, vede i Greci ricorrere in maniera generalizzata al protettorato dei Romani. In questa direzione potrebbe poi essere interpretata la notizia che riferisce l’intervento ritorsivo di Roma contro la città che si era ribellata passando dalla parte di Pirro. Da questo momento inizia comunque una nuova fase. Essa appare storicamente ben delineata nelle sue linee essenziali, ma lascia ampi margini in relazione alla possibilità di ricostruire i singoli episodi, come tradisce la maniera con la quale essi sono motivati. La pertinenza di questa tradizione al momento che vede l’estendersi della potenza romana sulla realtà delle colonie, rende comprensibile questa presa di posizione complessiva che, in ogni caso, tenne conto di chi risultò tra i vinti e di chi invece affermò il proprio ruolo di vincitore. La diversa realtà delle singole città, i loro differenti interessi e la loro differente capacità politica e militare, giocarono in maniera determinante nell’influenzare il comportamento dei Greci nei confronti degli avvenimenti. Taranto, ad esempio, in virtù della sua influenza e dei suoi interessi, scelse o fu costretta a scegliere una presa di posizione antagonistica verso Roma, innescando un conflitto che coinvolse anche le altre colonie. Già nel 303 a.C. Taranto era venuta a patti con gli interessi di Roma, stipulando un trattato che impediva alla flotta di quest’ultima il superamento del capo Lacinio. Ma in conseguenza di fatti successivi gli avvenimenti precipitarono. Il conflitto sarebbe stato provocato dai Romani, che violando il trattato, si erano presentati con la propria flotta nelle acque di Taranto, innescando la reazione di quest’ultima, che attaccò e distrusse il presidio romano a guardia di Thurii. Successivamente i Tarantini ebbero però la peggio, ma non rinunciarono a combattere e chiamarono a loro sostegno Pirro re d’Epiro. Pirro sbarcò nel 280 a.C. e dopo aver sconfitto i romani ad Eraclea e l’anno dopo presso Ascoli, tentò una trattativa che Roma rifiutò, anche perché nel frattempo quest’ultima si era accordata con Cartagine al fine di non concludere alcuna pace separata con il condottiero. Da parte loro i Greci, incoraggiati dalle iniziali vittorie di Pirro, colsero l’occasione per insorgere contro i Romani cercando di sottrarsi al loro protettorato. Anche i Crotoniati si affrettarono a cambiare campo, e seppure la cosa non sia riferita esplicitamente, si sarebbero sbarazzati del presidio romano passando dalla parte del re epirota (280 – 279 a.C.). A questo punto Pirro si diresse in aiuto dei Greci di Sicilia, conducendo una campagna vittoriosa (278 – 276 a. C.) contro Mamertini e Cartaginesi, che avrebbe dato modo ai Romani di sfruttare la sua assenza per lanciare un’offensiva in Italia che avrebbe portato il console P. Cornelio Rufino alla conquista di Crotone. In un’azione tesa a riconquistare le città ribelli e su richiesta di una parte della cittadinanza, egli si portò contro Crotone, ignaro del fatto che i difensori avessero rafforzato le difese della città con l’aiuto degli Epiroti. Ciò determinò il fallimento del primo assalto e di conseguenza il fatto che la città fu posta sotto assedio. Secondo il solito canovaccio, la sua caduta si sarebbe realizzata ancora una volta attraverso l’inganno, in virtù di uno stratagemma del console che, fingendo di ritirarsi dall’assedio, avrebbe indotto i difensori a smobilitare le difese, riuscendo così a penetrare facilmente nella città[10]. Le comprensibili incertezze che sono alimentate da questo tipo di racconto, non escludono, comunque, un quadro complessivamente veritiero che, in virtù della posizione assunta da Crotone a fianco di Pirro, vide la città subire una serie di attacchi contro il suo perimetro urbano. Ciò è evidenziato anche dalla notizia che in questo frangente essa, come Reggio, sarebbe rimasta vittima delle scorrerie dei Campani ammutinati della VIII^ legione, ai quali viene attribuita la conquista a tradimento di Crotone e il massacro del suo presidio romano[11]. Con il chiaro intento di spostare le responsabilità, la tradizione fornisce una versione dei fatti che non nega la devastazione della città da parte dei Romani, anche se Zonara ne attribuisce le colpe ai legionari ammutinati. Nel quadro di una situazione che evolveva rapidamente in favore di Roma, e nonostante Pirro al suo rientro abbia segnato qualche punto (Locri è riconquistata nel 276 a.C.), i suoi tentativi ebbero fine in conseguenza della sconfitta patita a Benevento nel 275 a.C., che lo portò prima a ripiegare su Taranto e poi ad imbarcarsi per rientrare in Epiro, lasciando Roma padrona assoluta della situazione. Crotone, ritornata stabilmente nelle mani dei Romani, come avvenne in altri casi, fu riannoverata tra le città socie di Roma, cosa che le permetteva di conservare l’autonomia politica (naturalmente attraverso il placet romano) e forse di continuare a coniare moneta propria[12], ma con una serie di obblighi che probabilmente riguardavano forniture e lo schieramento di contingenti navali. Nella sua veste di protettrice delle città greche, nel 270 a.C. Roma inflisse una punizione esemplare ai Campani della VIII^ legione giustiziandoli in massa.

