Papanice dalle origini al Seicento

Papanice (KR).

Nel Medioevo

Dominante la valle Lamposa, sul sostrato di uno dei tanti demi, o borghi agricoli, della Crotone magnogreca, riprese nuova vita per ripopolamento avvenuto in età bizantina, Papa Nicifero, probabilmente, nome del personaggio ecclesiastico possessore del casale.[i]

Questo compare per la prima volta nella seconda metà dell’Undicesimo secolo, come risulta da un privilegio concesso dal conte Ruggero all’abate di Sant’Eufemia, con il quale quest’ultimo aveva concesso all’abbazia il casale di Apriliano. Nel 1240 l’imperatore Federico II confermava un atto, nel quale si affermava che Johannes, abbate del monastero benedettino di Santa Eufemia, aveva fatto l’anno prima con Matteo Marchafaba, funzionario della dogana imperiale “de secretis” e maestro dei questori in Calabria, su incarico di Federico II, la permuta del castrum e di metà della città di Nicastro, appartenente al monastero benedettino, con alcune terre demaniali, e cioè la terra di Nocera e la metà del “casalis Apriliani, cum omnibus militibus, burgensibus et cum omnibus pertinentiis appendicis, et iuribus suis”. Nella descrizione dei confini del casale di Apriliano verso mezzogiorno, si legge: “… la serra di Santa Margherita, la via di Santo Quaranta che va al casale di Papaniceforo sino al ponte Caccorichi e vallone di Parmali …”.[ii]

“Papaniceforo”, o “Papanichiforum”, all’inizio del periodo angioino è tra le terre appartenenti al giustizierato di Val di Crati e Terra Giordana.[iii] Il popoloso casale,[iv] che conserva il rito greco, nei primi anni del Trecento è sede di un protopapa soggetto al vescovo di Crotone.[v] Parte integrante, fin dal periodo normanno-svevo, del demanio regio di Crotone, esso è concesso in feudo da Roberto d’Angiò a Jacchetto de la Petina, già signore di San Mauro de Caravà e di altre terre.[vi]

Mentre per il ripetersi di sterili annate i coloni di Papaniceforo rifiutano di pagare il terratico al feudatario, la perdita dei diritti civici, tra i quali quello di pascolo, e l’esazione di illeciti tributi, spingono i Crotonesi a ribellarsi, invadendo le terre e saccheggiando le proprietà del feudatario e dei suoi seguaci. La rivolta contro le continue privatizzazioni di terre, con il loro passaggio da demaniali a feudali, e la fame causata dall’imboscamento del grano, porteranno i Crotonesi durante la grave carestia del 1339, ad assaltare le case ed i magazzini dei feudatari e degli aristocratici, che sono cacciati assieme al capitano regio che li protegge. Datosi un governo democratico cittadino e riappropriatisi dei loro diritti, i Crotonesi oppongono una tenace resistenza, ma devono soccombere alle truppe del capitano, che è anche giustiziere di Calabria, il quale presa la città ribelle attua una feroce repressione[vii] ripristinando il potere dei feudatari.

La raccolta del grano presso Papanice (KR).

Durante il Quattrocento Papaniceforo fa dapprima parte delle terre in potere del marchese di Crotone Nicola Ruffo[viii] e poi di quelle appartenenti ad Antonio Centelles ed a sua moglie Errichetta Ruffo.[ix] Confiscata da Alfonso, assieme alle altre terre, dopo la ribellione del Centelles, le sue rendite sono concesse al feudatario Galasso di Tarsia.[x]

Dopo le stragi ed i saccheggi compiuti dalla soldataglia di Alfonso, quasi tutti gli abitati del Marchesato risultano distrutti e spopolati. Cutro, S. Giovanni Minagò, San Mauro de Caravà, S. Leone, Scandale e S. Stefano “non habeteno che su disfacti”; Lachani, Crepacore, Apriliano e Cromito, sono ridotti a feudi rustici. Le vicende belliche, l’espandersi della malaria nelle marine, la peste del 1484, l’insopportabile tassazione e la prepotenza dei feudatari, faranno sì che, alla fine del Quattrocento, molti abitati risultano definitivamente abbandonati.[xi]

Frattanto avevano cominciato a stanziarsi genti provenienti dall’isola di Negroponte[xii] e dall’Epiro, venute dapprima come truppe mercenarie durante il regno di Giovanna II,[xiii] e poi con Alfonso d’Aragona.[xiv] Le migrazioni di genti provenienti da levante continueranno anche durante il regno di Ferdinando[xv] e nei primi decenni del Viceregno. Secondo il Vaccaro, Papaniceforo ed Apriglianello furono concessi nel 1447 da re Alfonso a Pietro Sanchez de Oriola, il quale li vendette nel 1470 a Venceslao Campitelli per 5330 ducati.[xvi]

Particolare di una patena con iscrizioni in caratteri cirillici in uso nel rito greco-albanese (dalla chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Papanice, sec. XV-XVI).

I “greci di Papanice

In questo periodo il casale è spopolato; un nuovo ripopolamento avverrà negli ultimi anni del Quattrocento sul territorio demaniale di Valle Cortina; comprensorio di terre consistente in più gabelle che, con i pagliaratici, i censi di case e vigne, poste nella terra e territorio di Papanice,[xvii] andrà a far parte nel Cinquecento delle proprietà dei conti Carrafa di Santa Severina.[xviii]

All’inizio del Cinquecento il casale di Papanicefore è abitato da “greci”, utilizzati sia come manovalanza per riparare e rifare le fortificazioni di Crotone[xix] sia come bracciantato a buon prezzo nelle campagne. Gli abitanti del casale, che fa parte integrante del territorio di Crotone, godono dei privilegi e delle immunità concessi alla città di Crotone da Carlo V nel 1536 e, nello stesso tempo, devono contribuire alle spese ordinarie e straordinarie sopportate dalla città.[xx]

Nella numerazione dei “greci e schiaunj” del 1541 esso conta 45 fuochi,[xxi] poi la numerazione oscilla, anche nello stesso anno, per il continuo spostamento di alcune famiglie; infatti, negli anni 1564/1565 il casale è tassato per 42 fuochi, poi per 38, quindi per 33, ed infine per 43. Successivamente per nuove immigrazioni, il casale aumenta considerevolmente la sua popolazione, tanto da essere tassato per 80 fuochi nel 1578, e per ben 234 fuochi nel 1595.[xxii]

Durante i lavori di cotruzione delle nuove fortificazioni di Crotone, l’università del casale e per essa, il sindaco ed i rappresentanti della comunità,[xxiii] si impegnano a consegnare, dapprima frasche, calce e pietra, nella quantità, nei tempi e modi stabiliti e, successivamente, un tributo annuo di ducati trenta.[xxiv] Numerosi sono gli abitanti del casale che si spostano a Crotone per lavorare come semplici manipoli.[xxv] Lo stesso fenomeno si verifica nella seconda metà del Cinquecento, quando è costruito il nuovo baluardo del castello di Crotone, e si riparano le mura della città dalla parte della Capperrina. Allora Papanicefore dovrà fornire un carro per portare la legna dai boschi alla calcare e la pietra per la fabbrica.[xxvi]

Particolare di una patena con iscrizioni in caratteri cirillici in uso nel rito greco-albanese (dalla chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Papanice, sec. XV-XVI).

Il consolidarsi di un insediamento omogeneo e popoloso, costituito da genti straniere, con propria lingua, religione, usi, costumi e tradizioni, e con un costante contatto e riferimento, specie religioso, con la patria originaria, non tarderà a scatenare una vasta reazione da parte della inquisizione ecclesiastica: “La vicinità c’ha questa città di Cotrone con il Levante è stata causa che un casale dei greci si e appestato per venirne continuamente preti greci levantini … (essi) hanno infettato tutto questo casale tanto alli greci, come alli latini, con molte heresie”.[xxvii]

La comunità greca continuò a celebrare e vivere secondo i propri riti e usi, mentre gli aspiranti al sacerdozio, o si recavano in Oriente, o erano consacrati da vescovi greci itineranti. Questo stato di cose, dapprima tollerato, dopo il Concilio di Trento fu perseguito. Il cardinale Giulio Antonio Santoro, arcivescovo di Santa Severina (1566-1572), li dichiarò eretici e scismatici,[xxviii] e li fece perseguitare. Egli si adoperò alla amministrazione e poi, alla soppressione del vicino vescovato greco di S. Leone,[xxix] annettendo i beni nel 1571 alla sua mensa arcivescovile, e alla formazione di un clero greco, obbediente a Roma, da contrapporre a quello dipendente dal patriarca di Costantinopoli, cosa che avvenne con la fondazione di un collegio greco a Roma,[xxx] collegio la cui prima pietra fu posta nel 1580 nella chiesa di S. Atanasio. Il Santoro, inoltre, incitò il vescovo di Crotone a non ricevere vescovi scismatici ed, eventualmente, se ne capitassero, di incarcerarli.[xxxi]

Arme dell’arcivescovo Giulio Antonio Santoro, detto “il Cardinale di Santa Severina”, 1566-1573 (Ughelli F., Italia Sacra, VIII, 486).