 

L’ultimo sussulto

Lo stato continuo di conflitto cui Crotone dovette far fronte durante la campagna di Pirro in Italia, ebbe notevoli ripercussioni per la città. Ai danni materiali, dovuti agli assedi e alle devastazioni subite, si sommarono quelli derivanti dal ridimensionamento del proprio ruolo, segnando il punto di una situazione di crisi oramai irreversibile, dalla quale la città non avrà più la forza di riprendersi. Tale situazione evidenziata secondo Livio dall’abbandono definitivo di parte dell’abitato[13], ebbe però una serie di rivolgimenti in conseguenza del conflitto che oppose Roma a Cartagine, coinvolgendo anche i Greci che, nel ruolo di città socie dei Romani, fornirono loro aiuti durante lo svolgimento della prima guerra punica (264 a.C. – 241 a.C.). L’atteggiamento dei Greci cambiò invece durante la seconda guerra punica (218 a.C. – 201 a.C.), che a seguito della famosa traversata delle Alpi portò in Italia Annibale. Ciò alimentò notevoli speranze tra i Greci, specie dopo la terribile sconfitta di questi ultimi a Canne (216 a.C.) e seppure alcune città rimanessero fedeli ai Romani, diverse altre, tra cui Crotone[14], si affrettarono a cambiare campo. Ciò non avvenne senza tensioni interne. Mentre le classi aristocratiche al potere avevano tutto l’interesse a difendere l’alleanza con Roma, le fazioni popolari si posero al fianco del condottiero cartaginese, intravedendo l’occasione come una possibilità di ribaltare tale posizione di potere garantita dai Romani. Al risveglio dei sentimenti di rivolta, non furono poi estranee le popolazioni barbare che avevano dovuto scontare la loro opposizione ai Romani, attraverso un drastico ridimensionamento del loro ruolo politico. Tra essi i Bruzi che, nella speranza di riguadagnare posizioni, si allearono con Annibale, diventando uno tra i suoi partners più fedeli e potenti. Crotone fu particolarmente coinvolta nel conflitto, divenendo teatro di diversi episodi ad esso legati[15]. Alla presenza di Annibale nel territorio della città si sommò quella dei suoi alleati Bruzi, che avevano il chiaro intento di sfruttare il momento per realizzare i propri obiettivi. Considerata l’impossibilità di saccheggiare Reggio e Locri, essi rivolsero le loro mire su Crotone che da una parte si sarebbe trovata quasi indifesa, essendo popolata da meno di 2000 cittadini[16] e dall’altra avrebbe allettato i Bruzi per la sua favorevole posizione marittima[17]. Questi ultimi, forti di 15.000 uomini, si diressero sulla città stringendola d’assedio e mandarono dei messi ad Annibale chiedendogli assicurazioni sul fatto che, una volta presa, essa sarebbe rimasta nelle loro mani[18]. Il condottiero evitò però di assumere impegni precisi, rimandando ogni decisione al suo generale Annone che si trovava sul campo, ma anch’egli non avrebbe offerto ai Bruzi alcuna garanzia. A Crotone, intanto, gli aristocratici, decisi a rimanere fedeli ai Romani, erano per resistere, mentre i popolari, favorevoli ad Annibale, mandarono un proprio emissario al campo dei Bruzi con la notizia che il loro capo, Aristomaco, era disposto a trattare una resa. Agevolati da questo sfaldamento interno e dalle poche difese, i Bruzi riuscirono a prendere la città al primo assalto, mentre gli aristocratici si rifugiarono nell’acropoli decisi a resistere ad oltranza, dato che non avrebbero mai accettato di mischiare il proprio sangue a quello dei barbari. A questo punto, la situazione di stallo fu risolta attraverso una negoziazione mediata dai Locresi che, con il consenso di Annibale, permise agli aristocratici di abbandonare incolumi la città e di recarsi esuli a Locri, lasciando nel 214 a.C. la città nelle mani dei Bruzi e dei Cartaginesi. Questi ultimi espugnarono anche Petelia che si sarebbe arresa al generale di Annibale, Imilcone, solo dopo una lunga e leggendaria resistenza[19]. Assieme a Cosenza, Petelia sarebbe stata, infatti, la sola città dei Bruzi a rimanere dalla parte di Roma, continuando a mantenere fede ai patti anche quando il senato romano si era dichiarato nell’impossibilità di fargli giungere aiuti[20]. L’eroismo che avrebbe contraddistinto la condotta di Petelia, sembra in ogni caso creato ad arte dallo storico e sembrerebbe più che altro giustificare lo sviluppo di questo centro favorito dai Romani, in un’area