Nonostante l’accusa di eresia e di magaria, i processi e le persecuzioni, il rito greco è ancora vitale alla fine del Cinquecento. Il vescovo di Crotone Giovanni Lopez così si esprime: “… c’è la chiesa greca di S. Nicola nella quale ci sono chierici greci che vivono secondo il costume orientale. In questa chiesa una volta non c’era la fonte dell’acqua santa, il vescovo stabilì che fosse usata come nella chiesa latina e, poiché l’attuale parroco greco non capisce la lingua comune, ordinò che il sacramento della penitenza fosse amministrato dal parroco della chiesa latina, finchè non si fosse provveduto con un altro prete greco idoneo.”

Il vescovo stabilì, inoltre, di non usare i libri ed il messale antico, ma di adoperare quelli nuovi stampati nella Curia Romana; e non usando nel loro rito la formula che “a Patre Filioque procedit”, comandò severamente che fosse aggiunta, e che così si cantasse, si predicasse, e si educassero i bambini. Ordinò quindi nella visita generale, che ogni anno si rinnovassero gli oli santi, ed essi fossero presi nella chiesa cattedrale, e che ogni cosa fosse confermata dal vescovo secondo l’uso della Santa Chiesa Romana, e poiché presso questi greci vigeva l’uso di ungere i malati dopo la morte, con l’olio della lucerna che è accesa nella chiesa, né usavano la sacra unzione, il Reverendissimo vescovo impose che i malati fossero unti secondo l’uso dei latini e dal prete latino, finché non si fosse trovato un prete greco che avesse amministrato questo sacramento, anche se, dopo anni di censure, imposizioni e persecuzioni il vescovo di Crotone doveva ammettere di avere dubbi “che si debba tollerare in questo modo i Greci, e consacrare a loro nuovi sacerdoti”, mentre sarebbe stata cosa migliore sopprimere tale chiesa ed il culto.[xxxii]

Papanice (KR), chiesa dei SS. Pietro e Paolo, particolare del basamento della fonte battesimale.

Nel Seicento

Il casale composto da circa venticinque miserevoli tuguri, all’inizio del Seicento ha una popolazione oscillante tra i 1000 ed i 2000 abitanti, e vi sono due parrocchie, anzi due matrici, una dei Latini e l’altra dei Greci.[xxxiii] Oltre alla chiesa parrocchiale greca di S. Nicola, vi è infatti, quella latina dei SS. Pietro e Paolo, amministrata da un arciprete, e poi ci sono le confraternite del SS. Sacramento e della SS. Annunciazione, e molte cappelle di iuspatronato laico con molti chierici. A Papanicefore vi erano inoltre due cappelle di rito greco e nel 1607, durante il vescovato di Tommaso de Monti, per contrastare il rito greco, si insediano gli Agostiniani, che fondano il convento della SS. Annunciazione,[xxxiv] ottenendo dall’università del casale e dai confratelli dell’Annunciazione, la chiesa della confraternita con alcune entrate ed alcuni lasciti testamentari da abitanti del luogo.[xxxv]

Durante il vescovato di Carlo Catalano (1610-1622) il rito greco è ormai costretto alla clandestinità per le persecuzioni,[xxxvi] ma la chiesa di S. Nicola, pur formalmente gestita in “latinus more latino”,[xxxvii] rimane il simbolo di riferimento religioso e culturale più importante della etnia, anche se il vescovo Niceforo Melisseno Comneno può affermare che, a Papaniceforo, dove abitano promiscuamente greci e latini, oggi tutti osservano il rito latino.[xxxviii]

Nel frattempo gli abitanti del casale per non essere infeudati, pagano nel 1638 diecimila ducati alla Regia Cassa Militare, ottenendo di rimanere in regio demanio e l’autonomia da Crotone.[xxxix] Papaniceforo, non più casale di Crotone, ma terra regia governata da un capitano, o da un governatore mandato dal viceré, può così avere privilegi e prerogative riconosciuti da Filippo IV, ed una distinta amministrazione con propri sindaci ed eletti,[xl] con un proprio demanio comunale.[xli]

Tutto questo avviene in un momento di forti tassazioni per mantenere i soldati che presidiano la marina dai Turcheschi, e per sostenere la politica imperiale spagnola,[xlii] e mentre coloni e giornatari, stretti dal cappio dell’usura e dalle gravi imposizioni fiscali, non potendo farvi fronte per il succedersi delle cattive annate, devono svendere i pochi averi, perdendo ogni capacità di contrastare il potere dei terrieri. Il passaggio da casale a terra regia, reso possibile dal pagamento di una forte somma da parte delle famiglie benestanti, evidenzia la crescita in questi primi decenni del Seicento, di un gruppo locale di proprietari terrieri molto attivo ed intraprendente, che si distingue nettamente dalla comunità, impadronendosi e gestendo in proprio gli istituti economici e politici. Ne fanno parte alcuni discendenti delle famiglie originarie: Jo. Andrea Sculco ed il figlio Jo. Petro, Jo. Hieronimo e Jo. Petro Raimundo, Hieronimo Grisafo di Andrea ed il figlio Jo. Petro, Jo. Gregorio Coco e altri.[xliii]

Papanice (KR) chiesa dei SS. Pietro e Paolo.

L’allargamento delle proprietà è facilitato dalla sfavorevole congiuntura economica: lo spopolamento causato dalle calamità, determina l’inselvatichirsi dei terreni e rese agricole basse ed incerte, facilitando la vendita di terre da parte dei nobili crotonesi a prezzi bassi.[xliv] L’accumulazione è favorita dal fallimento dei coloni a causa dei contratti esosi. Dalla lunga crisi che colpisce duramente i coloni ed i braccianti, ma in parte anche la proprietà parassitaria ed assenteista, emergono alcuni piccoli proprietari del luogo, che non disdegnano l’usura, il contrabbando e l’evasione fiscale.

Essi (Gio. Dom.co Coco, Nicolò Dirante, Nicola Peta, L. Franco, Gio. Fran.co Carnilivari, Marco Franco, Batt.a Quercia, Gio. Saranasi, Luca Borrello), prendono in fitto terreni vicini da enti ecclesiastici, aristocratici e feudatari (Giuseppe Presterà di Crotone, Andrea Pagano di Cutro, il Beneficio di D. Giuseppe Juzzolino e di D. Gio. Dom.co Venturi di Crotone, la marchesa di Licodia, Fabritio Oliverio di Cutro, i Gesuiti di Catanzaro, Gio. Vittorio Ganguzza di Cutro), e con massari e garzoni li coltivano in proprio ricavandoci grano, orzo, fave e favette. Su tutti spiccano le figure di Gio. Pietro Sculco, procuratore del principe di Strongoli ed amministratore del feudo di Apriglianello,[xlv] ed il fratello Gio. Francesco Sculco.

Papanice (KR), arme della famiglia Sculco.

Frattanto il territorio di Cortina, dentro il quale era stata edificata la terra di Papanice, assieme alla città di Santa Severina ed ad altri feudi, dai Carrafa di Nocera era passato ai Ruffo di Scilla. Francesco Maria Ruffo, figlio ed erede di Giovanna Ruffo, fallisce per debiti ed i suoi beni, messi all’asta nel 1654, sono acquistati dagli Sculco.[xlvi] Tra i beni entrati in possesso degli Sculco, oltre a Santa Severina, vi erano: la metà delle terre di Cortina e Vituso, i pagliaratici, i censi di vigne, ecc.

L’acquisto di Cortina e del jus pagliaratico di Papanice accrescerà il potere ed il prestigio degli Sculco sulla comunità. Lo Jus pagliaratico, che gli abitanti pagavano ogni anno al proprietario di Cortina, ricordava la loro venuta su quella nuova terra. Lasciata la terra natia ed arrivati a Crotone, i profughi avevano ottenuto il permesso di stanziarsi su quel colle, ma avevano dovuto impegnarsi a pagare l’affitto del suolo sul quale costruirono le loro pagliara.

Papaniceforo, come altri abitati “albanesi”,[xlvii] di recente fondati “ex novo” dai feudatari sui loro possedimenti per coltivarli, si lamenterà spesso per la mancanza di terre e per i pesanti obblighi, legati all’origine, e gli abitanti saranno particolarmente gravati da censi, fitti e prestazioni, pagati per la concessione di piccoli terreni su cui coltivare per alimentarsi.

Paesaggio presso Papanice (KR).