che stabiliva dei precisi limiti ai confini territoriali di Crotone. La maniera con la quale Livio propone questi avvenimenti, dimostrano, infatti, di poter essere ricondotti ad una realtà che è oramai in chiaro subordine e che è presentata, mettendo in evidenza la mancanza di un progetto politico alternativo e possibile a quello romano. Ne è testimonianza le diversità di vedute sulla sorte della città che avrebbero caratterizzato Annibale ed i suoi alleati, l’atteggiamento speculativo dei Cartaginesi, che si sarebbero serviti dei Bruzi per assumere nei confronti dei Crotoniati, la veste di arbitri della situazione e l’incapacità di questi ultimi con le loro insanabili divisioni interne, di rappresentare interlocutori credibili. Ciò con il chiaro intento di fornire una rappresentazione del ruolo che da qui in avanti, i nuovi dominatori avrebbero assunto nei confronti della città e che li avrebbe visti stabilizzare definitivamente la situazione, garantendone il mantenimento. Tale situazione ha comunque una sua precisa rappresentazione attraverso alcuni riferimenti pertinenti al ruolo di Hera, che ritroviamo anche nell’ultimo degli episodi che coinvolgono la vita della città greca. Anche in quest’occasione, le trasformazioni territoriali conseguenti al passaggio di Annibale, sono rappresentate attraverso un coinvolgimento del santuario di Hera al capo Lacinio. Qui Annibale si sarebbe reso autore di alcune violazioni delle prerogative politiche e religiose del santuario che, da un lato sottintendono la sua empietà, mentre dall’altro riferiscono della piena affermazione del mondo romano nell’area. Annibale, infatti, avrebbe tentato di appropriarsi dell’oro consacrato alla divinità, ma gli ammonimenti che Hera gli fece in sogno, avrebbero consigliato al condottiero cartaginese di rinunciare ai propri propositi. Con l’oro che aveva fatto prelevare da una delle colonne del tempio, egli avrebbe realizzato una giovenca, poi donata al santuario come atto di riparazione al suo gesto sacrilego[21]. L’episodio, come è evidente, sottolinea una presa di distanza dalla condotta di Annibale che, seppure presentata attraverso una supposta violazione sacra, sottintende una netta riprovazione verso tutta la sua iniziativa politica. Gli avvenimenti, non a caso, sono ambientati sul sacro suolo di Hera, dato che il ruolo di questa divinità rappresenta la chiave di lettura che ribadisce la sovranità della città sul suo territorio. Le vicende, come é noto, portarono ad un progressivo arretramento delle posizioni tenute da Annibale, fino al fallimento della sua spedizione in Italia. Tale arretramento determinò un sempre maggiore coinvolgimento della città, dato che, già dopo la sconfitta di Asdrubale a Metauro, (207 a.C.) Annibale fece del Bruzio il suo campo trincerato, abbandonando le posizioni meno difendibili e concentrando le proprie forze nei punti strategici, come quello del medio Ionio facente capo al golfo di Squillace[22], dove forse sperava di ricevere aiuti che comunque non arriveranno mai. Di questo sistema il caposaldo divenne Crotone, che Annibale rinforzò facendovi affluire 3500 Thurini[23] e dove pose i magazzini di provviste ed il suo quartiere generale[24]. Qui nel 204 a.C., egli radunò il suo esercito sconfitto nei dintorni della città da P. Sempronio[25] e sempre presso Crotone[26] si sarebbe svolto un ultimo scontro campale tra il console Gneo Servilio ed Annibale, che comunque nel 203 a.C. salpò dal porto della città per fare ritorno in Africa[27]. Nel solco di una tradizione ostile, in tale occasione Annibale avrebbe fatto trucidare, presso il santuario di Hera, alcuni contingenti di soldati alleati che si erano rifiutati di seguirlo in Africa[28], ed avrebbe fatto riporre nel tempio delle tavole di bronzo, sulle quali erano riportate, in punico ed in greco, le imprese compiute durante la sua campagna militare[29]. Tali atti (la crudeltà verso gli alleati e l’arroganza legata ad un’auto consacrazione), evidenziano una netta presa di distanza della tradizione che accompagna la definitiva uscita di scena di Annibale. La sua sconfitta ristabilì il potere romano, che nonostante abbia concesso alle città greche di vivere una pace garantita, sancì comunque la fine dell’esperienza politica legata alla loro dimensione di stati cittadini.