Il grano degli Sculco

Jo. Petro Sculco di Papanicefore, figlio di Jo. Andrea,[xlviii] fu esecutore testamentario di Aloysio Biscario, un mercante granario, amministratore del regio fondaco e dogana di Crotone.[xlix] Procuratore del principe di Strongoli ed amministratore del feudo di Apriglianello, Jo. Petro, tramite il figlio Carlo, residente a Napoli, colloca sul mercato di quella città, a buon prezzo, specie durante la grave carestia ed epidemia della annata 1629/1630, la grande quantità di grano, che gli versano i coloni di Papanice, che hanno in fitto le gabelle del feudo, e che egli ammassa nei magazzini di Crotone.[l]

Gio. Pietro fu padre di Carlo e di Gio. Andrea. Carlo nel 1654, comprò il feudo di Santa Severina e morì di peste il 3 agosto 1656. Gli successe il fratello Gio. Andrea che, nel 1660, ebbe il titolo di Duca di Santa Severina ed oltre a quella città, alla terra di S. Mauro ed al casale di Scandale, egli ebbe “un comprensorio di terre consistenti in più gabelle dette Cortina, coli pagliaratici e con censi di case e vigne poste nella e territorio di Papanice, l’officio regio di guardiano di porto, che tiene il regio fundaco della città di Cotrone, con l’esattione di quattro cavalli per ogni tt.o che s’imbarca et si spedisce in detto regio fundaco e il territorio delli Vitusi”.[li] A Gio. Andrea successe per donazione avvenuta nel 1674, il figlio primogenito Domenico, che morì senza figli maschi.

Gio. Francesco Sculco, fratello di Gio. Pietro, comprò nel 1634 dalla Regia Corte per ducati 450, l’ufficio di guardiano del porto di Crotone,[lii] base delle sue future fortune e speculazioni.[liii] Sposò Dianora Raymondi ed ebbe come figli Bernardo, che nel 1667 comprò il feudo di Monte Spinello per 9000 ducati, Stefano, vescovo di Gerace,[liv] e Giuseppe. A Bernardo, morto nel 1700, successe il figlio Francesco che morì senza figli.[lv] Giuseppe sposò nel 1657 Antonia Maria de Paz de Palomeque, vedova di Francesco Rocca, ed ebbe da lei tre figli: Francesco Antonio, Dianora e Tommaso Domenico.

Quest’ultimo, nato pochi mesi prima della morte del padre, avvenuta nell’agosto del 1664, si spostò a Crotone. Ma sia per le proprietà che per i diritti di cui godeva quanto anche come curatore degli interessi dei feudatari di Apriglianello, (sposerà la sorella di Fabritio Lucifero, marchese di Apriglianello) la sua figura dominerà per molto tempo il paese, tanto da identificarne gli abitanti come suoi docili vassalli.[lvi] Durante il periodo che gli Sculco ebbero il ducato di Santa Severina, Gio. Francesco Sculco, padre di Giuseppe, possedeva la gabella “la Marina di Sculco” in territorio di Crotone ed assieme al figlio, delle gabelle nelle vicinanze di Papanice.[lvii]

Tommaso Domenico Sculco, figlio di Giuseppe, cresciuto sotto la tutela dello zio Bernardo, ereditò alcuni beni dal nonno Gio. Francesco. Alla fine del Seicento è proprietario di Cortina di Papanici, del jus pagliaratico e delle terre di Mutrò.[lviii]

Arme della famiglia Sculco conservata nel Museo di Arte Sacra di Santa Severina (KR).

Le sette famiglie

È con la conquistata autonomia amministrativa che le famiglie dominanti del luogo elaborano l’origine etnocentrica di Papanice, per dare fondamento e legittimità al loro potere politico. Papaniceforo, detta volgarmente Papanici, unico casale demaniale abitato prevalentemente da Albanesi in Calabria, con un governo cittadino, quindi non soggetto alla giurisdizione ed al ricatto feudale, è stata fondato da “Greci” provenienti dal Peloponneso, i quali per ricordare il nome del parroco venuto con loro, così hanno voluto chiamarlo.[lix]

Sette famiglie nobili (Raymondi, Coco, Grisafo, Peta, Guarany, Franco e Sculco) partite da Negroponte con vassalli e servi, sfuggendo al giogo turco, approdarono a Crotone e ottennero di potere stanziarsi su di un colle nel territorio demaniale di Cortina, dando così vita al casale.[lx]

Esso rimase sotto la giurisdizione regia, tranne forse un breve periodo in cui subì quella baronale di Domenico Sculco (1674-1675).[lxi] Amministrata dai proprietari terrieri che hanno messo il capitale per il riscatto, continuamente indebitata verso il fisco, l’università di Papanice deve anche difendersi dai feudatari vicini, e dai possidenti crotonesi che attentano all’autonomia ed ai diritti. In questi anni l’università di Papanice e quella di Crotone sono in controversia col barone di Isola per il diritto di pascolo sul Bosco dell’Isola, diritto che gli abitanti godevano anticamente come facenti parte della città di Crotone, e che conservarono al momento che il casale era divenuto regio.[lxii]

Sigillo dell’arciprete di Papanice Giulio Franco (1596).

L’abbandono del rito greco

Durante il Seicento, a causa delle persecuzioni dei vescovi e dei parroci, quasi tutte le comunità “greche”, pur conservando la lingua originaria, sono costrette a celebrare secondo il rito latino. L’abbandono del rito greco avviene dapprima nei paesi dove vivono promiscuamente “greci” e “latini”. Nel casale di Belvedere in diocesi di Cerenzia, ripopolato da Albanesi, venuti al tempo di Ferdinando I d’Aragona (1458–1494), il rito greco non è più apertamente praticato fin dall’inizio del Seicento.[lxiii] Similmente accade per il “pagus” di Marcedusa in diocesi di Santa Severina; qui gli abitanti conservano la lingua ma non più il rito.[lxiv] Il mutamento è più lento nel casale di Andali, o Villa Aragona,[lxv] dove il vescovo di Belcastro, Giovanni Emblaviti (1688-1722), asporta il messale ed il breviario di “lingua albanese”, per portarli alla Biblioteca Barberina.[lxvi]

Resistono i casali di Carfizzi, S. Nicola dell’Alto e S. Giovanni di Palagorio. Soggetti al vescovo di Umbriatico ed etnicamente omogenei. Tutti e tre conservano il rito greco fino alla metà del Seicento.[lxvii] Pochi anni dopo, a causa delle persecuzioni del vescovo e dei parroci, Carfizzi e S. Giovanni di Palagorio[lxviii] passano al rito latino. A S. Nicola dell’Alto, casale popolato da Albanesi venuti dall’Epiro nel 1480,[lxix] il rito greco resiste ancora. Dopo dure persecuzioni il vescovo di Umbriatico, il catanzarese Vitaliano Marescano (1661-1667) può affermare che quasi tutta la popolazione lo ha dismesso per il latino.[lxx]

A Papanice e nel vicino casale di S. Giovanni Minagò, la lingua è mantenuta ma alla metà del Seicento, gli abitanti, per la maggior parte “greci”, sono ormai costretti a praticare il rito latino; conservano tuttavia ancora un proprio cappellano e ricevono i sacramenti nella loro chiesa di S. Nicola de’ Grecis, nella quale sono conservati il sacramento della SS. Eucarestia, gli oli santi e la fonte battesimale.[lxxi] La chiesa si presenta ben conservata, con sacrestia e campanile munito di due campane. Essa è fornita di ogni cosa necessaria al culto (paramenti sacri, mobili, sacri vasi d’argento, ecc.) e gode di una rendita annua di circa 30 tomoli di frumento, proveniente dalle decime e da altre entrate. Oltre al cappellano ci sono due preti, otto chierici ed un serviente detto volgarmente “diacono selvatico”. Al suo interno vi è l’altare maggiore ed alcune cappelle e alcuni oratori tra i quali la cappella di S. Maria de Monte Carmelo con la confraternita omonima.[lxxii] Secondo il vescovo di Crotone Ioannes Pastor dipendono da questa chiesa solo circa 160 anime. Ad essa sono soggette altre quattro chiese; tre poste nel paese ed un’altra fuori di esso (ad Apriglianello) distante circa mille passi.

Sempre secondo il vescovo, la matrice intitolata ai SS. Pietro e Paolo serve invece circa 1200 anime. Le rendite di questa chiesa gestita dall’arciprete del paese ascendono a circa 60 ducati. La chiesa che ha cura dei latini, ha una sacrestia e ogni cosa necessaria al culto. Oltre all’arciprete vi sono due altri preti, nove chierici e tre servienti. Al suo interno ci sono cinque cappelle di iuspatronato laico, una delle quali è intitolata al SS.mo Rosario, e vi ha sede la confraternita omonima. Essa ha la fonte battesimale, il campanile con due campane ed un pulpito dal quale, durante la Quaresima e l’Avvento, parlano i predicatori, scelti dal vescovo e pagati per antichissima consuetudine dall’università di Papanice.[lxxiii]

Papanice (KR), la chiesa dei SS. Pietro e Paolo.

Durante il vescovato di Geronimo Carafa, nella “terricciola” di Papanice vi sono due “arcipretati”, “uno della chiesa del Santissimo detta de’ latini et il titolo puro della chiesa è di S. Pietro e Paolo che è matrice di detta terra; l’altro arcipretato è di Santo Nicola delli Greci che da molti anni in qua vivono sotto il rito latino, vi sono sacerdoti in detta terra numero otto inclusovi i due arcipreti e clerici numero nove. I Santissimi si ministrano in tutte le due chiese arcipretali cum cura animarum et ogni arciprete amministra i santissimi a’ sudditi della sua chiesa. Vi sono anche altri oratorij o chiese dove si celebra ogni giorno di festa et alle volte giorni della settimana, e sono: Il Santissimo Salvatore, Santo Rocco, La Pietà e la S.ma Concettione. Nelle due chiese arcipretali si canta ogni festa la messa, et i sacerdoti e clerici sono devisi la metà per chiesa; vi s’officia ancora la settimana Santa tutta, e vi si cantano le litanie nella chiesa di S. Pietro e Paolo ditta col Santissimo, il mercordì sera nella chiesa arcipretale di S. Nicola de Greci, e venerdì sera nella cappella della Pietà. V’è il suo vicario foranio, che gli governa in Spiritibus. Vi sono in detta terra dodici clerici selvaggi quattro assignati per ciasceduna chiesa Arcipretale et una per ciascheduna cappella sopra nominata che sono come sachristani e servi, et uno com.rio per l’osservanza delle festi. Oltre di ciò è in detta terra un convento di Padri Augustiniani sotto il titolo della SS.ma Nuntiata. Vi saranno in detta terra anime di comunione sei cento e che si comunicano per mancamento d’età tre cento vinti.”[lxxiv]

Papanice (KR), la chiesa della Pietà.

Un misero abitato

L’estrema povertà e la grande miseria sono i tratti caratteristici dell’abitato, dove la popolazione affamata e di continuo decimata dalle pestilenze, vive in tuguri e pagliai che attorniano la piazza pubblica dove è situata la casa degli Sculco, abitata da Gio. Francesco, dal figlio Giuseppe e dalla nuora Antonia Maria de Paz con i suoi figli.[lxxv]

Si ripetevano le condizioni di spopolamento e di miseria già verificatesi nella seconda metà del Quattrocento.[lxxvi] Tassata per 234 fuochi nel 1648, dopo la peste del 1655/1656 ed il ripetersi delle carestie, nella nuova numerazione del 1669 la popolazione è scesa a soli 155 fuochi.[lxxvii] Mentre gli ultimi superstiti abbandonano definitivamente i villaggi vicini di Apriglianello, S. Giovanni Minagò, Massanova e S. Pietro dell’Isola,[lxxviii] Papanice riesce per la sua posizione demaniale, ad arginare momentaneamente con i nuovi immigrati, per lo più “greci”, il pericolo dell’estinzione, ma non cessano le epidemie e l’impoverimento. La terra che nel 1670 era stata data per abitata da 1200 abitanti, a causa della carestia per il fallimento dei raccolti del 1670/1671 e del 1671/1672,[lxxix] per l’epidemia che imperversa dal febbraio 1672 al luglio 1673, e per i violenti scontri tra le famiglie, in lotta per il potere, nel 1675 ha solo 694 abitanti.[lxxx] Il predominio degli Sculco e la crisi economica, porteranno Papanice quasi all’estinzione, contando infatti alla fine del Seicento meno di quattrocento abitanti.[lxxxi]

Poiché l’università è gravemente indebitata con la Regia Corte e con i regi consegnatari, ed è da questi continuamente vessata, alcuni benestanti nel 1679, decidono di obbligarsi con il procuratore del Collegio Imperiale di Madrid, facendo da garanti per ottenere in prestito 200 ducati. Nel frattempo l’università si impegna ad aumentare di un terzo le tasse sugli abitanti da esigersi alla prossima raccolta, in modo da saldare il procuratore con queste nuove entrate e sciogliere dall’obbligo i creditori.[lxxxii]

L’anno dopo la siccità distrugge il raccolto riducendo la popolazione alla fame.[lxxxiii] Sempre in questi anni il sindaco dei nobili di Crotone, Giuseppe Suriano, approfittando della morte del governatore, cerca di impadronirsi della carica, ma gli abitanti ricorrono al re, facendo valere i diritti acquisiti con la demanialità.[lxxxiv]

Continua negli ultimi anni del Seicento il degrado della terra “olim oppidum non vulgare, nunc miserabile”, in via di spopolamento,[lxxxv] continuamente indebitata verso la Regia Corte ed il Collegio Imperiale di Madrid, e costretta a ricorrere all’aumento delle tasse, che vanno a gravare sempre di più i braccianti, i coloni ed i massari.[lxxxvi] Il continuo fallimento dei raccolti e l’indebitamento dell’università verso gli usurai, determinano una tassazione sempre più pesante,[lxxxvii] così numerose famiglie cominciano a lasciare il casale per altre terre più ospitali, soprattutto per Cutro, feudo degli illuminati Filomarino,[lxxxviii] e Crotone, città in espansione commerciale.[lxxxix]

Papanice (KR), altare maggiore della chiesa dei SS. Pietro e Paolo.

Nonostante il tentativo di sopprimere ogni memoria storica e di seppellire col pretesto dell’eresia, ogni riferimento culturale comunitario, la differenziazione etnica e religiosa sopravvive ancora alla fine del Seicento. “La terra predetta, che prima era sotto il rito greco, ora è divisa in due parrocchie, una segue il rito dei latini, l’altra dei Greci, sebbene in essa non ci siano più preti greci ma solamente latini che celebrano seguendo il rito latino”.[xc]

Il vescovo Carrafa prendendo a pretesto la diminuzione delle rendite, cerca di sopprimere la chiesa di S. Nicola dei Greci e poiché al momento manca di arciprete, la assoggetta ad un sacerdote confessore che ha il compito di vigilare. Egli inoltre pone sotto la sua diretta giurisdizione il convento agostiniano.[xci] Dopo poco le due chiese parrocchiali, mancanti entrambe di arciprete, sono amministrate da uno stesso economo.[xcii]

Il vescovo Marco Rama nel maggio 1693 visita il casale, e vi rinviene ancora delle irregolarità religiose.[xciii] Il gruppo originario “albanese”, forte della autonomia amministrativa, mantiene gli usi ed i costumi, resi saldi nel tempo dai forti vincoli familiari e dalla comune religione, che ha nella chiesa di S. Nicola il punto religioso e culturale fondamentale di riferimento e di unione comunitaria.[xciv]

Dopo circa venti anni dalla morte dell’ultimo arciprete della chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Natale d’Elia, nel giugno 1700 finalmente è nominato il nuovo, Marco Antonio Iannone.[xcv] Dopo poco la chiesa parrocchiale di S. Nicola dei Greci della terra regia di Papanicefore è curata da un economo, che è l’arciprete della chiesa matrice dei SS. Apostoli Pietro e Paolo dei Latini.[xcvi]

Con la crescita della popolazione e la breve rinascita economica dell’inizio del Settecento, il casale subisce alcune trasformazioni: numerose casette di creta sono ricostruite di “fabbrica e legname”.[xcvii] Frattanto Tomaso Domenico Sculco “naturale di detta terra e padrone del territorio di Cortina e delli casalinaggi”, tenta di comprarla e farla suo feudo. Costretti i cittadini con minacce e debiti “non ostante la ripugnanza d’alcuni in condiscendere in ciò”, riesce ad ottenere il decreto a favore dalla Regia Camera, ma mentre sta per portare a termine l’operazione, il regno passa sotto la dominazione austriaca. Della nuova situazione ne traggono favore alcuni cittadini, che chiamano in aiuto il barone di Montespinello, Francesco Sculco, il quale si rende disponibile ad acquistare la terra. Il contrasto tra i due Sculco divide il paese che, nella nuova situazione politica, riesce a sfuggire all’infeudazione,[xcviii] ma non alla violenza delle faide e degli scontri, con numerose uccisioni che hanno partecipi anche i chierici protetti dalla immunità e dal potere intimidatorio delle casate.[xcix]

Sigillo di Papanice con l’effige di San Nicola Vescovo e la scritta: “S. NICOLAUS PROTECTOR TERRE PAPANICI”.