 

Da città greca a colonia romana

La partenza di Annibale e la definitiva stabilizzazione della situazione sotto il controllo romano, ebbero per i Crotoniati conseguenze molto diverse da quelle che gli erano state imposte nel primo trentennio del III secolo quando, dopo la sconfitta e la partenza di Pirro, Crotone aveva mantenuto una formale autonomia conferitale dal ruolo di città socia. In questo caso, anche se Livio riferisce che la città era ancora tenuta dai Greci ed a differenza di Temesa (dove i Greci erano stati scacciati dai Bruzi), mantenesse ancora la sua antica identità etnica[30], essa si presentava ormai molto devastata, fortemente spopolata e comunque complessivamente ridimensionata. Tale rappresentazione viene ritenuta in genere abbastanza verosimile, anche se esistono motivazioni che inducono a credere che gli storici antichi ci forniscono un’illustrazione dei fatti che è poco credibile dal punto di vista dello svolgersi dei singoli episodi. Tali ricostruzioni tradiscono l’intento di motivare adeguatamente le conseguenze. Secondo questo tipo di racconto, appare quindi inevitabile che la città spopolata e divisa al suo interno, risulti incapace di difendersi ed auto determinarsi e debba alla fine accettare di perdere la propria indipendenza, scendendo al rango di colonia romana. Non è un caso che nei passi in questione, molta importanza sia addebitata al ruolo dell’acropoli, che seppure più volte violata, in questo caso sarebbe divenuta inespugnabile per i Bruzi, visto che solo una trattativa avrebbe consentito la sua resa. Simbolicamente, l’acropoli rappresenta il luogo che, attraverso un ultimo ed estremo tentativo, avrebbe visto la fine eroica della città greca, mentre più verosimilmente individua quella che sarà in seguito la residenza della colonia latina che prenderà il pieno possesso ed il controllo della città. Nella logica della narrazione, la stirpe dei Crotoniati si sarebbe implicitamente estinta nell’esilio, anche se in questo caso lo stesso Livio si contraddice, quando riferisce che al momento della deduzione della colonia, la città era ancora abitata dai Greci. La ragione di tale rappresentazione è dovuta al fatto che l’estensione del potere romano portò ad un radicale mutamento di quella che era stata la struttura della città, a cominciare dalla sua identità etnica. Tale integrità che sarebbe stata messa in pericolo dai Bruzi, spingendo i Crotoniati a scegliere come alternativa l’esilio, fu invece lacerata proprio dai Romani, la cui presenza nella città comportò il passaggio dell’elemento greco in una posizione di chiaro subordine. In questo caso l’arrivo dei coloni latini è adeguatamente motivato e presentato come il naturale sbocco di una situazione che vedeva la città spopolata nella condizione di subire le legittime ritorsioni in virtù dell’appoggio dato ai Cartaginesi. Pochi anni dopo la conclusione della campagna di Annibale in Italia, Roma infatti inviò a Crotone una colonia di 300 cittadini romani[31] guidata dai triunviri Gneo Ottavio, Lucio Emilio Paolo e Gaio Letorio (194 a.C.), che andarono ad occupare due punti strategici della città funzionali al controllo del traffico marittimo: l’area fortificata dell’acropoli e quella del santuario di capo Lacinio. Tale situazione consente di evidenziare che almeno per un certo tempo gli elementi greci e latini non si mescolarono tra loro ed è quindi presumibile che quanto restava della popolazione greca si sia concentrato al di là del fiume Esaro, come del resto evidenzia il passo di Livio[32] che riferisce della grande distanza che ormai separava l’acropoli dalla città.