Tomaso Domenico Sculco, proprietario di terre[c] e armenti, fitta ai pecorai cosentini il territorio di Cortina con le sue pecore e fa pascolare i numerosi buoi, di cui è proprietario, sui corsi. Concede ai coloni terreni e buoi per ararli, anticipa grano e denaro per seminarli e mieterli, e si fa portare nei suoi magazzini il raccolto che poi colloca a Napoli. Da lui dipende la vita degli abitanti di Papanice. Senza il suo consenso non si possono fittare e coltivare i suoi vasti terreni, né quelli dei terrieri crotonesi. Nei suoi magazzini si ammassa al raccolto la gran parte del grano prodotto dai coloni e dai massari, per gli obblighi assunti prima ancora di seminare.[ci]

Durante il vescovato di Michele Guardia (1709-1718) Papanice conserva le due matrici: quella di rito greco è mantenuta dalle famiglie di origine greca, e quella di rito latino, rovinata nella copertura. Entrambe godono di scarse rendite. Vi sono inoltre altre chiese: quella della congregazione della Concezione, istituita nel 1693, e quelle della Pietà e di S. Rocco. Ormai diruti ed abbandonati, sono il convento agostiniano dell’Annunziata e la chiesa del SS. Salvatore.[cii]

Dopo una breve ripresa riprende rapido il declino. Nel 1711 è ridotto a poco più di trecento abitanti. A causa della povertà, delle tasse e dei conflitti causati per la continua privatizzazione di terre, con la soppressione degli usi civici, attuata da Tomaso Domenico Sculco e da Fabrizio Lucifero, i quali si servono del potere intimidatorio e delle costrizioni economiche per far testimoniare falsamente gli abitanti, ben quattro casate sono costrette a trasferirsi altrove.[ciii] Lo stato di estremo disagio si prolunga con la grave carestia del biennio 1719-1720, e con l’aumento delle tasse per la guerra di Sicilia, e per il mantenimento delle truppe di passaggio.[civ]

Dalla visita di Anselmo La Pena del 1722 sappiamo che, l’anno precedente, il vescovo si era recato nel casale, che ancora aveva due parrocchie e tre confraternite, ma non più il monastero agostiniano, per riformare e stabilire parecchie cose. In esso vivevano solo sacerdoti forestieri, mancando completamente il clero locale, tale fatto aveva generato diffidenza tra clero e popolazione. Il vescovo cercò di superare questa situazione, portando due fanciulli di Papanice a studiare nel seminario di Crotone, per prepararli a svolgere il servizio nel loro casale.[cv]

Papanice (KR), particolare dell’arco di una porta.

Sempre in questi anni avviene la definitiva rimozione di ogni riferimento culturale e religioso dell’origine “greca” del paese. Così il vescovo Gaetano Costa nel 1725 si esprime: “… licet una ex praefatis Papanicen. Parochiis, vulgo Santo Nicola de Greci, non per hoc, saltem ab immemorabili, et ut scire possimus, seu memoriae viventium venit, praedictum Ritum, graecosque homines illic extetisse, aut abitasse scimus”.[cvi]

Il vescovo Domenico Zicari (1753-1757), poiché l’arciprete di Papanice non celebrava la messa per il popolo nelle feste per mancanza di congrua, e le parrocchiali erano malridotte per le rendite insufficienti, le unì. Ciò che sembrava un espediente economico per assicurare la continuità religiosa, si tramutò nella soppressione del titolo parrocchiale della chiesa di S. Nicola, che fu ridotta a chiesa semplice.[cvii] Nel paese rimase la sola parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo, curata da un semplice economo che ha anche la cura delle trecentocinquanta anime del “semidirutus pagus”.[cviii]

La decadenza di Papaniceforo è determinata, oltre che dallo spostamento delle famiglie più facoltose a Crotone ed a Cutro, anche dal netto distacco e negazione della loro origine, motivati dall’interesse economico e carrieristico. Tra coloro che maggiormente si applicarono nella rimozione ed occultamento della cultura originaria, primeggiano gli Sculco.

Già alla fine del Seicento Tomaso Domenico Sculco si era accasato a Crotone sposandovi Vittoria Lucifero, sorella del poi marchese di Apriglianello. In società col cognato aveva fatto fortuna ed ampliato gli averi. Aveva costruito il palazzo di famiglia sulle case che erano state di Giuseppe Squillace, presso le mura delle Fontanelle, in parrocchia di S. Pietro, ed un bellissimo casino in posizione ridente e salubre entro la tenuta di Jannello, al cui ingresso vi era questa iscrizione: “Questi deliziosissimi luoghi venghiamo spesso a visitarli per la bellezza dell’arie, delle acque e della posizione topografica. Casino splendidamente da Sculco edificato per sé ed i suoi amici nel 1711”.[cix]

Il figlio Carlo per ottenere il titolo di Cavaliere gerosolimitano cerca di nascondere le origini di famiglia,[cx] dichiarando che delle quattro famiglie dalle quali discende, tre erano originarie di Crotone ed una del regno di Spagna, ma vivente da oltre cento anni in quello di Napoli.[cxi] L’erede Francesco Antonio con l’arrivo dei Borboni riesce finalmente nel 1735 a far parte del sedile di San Dionigi.[cxii]

Note

[i] Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, p. 284. Lenormant F., La Magna Grecia, Vol. III, p. 161.

[ii] Fiore G., Della Calabria Illustrata vol. I, pp.122-123. Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1852, Tomo III, pp. 257-259.

[iii] Reg. Ang. XLVI (1276-1294), p. 237.

[iv] Nel 1276 è tassato per 25320 grana con un numero presunto di 2110 abitanti. Pardi G., I registri angioini e la popolazione calabrese del 1276, in Archivio storico per le provincie napoletane Ser. NS vol. 7 (1921) p. 40.

[v] Nel 1310: “Presbiter Petrus prothopapa de Papa Niciforo pro secunda decima versa tar. III.” Vendola D., Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Apulia-Lucania-Calabria, BAV 1970, p. 212. “In casali Papanichiforii” domnus Nicolaus versa tar. unum et gr. Decem. Russo F., Regesto, I, 339. Secondo il Martire nel 1322 era feudatario N. Lapetino. Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, p. 356.

[vi] Maone P., San Mauro Marchesato e le sue vicende attraverso i secoli, Mancuso Catanzaro, 1975, p. 82.

[vii] Maone P., San Mauro Marchesato, Catanzaro 1975, pp. 80-82; Reg. Ang. 236, f. 49 (1321); 282, f. 32 (1330); 326, f. 208 (1342). Capitano di Crotone e giustiziere di Calabria era Emanuele del Liesco, conte di Lauria. Fiore G., Della Calabria Illustrata, I, p. 45.

[viii] ASV, Reg. Vat. 355, f. 287.

[ix] “Terre Don Antonii et Domine Marchionisse eius uxoris … Papanichiforium tarenos viginti”. Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, Ed. F. Fiorentino, Napoli 1963, p. 277.

[x] “Le terre franche de fochi che foro de lo marchese de Cotrone che comincaro de mense decembris usque et per totum mensem ianuarii VIII indictionis per annos X … De Papanichifore f. II”. Pontieri E., La Calabria a metà del secolo XV e le rivolte di Antonio Centelles, Ed. F. Fiorentino, Napoli 1963, p. 278. “Le Gracie facte per la Regia Maestà sopra Segrecie et altri intrate de la Corte in lo ducato de Calabria … Galasso de Tarsia a de gratia li tenimenti de la Gana et Papanichiforo, valeno D. CXX”. Ibidem, p. 281.

[xi] Alla fine del Quattrocento non esistono più gli abitati di Cromito, Apriliano, Lachani, S. Stefano, S. Mauro de Carava, Crepacore, Scandale, ecc.. Fiore G., Della Calabria Illustrata, III, p. 464. Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, p. 284. Maone P., San Mauro Marchesato, Catanzaro 1975, p. 102, ASN, Ref. Quint. 207, ff. 79-122.

[xii] Secondo la tradizione sette famiglie nobili (Raymondi, Coco, Grisafo, Péeta, Guarany, Franco e Sculco) con vassalli e servi “per sfuggire al giogo turco , o per indole intraprendente” lasciarono l’isola di Negroponte e si stanziarono all’interno del territorio crotonese su un colle in località Cortina, Sculco N., Ricordi di avanzi di Cotrone, Cotrone 1905, 49.

[xiii] Giovanna II aveva concesso al milite Stematus Sculco alcuni beni feudali in territorio di Crotone. Il possesso fu riconfermato dalla regina allo Sculco nel 1418 contro le pretese di Antonellus Protospatarius. Malevitava, seu Crotonen. praetensae admissionis ad habitum, Mainardi 1729, p. 33.

[xiv] Per domare la rivolta delo Centelles Alfonso si servì di truppe mercenarie comandate da Demetrio Reres, al quale fu conferito anche il titolo di governatore di Calabria. Il re domata la rivolta, favorì lo stanziamento di genti albanesi nelle campagne per minacciare da vicino con la loro presenza le città ribelli. Rodotà P., Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, III, pp. 52-53.

[xv] Geronimo Sanseverino, principe di Bisignano, marito di Irene Castriota ripopolò i suoi numerosi feudi con popolazioni albanesi, che dopo la caduta di Croia (1478) fuggivano dai Turchi. Il ripopolamento nella zona del Crotonese, secondo alcune testimonianze, avvenne dopo il 1480, Dito O., La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria, 1989, p. 243. ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1684.

[xvi] Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, p. 356.

[xvii] ASCZ, Busta 659, anno 1717, ff. 26-28.

[xviii] Mazzoleni J., Fonti per la storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734) esistenti nell’Archivio di Stato di Napoli, Edisud 1968, p. 249.

[xix] Nel 1516 l’università di Crotone manda un corriere nel casale “ad commandar li greci de venir con li carri et bovi ad carryar de la petra per costruire uno muro roynato deli rebellini de fronte la porta de la cita”. ASN, Erario di Cotrone, Fs. 532/10, f. 13.

[xx] Tra i capitoli e privilegi concessi nel 1536 alla città di Crotone da Carlo V vi era: “Item la cita predicta suplica V. Maestà se digne concederli che li casali de essa siano tenuti pro rata contribuire ad tucte li spese extraordinarie che occorrono in dicta cita, per causa che dicti casali et homini de epsa godeno in dicta cita privilegi et immunita et pasculano tutta comunitate et erbagi de epsa cita come veri citatini.” Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. II, pp. 398-399.

[xxi] Maone P., Gli Albanesi a Cotronei, in Historica n. 4, 1972.

[xxii] Nel 1521 Papa Nuciforia è tassata per 26 fuochi, nel 1545 per 42 fuochi, nel 1561 per 80, nel 1578 per 80 e nel 1595 per 234. Pedio T., Un foculario del regno di Napoli del 1521, in Studi Storici Meridionali n. 3 /1991, pp. 264-265. Valente G., Dizionario dei luoghi della Calabria, Frama Sud, Chiaravalle Centrale 1972, II, p. 712. ASN, Fondo Torri e Castelli, V. 35, ff. 18 -20. ASN, Tesorieri e Percettori, Vol. 4088 a. 1564-1565. Nella numerazione dei fuochi di Papanicefore del 1545, Demetrius Scurcus risulta assente in Lucera, nel 1561 Laurentius Scurcus, figlio di Demetrius, risultava assente in Cirò. Malevitava, seu Crotonen. praetensae admissionis ad habitum, Mainardi 1729, p. 21.

[xxiii] “XIII may 1542 – Alla università de papanichifora et per essa giorgi grisafo sindico et li sottoscripti: jannuzzo Simeoni, luciano bondili, todaro menza, antonino ramundo, m.o micheli blandino et cola tirioli de ditto casali et ciascheduno di loro in solidum tt.a 2000 de calce et r. 15 de petra conducta per la meta de junio la petra/ la calce per tutto lo ditto misi haveno receputo al presente D. 25 appar cautela in poter Jo. de marsica de cotrone.” ASN, Dip. Som. 196 n. 4 a 6, f. 16.

[xxiv] “XXVIIII Xbre 1542. La universita de lo casali de papanichifore et per essa antonino ramundo sindico have consignato in poter de jo. vele regio pagator et perceptor dela pecunia dela regoia fabrica ducati dece et sono per la tanda de natali in conto deli D. 30 deve dar ditta universita delo novo accordo fatto dela calce et petra.” ASN, Dip. Som. 196, n. 4 a 6, f. 245.

[xxv] Tra i manipoli ricordiamo Antonio Coro (de Choro), Dimitri, Laurezio, Joanne e Todaro Greco, Nardo Nibua, Matteo de Candia (Candioso), Stefano Liveri, Nardo de Mayida, Theodoro Veryi, Nardo de Corso de Cola, Cola Trifili, Joanne e Vassili Scurco, Joanne Frangopolo, Cola Campanaro, Bestiano de Martino, Joanne Domis, Cola Tropea, Cola Coroneo, Dimitri Marango, Margaritonno di Lanezo, Giorgio Procupa, Stefano Deary, Franco Condolo, Stamati Condospoli, Petro Spina.

[xxvi] ASN, Torri e Castelli Vol. 35, ff. 18-20.

[xxvii] Gli abitanti del casale “non credono vi sia Purgatorio; che gli giubilei et indulgentiae che manda il Sanctissimo Padre Nostro non si devono osservare, se non quelli che manda il Patriarca di Costantinopoli. Non temoni scomuniche, né censure, né sententie de la Chiesa; le festività non le osservano, ma fatigano comunamente. Quando hano battizzato li figlioli, li danno il S.mo Sacramento. Quando li Preti vogliono dire messa, poneno il pate ne la patena et lo vino nel calice, et mente lo portano dall’altare minore al maggiore, che non è fatta la consecratione, il popolo fa reverentia et l’adora, et dopo ch’è condotto nell’altare maggiore et consecrato, non se li fa segno di veneratione. L’estrema untione non la usano et l’oglio santo mai lo rinnovano. Gli preti, nella confessione dei laici, le compostano in denari, quando hanno magnato sarde la quaresima, o volpe , o testudine. Gli laici et Preti di ditto casale hanno fatto et fanno infinite usure a cento per cento. Ultimamente, è venuto un Prete levantino, chiamato Don Marco il quale è suspettosissimo …”. Lettera del vicario del vescovo di Crotone D. Gerolamo Valente al cardinale Giulio Antonio Santoro del 14.2.1572, in Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, pp. 362-363.

[xxviii] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 9.

[xxix] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 115.

[xxx] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, pp. 414-415.

[xxxi] Russo F., Regesto, IV, 389, 416.

[xxxii] Nel 1617 nella curia vescovile di Crotone sono processati una donna ed alcuni abitanti di Papanice con l’accusa di “magaria”, per aver tentato di guarire il barone di Isola Antonio Ricca, che è in lite col vescovo di Crotone. AVC, Cart. 115, anno 1617.– “Primo Interrogetur, che professione, et arte esercita essa constituta. – Interrogetur, si sa fare rimedii, o medicamenti per sanare, et guarire infermità. – Interrogetur, dove have habitato, et habita essa constituta et per quanto tempo. – Interrogetur, quanto tempo ha che non è confessata, et communicata, et con chi s’ha confessato, et communicato. – Interrogetur, in che loco, Città, o terra è stata essa constituta del mese di luglio ò d’agosto dell’anno pross.o passato 1616, ò d’altri tempi. – Interrogetur, che Inimici tiene essa constituta, et in che loco. – Interrogetur, si conosce D. Ant.o Ricca barone di lisola, et si sà che sia stato ammalato, et di che infermità. – Interrogetur, come passano li remedii fatti per essa constituta al d.o Barone per farlo sanare dalla magaria, che d.o havere che remedi li fece, et come conobbe essa deposante d.o Barone essere ammagato. – Interrogetur, quanti danari n’hebbe dallo Barone, et quante maye conobbe havere. – Interrogetur, si conosce Marco Carnelevare et Gio. Maria de Florio della Città di lisola, se sa che siano stati ammagati. – Interrogetur, si sa che il de Florio sia stato nel casale di Papanici. – Interrogetur, che infermità havea detto Marco. – Interrogetur, che libretti facea leggere essa constituta in casa di Minico Protopapa, dove lo detto Marco Carnelevari se ritrovava ammalato, et che cosa si contenea in detti libretti. – Interrogetur, perche causa essa deposante afferrao con li denti lo collo di detto Marco. – Interrogetur, come passano le parole publicate dapoi per essa deposante che detto Marco era ammagato, et che li erano state fatte due maye una per la robba, et per l’honore, et l’altra per levarli la vita. – Interrogetur, che polvere d’herbe fece donare à bevere al d.o Marco et per quante matine. – Interrogetur, si conosce a Gio. Maria de Florio, et si essa deposante ha tenuto robbe del detto, et che robbe sono state. – Interrogetur, che ligaccia li portò Pietro d’Aprigliano li mesi passati del d.o Gio. Maria, et à ch’effetto. – Interrogetur, che parole passorno fra essa et ger.mo Paradiso della Città di lisola et il consiglio cio è, che si detto Gio. Maria potesse stare mezo … alle bascione, et havesse usato con donne l’haveria sanato. – Interrogetur come conosce essa deposante nelle legaccia li … tenere ammagate, et in specie come conobbe alla ligaccia del Gio. Maria che li erano state tre maye. – Interrogetur et monita sub poena censuris et excom.ne che revela dire la verita su quanto è stata domandata. – Interrogetur, se altre volte essa deposante è stata …”.

[xxxiii] ASV, Rel. Lim. Crotonen. 1590, 1597, 1603, 1606.

[xxxiv] ASV, Rel. Lim. Crotonen. 1610.

[xxxv] Il priore Ambrosio de Necastro ed il frate Geronimo de Cosenza, frati del monastero dell’Annunziata dell’ordine di S. Agostino, vendono un vigneto a Gio. Batt.a Quercio di Cutro, abitante nello stesso casale di Papanicefore. Il vigneto era pervenuto al convento per lascito di F. Rizzuto del luogo. ASCZ, Busta 118, anno 1629, ff. 15-16.

[xxxvi] “Adi 9 di Augusto 1613 morse la figlia del R.do Lupo di Costa di papa nicefora dico preti greco di papanicefora.” AVC, Libro dei Morti.