 

Il ricordo nostalgico di una grandezza perduta

Di questa situazione che oramai relega la città nella dimensione della provincia romana, rimangono alcune testimonianze molto significative che, a riguardo, ci danno la possibilità di concludere il lungo percorso storico che abbiamo tentato di ricostruire. L’arrivo dei Romani e la loro presa di posizione, non poteva evitare di lasciare traccia nella tradizione di fondazione della città e nei suoi miti costitutivi. E’ in questo senso che ritroviamo Enea al capo Lacinio, dove si sarebbe fermato lungo il suo viaggio, lasciando in dono una coppa di bronzo[33]. Analogamente alle situazioni già viste, l’interpolazione latina nella tradizione di fondazione della città è tesa a ribadire la legittima presenza dei Romani sul territorio, attraverso uno dei suoi mitici antenati, la cui figura ha una valenza funzionale alle trasformazioni operate dai Romani. Trasformazioni profonde, come possiamo ritenere proprio dai significati riconducibili a questa tradizione. I cambiamenti conseguenti all’avvento di Roma, rappresentati attraverso il coinvolgimento del santuario, trovano poi una significativa citazione in Livio a proposito di un atto di profanazione compiuto nel 173 a.C. dal censore romano Quinto Fulvio Flacco[34]. Per edificare il tempio della Fortuna Equestre in Roma, egli si sarebbe appropriato delle famose tegole di marmo che ricoprivano il tempio di Hera Lacinia, ma in seguito alle minacce del senato romano, le avrebbe fatte restituire. Lo smantellamento dell’autorità politica e religiosa della divinità e di conseguenza quella della comunità da essa tutelata, sono gli elementi cardine della rappresentazione fornitaci da Livio che, in ogni caso, riguarda oramai una realtà fortemente degradata. La stessa tradizione sottolinea, infatti, che anche ritornati in possesso delle tegole, i Crotoniati furono costretti a lasciarle sul terreno, visto che nella loro città non era stato possibile trovare artigiani in grado di rimetterle al proprio posto[35]. L’antico ruolo che il santuario aveva svolto, immutabile all’interno dell’organizzazione del territorio da parte della città, come sottintende il famoso prodigio riferito dalla tradizione[36] che voleva i venti e gli uragani incapaci di smuovere le ceneri accumulate sull’altare del tempio, era ormai irrimediabilmente perduto. Da un punto di vista letterario, una chiara visione della situazione ci è fornita da Strabone, che, descrivendo il viaggio costiero verso la città e citando quelle che un tempo erano state le famose città degli Achei, riferisce semplicemente che esse (tranne Taranto) non esistevano più[37]. Tale precisa e asciutta asserzione di Strabone ci consente di evidenziare che essa non era tanto riferita alla sopravvivenza delle città in quanto tali, ma al fatto che ai suoi occhi, nulla di quanto era possibile attendersi in ragione del loro passato era sopravvissuto al trascorrere del tempo. Su questa realtà ormai ombra della passata grandezza della città si soffermeranno in tanti, ponendo l’accento sul desolante presente e mettendolo a confronto con i fasti del suo grandioso passato. Dione Crisostomo[38] evidenzia la scomparsa della Crotone di un tempo, Valerio Massimo ricorre ai superlativi definendola, sempre al passato “opulentissima civitas“, mentre Petronio[39] dice che essa era stata la prima città dell’Italia e che i Crotoniati, ricchi d’ogni bene, erano considerati come uno dei popoli più felici dell’Italia. Lo stesso autore ci fornisce, comunque, una facile interpretazione delle sue parole, quando, con intento moralistico, fa dire ad uno dei suoi personaggi che nella città “ … non si coltivano gli studi letterari, non c’è posto per l’eloquenza, non fruttano stima né l’onestà né i costumi timorati …“, ma che i Crotoniati si dividono oramai solo in truffati o truffatori. La componente retorica di questo filone di pensiero è rilevabile infine nelle parole di Aristosseno di Taranto[40] che in questo caso, riferendosi ai Poseidoniati oramai privi della loro identità greca, li descrive nell’atto di compiangersi, mentre si allontano dopo aver ricordato le antiche origini.