[xxxvii] AVC, Rel. Lim. Crotonen. 1617.

[xxxviii] Nel casale vi erano due chiese matrici: la chiesa arcipretale dei SS. Pietro e Paolo, dove c’erano la confraternita del SS. Sacramento e la cappella del SS. Rosario (che godeva privilegi e indulgenze apostoliche concesse dal maestro generale dell’ordine domenicano), e la chiesa parrocchiale di S. Nicola, dove aveva sede la confraternita con cappella di S. Maria del Carmelo. Vi erano inoltre, la chiesa della SS. Annunziata con il convento degli Agostiniani, e le due chiese del SS. Salvatore e di S. Rocco. ASV, Rel.Lim. Crotonen., 1631.

[xxxix] ASN, Provv. Caut. Vol. 248, f. 324.

[xl] “Dopo viene S. Giovanni Minagò e Papaniceforo casali de’ Greci, ma detto Papaniceforo pochi anni sono pagò ducati quindecimila alla Regia Corte per redimersi d’essere casale di Crotone, e hoggi viene mandato dall’eccellenza del Regno il capitano”. Nola Molise G.B., Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone, Napoli 1649, p. 90.

[xli] Nel 1743, l’università di Papanice possedeva due gabelle di tt.a 90 dette “Il Prato” e “La Botte”, e tt.a 45 di terra dette “Li Comuni”. ASN, Cam. Som., Catasto Onciario Cotrone, 1743, vol. 6955.

[xlii] Non avendo pagato la tassa di quattro grana a fuoco al mese per il “soccorso della compagnia di soldati d’armi e cavalleria leggera”, nell’autunno 1627 gli abitanti di Papaniciforo devono alloggiare e mantenere a loro spese una “troppa di soldati”, facente parte della cavalleria del marchese di Sant’Agata, stanziata a Mesoraca. ASCZ, Busta 118, anno 1627, ff. 55-56.

[xliii] ASCZ, Busta 49, anno 1612, ff. 8-10, 25.

[xliv] Jo. Andrea Sculco compra da Josepho Presterà le terre di Pisciotta. ASCZ, Busta 49, anno 1612, f. 8. J. H. Raimundo compra da B. Barricellis le terre di Micisi per ducati 1500. Non avendo né denaro liquido, né altro mezzo più comodo per il pagamento, si impegna a versare ogni anno ducati 95 al venditore. ASCZ, Busta 49, anno 1612, f. 71. Jo. Petro Raimondo de Papaniceforo, dona al figlio chierico Jo. Vincenzo, le sue proprietà: le gabelle Gruttari e Li Miccisi, tre “apoteche” o case poste nel paese, un orto chiuso, alberato con gelsi ed altre piante, e 50 vacche. Cutro 24.2.1601, f. 46, ASCZ.

[xlv] ASCZ, Busta 118, anno 1632, ff. 115-116.

[xlvi] Maone P., San Mauro Marchesato, Catanzaro 1975, pp. 112-113.

[xlvii] Nel 1680 l’università di S. Nicola dell’Alto, casale di Casabona, faceva presente al vicerè, come non avendo territori propri per poter seminare e raccogliere vettovaglie necessarie per alimentarsi, gli abitanti erano costretti coltivare nei territori di Strongoli e Melissa. Essendo stata la raccolta scarsa, il governatore di quelle terre impediva di estrarre il loro grano. ASN, Prov. Caut. 243, f. 167.

[xlviii] Jo. Andrea Sculco del casale di Papanicefore, dona al figlio Jo. Petro le terre di Pisciotta. ASCZ, Busta 49, anno 1612, f. 8.

[xlix] ASCZ, Busta 118, anno 1629, ff. 46-48.

[l] G. P. Sculco per mezzo del figlio Carlo, vende in Napoli al cavaliere fra G. Diodato tt.a 5000 di grano della raccolta del 1629. A causa di altri negozi e per l’infermità dei figli, lo Sculco tarda la consegna. ASCZ, Busta 118, anno 1630, ff. 13-14.

[li] ASN, Ref. Quint. Vol. 201, f. 318.

[lii] L’ufficio di guardiano del porto passò poi a Carlo Sculco e alla sua morte al fratello Gio. Andrea. ASCZ, Busta 335, anno 1687, ff. 55-60.

[liii] Nel 1645, dovendo pagare il donativo, l’università di Crotone mette all’asta il dazio piccolo di un carlino per ogni tomolo di grano per il pane. Vi concorre Gio. Fran.co Sculco di Papanici che offre duc. 1800. ASN, Prov. Caut. 201, f. 135.

[liv] Stefano Sculco, vescovo di Gerace nel 1670, originario di Papanice, ebbe un governo difficile e fu accusato di vari misfatti. Russo F., Regesto, VIII, p. 289.

[lv] Francesco Sculco, barone di Montespinello, sposato con Cecilia Sculco, figlia di Tommaso Domenico, aveva istituito erede universale quest’ultimo ma, poiché l’erede in feudalibus per legge d’investitura, doveva essere la sorella Antonia, si accese una fierissima lite nel Sacro Regio Consilio, finchè le parti non si accorsero che i debiti, che il barone aveva lasciato, assorbivano quasi tutta l’eredità. A Tommaso Rota, barone di Cerenzia, al quale Antonia Sculco aveva venduto Monte Spinello, rimase il feudo, a Tommaso Domenico andò il titolo baronale che, dopo poco, cedette al Rota. ASCZ, Busta 664, anno 1733, ff. 84-85.

[lvi] Tomaso Domenico nacque il 5 marzo 1664 in Papanice e fu battezzato nella chiesa di S. Nicola dei Greci. Malevitava, seu Crotonen. praetensae admissionis ad habitum, Mainardi 1729, f. 21.

[lvii] Gio. Francesco Sculco lasciò per testamento rogato in Napoli nel 1665 per mano del notaio C. A. Casari al nipote tra gli altri beni alcune case e botteghe a Papanice col peso di ducati 7 da pagarsi annualmente agli Agostiniani per la celebrazione di una messa alla settimana per l’anima del testatore. ASCZ, Busta 860, anno 1759, ff. 127-128.

[lviii] AVC, Acta Sanctae Visitationis ab Ill.mo ac R.mo D.no Episcopo D. Marco Rama Ordinis Eremit.rum S.ti Augustini, A. D. 1699 confectae, ff. 67v, 81v.

[lix] ASV, Rel. Lim. Crotonen. 1670.

[lx] Sculco N., Ricordi di avanzi di Cotrone, Cotrone 1905, p. 49. Secondo questa leggenda le sette famiglie del patriziato di Negroponte sbarcarono a Crotone nel 1409. Allora Cortina era abitata da pochi contadini avventizi che vivevano in capanne. I nuovi arrivati ottennero di potervi fabbricare case e chiese e di dare al luogo il nome di Papanicefore in onore del negropontino Papa Niceforem, guida spirituale, che li aveva seguiti in esilio. Valente G., La Calabria, p. 33.

[lxi] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1675. Mazzoleni J., Fonti per la storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734) esistenti nell’Archivio di Stato di Napoli, Edisud 1968, p. 259.

[lxii] Verso l’anno 1653 sorsero controversie tra la città di Cotrone e l’ex casale Papanice, da una parte, ed il barone dell’Isola dall’altra. Il 20 febbraio 1653 fu riconfermato con ordinanza a Crotone e Papanice il diritto di pascere, servata la forma del decreto del 1530, ed in accordo con quanto diceva l’apprezzo della città di Isola dell’anno 1633; diritto che certamente prova che il territorio del Bosco dell’Isola fosse promiscuo, AVC, Nota de fatti a … e pro dell’un.ta della città di Cotrone contro all’un.ta della città dell’Isola, 1743.

[lxiii] ASV, Rel. Lim. Cariati-Cerenzia, 1616, 1621.

[lxiv] ASV, Rel. Lim. S. Severinae, 1725.

[lxv] ASV, Rel. Lim. Bellicastren., 1665.

[lxvi] ASV, Rel. Lim. Bellicastren., 1692.

[lxvii] ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1647.

[lxviii] S. Giovanni di Palagorio era stato fondato dal principe di Cariati all’inizio del Seicento e popolato da “Albanesi”, che all’insediamento dichiararono di seguire il rito latino ma subito dopo passarono al greco. ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1678.

[lxix] ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1684. Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 336.

[lxx] ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1662, 1666.

[lxxi] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1640. Nola Molise G. B., Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone, Napoli 1649, p. 90.

[lxxii] Nella chiesa di S. Nicola dei Greci vi erano inoltre le cappelle di S. Maria della Consolazione dei Peta e di S. Maria de Calcha, fondata dal marchese Marco Crassidonte. ASCZ, Busta 119, anno 1638, f. 25. Russo F., Regesto, V, 488.

[lxxiii] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1640. Nel settembre 1663 Io. Domenico Aprigliano, nominato nell’ottobre 1661 parroco di S. Nicola dei Greci, era promosso arciprete di S. Pietro e Paolo per morte di Annibale Grisafi. Russo F., Regesto, VIII, 35, 92.

[lxxiv] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1667. Il 26 gennaio 1682, il vescovo Geronimo Carafa faceva presente che “Havendoci fatto instantia il R.do economo di questa mia mensa vesc.le che il sindico della t.ra di Papanici mia diocesi ogni anno nel di della Nativita di N.ro Sig.re per tempo immemorabile ha riconosciuto questa mia mensa di un porco in segno di di ubbidienza e perche il pred.o sindico seu suo esattore ha mancato di complire del segno d’ubbidienza nella prossima passata natività … ”. AVC, documento senza segnatura.

[lxxv] Giuseppe Sculco, “avendo conosciuto per la mia dimora in questa terra una gran miseria e povertà della medesima”, lascia per testamento ducati mille per fondare un monte di maritaggi nella chiesa parrocchiale di S. Nicola per dotare due povere appartenenti a famiglie onorate, con la clausola che, in caso “si venisse a depopulare questa terra di Papanice detto Monte di Maritaggi si possa trasferire nella città di Cotrone o in altro luogo”. Malevitava, seu Crotonen. praetensae admissionis ad habitum, Mainardi 1729, pp. 24-25.

[lxxvi] Alla fine del Quattrocento non esistevano più le terre vicine di Cromito, Aprigliano, Lachani, S. Stefano, S. Mauro de Carava, Crepacore, Scandale. Fiore G., Della Calabria Illustrata, III, p. 464. ASN, Ref. Quint. 207, ff. 79-122.

[lxxvii] Giustiniani L., Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, VII, Napoli 1804, p. 129.

[lxxviii] Pacichelli G. B., Il Regno di Napoli in Prospettiva diviso in Dodeci Provincie, Napoli 1703, p. 147.

[lxxix] C. Castagno, poiché il marito è in carcere per non aver saldato un debito contratto nel 1671, per poter dare da mangiare alla sua famiglia, vende per liberarlo una casa dotale, sita vicino all’Annunziata. ASCZ, Busta 334, anno 1673, ff. 12-14.

[lxxx] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1670, 1675.

[lxxxi] Isabella, vedova di S. di Donato, accusa G. D. Sculco di Papanice di averle ammazzato l’anno prima il marito. ASCZ, Busta 312, anno 1665, f. 46.

[lxxxii] ASN, Prov. Caut. Vol. 240, f. 53 (1679).

[lxxxiii] ASN, Prov. Caut. Vol. 243, f. 200 (1680).

[lxxxiv] Morto il governatore della terra Giorgio Diaz y Orosso, era subentrato nella carica il castellano di Crotone Domenico Rodriguez, il quale, per assenza del governatore di Crotone, ebbe anche quella carica. Morto il castellano, governatore di Papanice e di Crotone, subentrò nella carica di governatore di Crotone, il sindaco dei nobili di quella città Gioseppe Suriano, il quale pretese anche la carica di governatore di Papanice, ma ne fu bloccato per il ricorso degli abitanti, che presentarono i privilegi demaniali “con i quali sta concesso che per l’assenza o morte del regio governatore lo detto officio et la giustitia di detta università si eserciti dal mastrogiurato pro tempore di detta terra di Papanice”. ASN, Prov. Caut. 248, f. 324 (1682).

[lxxxv] Dai circa 1200 abitanti della metà del secolo, alla fine del Seicento Papanice era ridotta a meno di 400 abitanti. ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1692, 1700.

[lxxxvi] ASN, Prov. Caut. Vol. 263, f. 69 (1688).

[lxxxvii] “Il sindaco e reggimento della terra di Papanice supp. V. E. come per molte spese forzose occorse nell’odierna amministratione del sindaco mio predecessore è rimasto scoverto un terzo pagabile alla R. C. e al Collegio Imperiale di Madrid, assegnatario di fiscale ascendente alla somma di duc. 240 della quale somma d.o Sindaco predecessore s’è esibito e obligato pagarne per duc. 140 et esso supplente et università mediante conclusione fatta a 16 gennaio di questo anno 1688 per li restanti duc. 100 non havendo altri effetti ha proposto in pubblico parlamento e con consenso di tutti i cittadini imporsi tassa generale ultra catastum per detta somma di duc. 100.” ASN, Prov. Caut. 263, f. 69.

[lxxxviii] I Raymondi, i Guarany e i Franco andarono a Cutro, i Peta a Isola, i Coco a Umbriatico ed i Grisafi a Belcastro. Valente G., La Calabria, p. 34.

[lxxxix] N. Terrioti di Papanice, “casato e commorante in Cotrone”, compra alcune fosse di grano, un magazzino e due camere da G. Montalcini. ASCZ, Busta 664, anno 1733, f. 2.

[xc] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1678.

[xci] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1681.

[xcii] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1692.

[xciii] “Huc ego paterna charitate motus proxime elapso mense maio me contuli, et commiseratus iniurias sacro chrismate quamplurerimos confirmavi, nec non ecclesiarum decorem quantum par erat restitui”. ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1693.

[xciv] Ughelli F., Italia Sacara, IX, 383. Pacichelli G. B., Il Regno di Napoli in Prospettiva diviso in Dodeci Provincie, Napoli 1703, p. 79

[xcv] Russo F., Regesto, IX, 48345.

[xcvi] Nel 1720 è Tomaso Bisiglie. Malevitava, seu Crotonen. praetensae admissionis ad habitum, Mainardi 1729, pp. 21-22.

[xcvii] Nel 1724 l’arciprete di Papanice Giovanni Calendino di Paterno vende a Rocco d’Elia due casette di creta con orticello unito in par. di S. Rocco. ASCZ, Busta 662, anno 1724, f. 136.

[xcviii] ASCZ, Busta 497, anno 1707, ff. 85-86.

[xcix] Il giorno di S. Marco del 1721 una comitiva composta dalla sposa Anastasia Sculco assieme alla madre dentro un carro, e dallo sposo Ignazio La Vigna appresso a cavallo con il fratello della sposa, entra in piazza e “l’uscirono all’incontro per onorarla molte genti paesane col sparo di molte scopettate”. Il chierico G. G. di Bona ne approfitta, e con il suo “pistone” uccide lo sposo ed il fratello della sposa. ASCZ, Busta 614, anno 1724, ff. 108-109.

[c] T. D. Sculco possedeva le terre di Cortina, Jannello, Mutrò, Misistrello Grande, Columbra, La Volta de S. Nicola ed una vigna con torre e casella. ASCZ, Busta 613, anno 1722, ff. 101-102.

[ci] Tra i coloni e massari di Papanice ricordiamo: Antonio e Vincenzo d’Elia, Antonio Raimondo, Francesco Olivo, Filippo Fallone e Antonio Bonelli. ASCZ, Busta 614, anno 1729, ff. 8-9. ASN, Dip. Som. 315, (1711-1712).

[cii] Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, pp. 362-364.

[ciii] Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, p. 362.

[civ] Le università di Crotone, Isola e Papanice oltre a fornire pane, orzo e paglia alla compagnia del reggimento del marchese Roma, con l’inizio del nuovo anno devono anche anticipare cinque grana al giorno per la paga di ogni soldato. ASCZ, Busta 613, anno 1720, ff. 46v-48.

[cv] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1722.

[cvi] Malevitava, seu Crotonen. praetensae admissionis ad habitum, Mainardi 1729, p. 57.

[cvii] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1754.

[cviii] ASV, Rel. Lim. Crotonen., 1760-1779.

[cix] AVC, Anselmus de la Pena, Visita, 1720, ff. 41, 47, 75. ASCZ, Busta 612, anno 1715, f. 191.

[cx] Carlo dichiarò che il padre era originario di Crotone ma fu smentito dalla fede di battesimo: “7 marzo 1664 in Papanice. Ego Don Ioannes Dominicus Aprigliano aeconomus Sancti Nicolai Graecorum de venia Rev. D. Thomae de Hante Archipresbyteri baptizzavi infantem natum sub die 5. currentis mensis ex Iosepho Sculco, et D. Antonia Maria de Paz Palomeque coniugibus, cui impositum fuit nomen, Thomas Dominicus patrinus fuit D. Ioannes Franciscus Raymundus dictae terrae”. Di Carlo Sculco rimane una epigrafe a Capocolonna: “DOM/ Qui fu il celebre tempio di Giunone e la celebre scuola pitagorica. Fra Carlo Sculco Cav. Gerosolimitano allettato dalla salubrità dell’aria edificò questo casino per sé ed i suoi amici.” Sculco N., Ricordi di avanzi di Cotrone, Cotrone 1905, p. 45.

[cxi] ASV, Secreteria dei Brevi, Vol. 2588, ff. 380-381.

[cxii] Vaccaro A., Kroton, MIT Cosenza 1966, vol. I, p. 408.


Creato il 21 Febbraio 2015. Ultima modifica: 27 Aprile 2023.

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