“Noi ci comportiamo come i Poseidonati che abitano sul golfo tirrenico. E’ accaduto a questi di passare dalla loro condizione originaria di Greci a quella di barbari, essendo diventati Etruschi o Romani, di cambiare lingua ed altri costumi e di celebrare ancora oggi una sola festa greca; convenuti a questa richiamano alla memoria i nomi antichi e le antiche leggi, si compiangono l’un l’altro e dopo aver versato molte lacrime si allontanano.”

 

La Magna Grecia

L’ottica con la quale una certa corrente di pensiero ha guardato e continua purtroppo a guardare alla realtà delle città che i Greci fondarono in Italia, si basa fondamentalmente su di un’idea che è fortemente influenzata dal rapporto che esse ebbero con Roma e dal ruolo che quest’ultima, ad un certo punto, esercitò nei loro confronti. Ciò determina, di conseguenza, una valutazione distorta dell’esperienza cittadina dei Greci che, in questo caso, appare caratterizzata da uno scarso senso pratico, andando a costituire solo un’eredità che il pragmatismo romano avrebbe poi utilizzato per la realizzazione dell’impero. Spero, a questo punto, che gli argomenti trattati possano dimostrare la natura erronea di tale implicazione, che costituisce una deformazione alla quale non poco hanno contribuito aree di pensiero già consolidate nell’antichità e che possono essere ricondotte alla cultura romana. Ne è esempio la nascita del concetto di Magna Grecia, nel quale molti hanno voluto vedere il segno della magnificenza che già in epoche remote, sarebbe stata riconosciuta dagli stessi Greci alle città fondate in Italia. Come è stato pertinentemente messo in luce[41] si tratta invece di un concetto chiaramente estraneo alla cultura greca, per la quale non esistevano realtà nazionali che superassero le dimensioni di quelle cittadine, e nella quale non è neanche immaginabile la comparazione tra una sorta di grecità maggiore a confronto di una di proporzioni minori. Senza contare che il concetto di Elleni (o di Greci) aveva una dimensione etnica e culturale ma non certamente politica. La pertinenza di questo concetto al pensiero romano ha comunque una radice più remota che non è estranea ad alcuni aspetti della stessa mentalità greca. In questo senso, può essere letta la nostalgia, con la quale, tanti intellettuali greci si espressero nei confronti della realtà arcaica delle colonie. Esse sono ricordate come vere e proprie culle di civiltà, nelle quali l’istituzione delle prime leggi, avrebbe determinato l’armoniosa convivenza tra gli uomini. A loro, come all’arcaismo di Sparta, fecero costante riferimento le più importanti correnti del pensiero filosofico greco, che cercarono di delineare i canoni di un’esperienza politica da consegnare agli uomini, per realizzare l’utopia di una società perfetta. A tale suggestione, non sfuggì certamente il mondo romano che, seppure riuscì ad immaginare e realizzare un impero di dimensioni polietniche, non ha potuto fare a meno di raccogliere i riferimenti ideologici e culturali che erano stati alla base dell’esperienza cittadina dei Greci e della sua stessa originaria dimensione di città stato. In questo senso l’influenza delle piccole città greche sul mondo romano fu certamente più rilevante di quella esercitata dal grande impero egiziano o da altre macro realtà dell’oriente asiatico, in virtù dell’impronta originaria che la dimensione cittadina dello stato aveva creato, dando una precisa mentalità all’homus occidentalis. Per tale motivo non appare difficile comprendere come all’interno del mondo romano qualche corrente di pensiero abbia voluto rifarsi ad esperienze ritenute originarie, elaborando un concetto come quello di Magna Grecia che per i significati che è possibile mettere in luce, rappresenta l’indice di una mentalità che è giunta fino a noi. Essa fa riferimento ad un cardine della nostra cultura e ci rimanda ad un tempo, al quale siamo soliti vagheggiare il ricordo di un benessere lontano, che delinea un’antichità di sogno mai esistita. Tale esigenza implica poi, di riconoscere in questo passato remoto un ordine primordiale, un’antica sapienza, capace di soddisfare i dubbi e le incertezze umane. In questo senso, può essere letto l’interesse passato e presente verso le figure più arcaiche della sapienza o comunque, verso tutte le dottrine più remote. La natura speculativa di tale interesse, risulta chiaro quando si pensa che ad esso, non ne corrisponde quasi mai, uno analogo per il contesto sociale nel quale questi uomini veramente vissero ed elaborarono il loro pensiero. La dimensione nella quale sono relegati è rigidamente incollata al trascendente. Per rimanere nell’ambito delle situazioni affrontate, si consideri, per esempio, la tradizione che voleva il re di Roma Numa Pompilio allievo di Pitagora, contro la quale è possibile registrare la netta presa di posizione di Tito Livio[42], lo storico romano che assieme a Polibio (a sua volta utilizzato dal precedente), rappresenta la nostra principale fonte di informazione sulle vicende che determinarono l’affermazione del mondo romano sulla realtà delle città greche d’occidente. Seppure tra i due personaggi esisteva una notevole incompatibilità cronologica, evidenziata anche da Cicerone[43] è facile rilevare come nei passi citati, Livio si soffermi sull’argomento per sottolineare l’indipendenza culturale di Roma dal mondo greco, rigettando una tradizione che, al di fuori di ogni plausibile verità storica, nasceva dalla necessità di ricostruire l’origine del proprio grandioso presente, attorno a figure eccellenti del passato. Un caso analogo a quello dei Neoplatonici, con il loro tentativo di costituire un’idea politica rispolverando antiche filosofie pitagoriche, al quale possiamo ricondurre la nostra stessa smania, che ci spinge a cercare in un passato remoto ed indecifrabile, la chiave di lettura della realtà moderna, che spesso ci si presenta altrettanto ignota ed incomprensibile. Credo che sia l’incapacità di sottrarci a quest’impronta culturale che ci spinge a cercare rifugio nel tempo, alludendo ad un’armonia inverosimile, nella quale ci piace continuare a credere e che usiamo come unico mezzo, per giustificare l’inevitabile fallimento, di un grandioso presente necessariamente imperfetto.

 

Note

[1] N. Sculco, Ricordi sugli Avanzi di Cotrone, ed. Pirozzi 1905.

[2] P. Attianese, op. cit. p. 186.

[3] Livio VIII, 24, 1-18.

[4] Strab. VI, 1, 5.

[5] Giust. XII, 2, 3 e sgg..

[6] Diod. XIX, 3.

[7] Diod. XIX, 4.

[8] Diod. XIX, 10.

[9] Diod. XXI, 4.

[10] Zonara, VIII, 6PI, 378; Frontino, Stratag., III 6, 4.

[11] Zonara, VIII 6PI, 379 D.

[12] A questo periodo potrebbero essere fatte risalire alcune serie di monete che non unanimemente sono attribuite alla città. P. Attianese, op.cit. p. 209.

[13] Livio XXIV, 3, 1-3.

[14] Livio XXII, 61.

[15] Livio XXVII, 25; XXIX, 36.

[16] Livio XXIII, 30.

[17] Livio XXIV, 2.

[18] Livio XXIV, 2, 3.

[19] Livio XXIII, 30; Polibio, fr. VIII.

[20] Livio XXIII, 20.

[21] Cicerone, De Div., I, 24, 48.

[22] In quest’area, probabilmente, già in precedenza Annibale aveva posto i suoi accampamenti invernali (Plinio, N. Hist., III 95).

[23] Appiano, Guerra Annib., VII 8, 54.

[24] Appiano, Guerra Annib., VII 9, 57.

[25] Livio, Per., XXVIII 20; St. di Roma, XXIX 36.

[26] Livio XXX, 19.

[27] Livio XXX, 20.

[28] Livio XXX, 20.

[29] Livio XXVIII, 46; Polibio III, 33.

[30] Livio XXXIV, 45.

[31] Livio XXXIV, 45.

[32] Livio XXIV, 3.

[33] Dion. di Alic. 1, 51, 3.

[34] Livio XLII, 3.

[35] Val. Mass. I, 1, 209; Livio XLII, 3.

[36] Val. Mass. I, 8, ext. 18; Plinio, N. Hist., II, 240; Livio XXIV, 3.

[37] Strab. VI, 1, 11.

[38] Dione Cris. 33, 25.

[39] Petronio, Saty., 116.

[40] Aristoss. apud Ateneo, XIV, 632a.

[41] M. Napoli, op. cit. p. 27 e sgg.

[42] Livio I, 18; XL, 29.

[43] Cicerone, De rep., II, 15.